Siena

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Siena

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Siena ( , סיינא[1] סינה)

Capoluogo di provincia. Sorge nel centro dell’altopiano toscano, sulle alture che  separano il bacino dell’Arbia (Ombrone) da quello dell’Elsa (Arno). Zona di insediamento etrusco, poi colonia romana, fu inclusa, in seguito, nella Tuscia longobarda. Libero Comune di grande importanza mercantile, S. fu in continua espansione nel secolo XIII, nonché in lotta con gli altri Comuni toscani e soprattutto con Firenze. La guerra tra Firenze e S., complicata dalle mire espansionistiche di Gian Galeazzo Visconti, godette di una tregua , tra la fine del 1391 e l’inizio del 1392 e nel 1399 fu stipulata la pace e al Visconti venne data la Signoria della città.

S. partecipò alle guerre dei secoli XV e XVI in funzione anti-fiorentina, mentre al suo interno si contendevano il potere vari partiti, tra cui il partito quello dei “nove” e quello dei “popolari”.  Nel 1482 i “nove” furono messi al bando: tra questi vi era anche Pandolfo Petrucci che divenne il capo dei fuorusciti e riuscì a penetrare, nel 1487, a S. instaurando un governo in cui tutti gli ordini erano rappresentati sotto il suo potere.

I successori di Pandolfo non seppero consolidare il principato e vennero cacciati nel 1523. Dati questi disordini interni, l’imperatore Carlo V aveva inviato da tempo un suo delegato a S., mentre Clemente VII cospirava con i fuorusciti per dare la città ai nipoti. Un complotto fallito indusse il papa ad attaccare S., venendo vinto a Camollia, nel 1526: la tutela imperiale crebbe  e fu stabilita in città una guarnigione spagnola.  

Quando, nel 1545, prevalsero i “popolari”, questi costrinsero il rappresentante dell’imperatore Carlo V ad abbandonare la città, insieme al presidio spagnolo,ma l’imperatore, tramite il suo ambasciatore presso la Curia papale, Don Diego Ortado de Mendoza, riuscì in un paio d’anni a ristabilire l’influenza spagnola. I senesi, desiderosi di ribellarsi, si allearono con gli esuli politici e con il re di Francia: nel 1552, venne assediata  la città e le truppe spagnole furono cacciate. L’imperatore fu costretto a confermare l’indipendenza di S., ma, in seguito, appoggiò Cosimo de’ Medici che voleva conquistarla. Dopo lungo assedio, S. venne sconfitta nel 1555[2] e annessa al Granducato fiorentino, seguendone le sorti.

Da segnalare la presenza di un’antica e prestigiosa università a S., da cui uscirono alcuni laureati in medicina ebrei, tra i quali, tuttavia, non sembrerebbero esservi senesi[3].      

Nel 1228 sono attestate due presenze  ebraiche a S., una di un  ebreo che combatté, come soldato a cavallo, con le milizie comunali, e l’altra di un barattiere incaricato  di frustare  i ladri per le vie della città[4].

L’esistenza di una universitas judeorum nel  1299, data  per assodata dagli storici, è stata smentita  da uno studio dell’inizio degli  anni  Ottanta del XX secolo, in cui è stata messa in luce l’origine di tale informazione erronea, dovuta alla lettura scorretta di un documento[5].

Tra le pochissime testimonianze relative alla presenza ebraica durante la prima metà del XIV secolo, vi sono, nel 1302, due pagamenti fatti al “giudeo barattiere” per presumibili servizi resi al Comune e la sovvenzione concessa da quest’ultimo, nel 1318, al neofita Giovanni di Vitale da Roma[6].

Un documento del 1309,  relativo alle  trattative del Comune  di S. Gimignano per farvi giungere degli ebrei prestatori, attesta l’esistenza di iudei commorantes in civitate Senarum (in particolare, tre feneratori e i loro figli)[7].  

In seguito all’epidemia di peste (o morbo nero) del 1348, che fece moltissime vittime anche a S., pare che soffrissero persecuzioni anche gli ebrei locali, accusati di aver propagato il contagio inquinando le acque nelle terre colpite dall’epidemia[8].  

Alla fine degli anni Trenta del secolo, intanto, il Comune aveva manifestato preoccupazione per le eccessive usure dei feneratori cristiani che avevano in mano, all’epoca, il prestito: nel clima di tensione politica e di difficoltà economico-sociali che caratterizzò la caduta del governo dei Nove,  nel 1355, acquistò un significato peculiare il riconoscimento ufficiale dell’attività creditizia ebraica, avvenuto con l’accoglimento della richiesta di Vitale di Daniele di trasferirsi a S. per fenerare, secondo gli statuti della città, anche se in deroga ad alcune “riformanze”. Vitale risultava aver già prestato una somma (350 fiorini d’oro) ad un  tasso di interesse estremamente basso (5% annuo) ai quattro provvisori di Biccherna, prestito di cui chiedeva l’immediato rimborso in caso gli fosse stata vietata l’attività feneratizia. Nella sua petizione Vitale faceva riferimento alla proibizione del prestito per i forestieri degli Statuti e delle riformanze, ricordando le difficoltà sollevate contro quanto gli era già stato promesso e insistendo sulle necessità di derogare dalle norme statutarie[9]

Nel 1358 il Comune confermò l’atteggiamento favorevole al prestito ebraico, concedendo a Consiglio di Dattaro di Consiglio di prestare a S. per venti anni, come si apprende da una delibera del 1375, in seguito alle rimostranze di Consiglio perché  non erano stati rispettati i patti e le immunità concessigli[10]. Nella delibera il Consiglio Generale decideva di derogare agli Statuti vigenti, data la necessità di denaro per pagare gli stipendi di svariati funzionari e tre anni dopo, annullò una forte multa inflitta al feneratore, purché prestasse al Comune.

Nel 1387 Consiglio compare ancora come titolare di patti con il Comune, associato con  i fratelli Sabbato e Abramuccio di Gaio di Angelo e Salomone del fu Matassia di Sabbatuccio[11]

Nel 1384, però, era stato fatto un tentativo di allontanare gli ebrei dalle strade del centro, forse per motivi legati alla presenza di persone socialmente indesiderate che si volevano rimuovere dalla zona o forse per colpire l’attività creditizia ebraica: in ogni modo, Consiglio di Dattaro e il suo entourage risultavano comunque abitare nella zona centrale, intorno alla chiesa di S. Pellegrino[12].

Nel 1393 il Consiglio Generale stabilì provvedimenti che favorissero una libera concorrenza nell’attività feneratizia: dal 1395 al 1398 sono attestati restrizioni e controlli per limitare le attività ebraiche, tra cui la proibizione di contrarre crediti pubblici con gli ebrei e l’istituzione di un organo composto da quattro “savi e discreti cittadini di ogni Monte”, incaricati di occuparsi delle questioni presenti e future relative agli israeliti[13].  Tuttavia, la presenza ebraica risultava vantaggiosa rispetto alle molteplici spese che la città doveva affrontare ed i prestiti forzosi richiesti agli ebrei seguirono le modalità di quelli imposti ad altre categorie, essendo scritti nel debito pubblico e garantiti da gabelle[14].

Gaio e Angelo di Abramo de Urbe e Gaio di Angelo, prestatori residenti a S., aprirono banchi feneratizi a S. Gimignano(1392) e ad Arezzo(1399), Comuni soggetti a Firenze, presumibilmente in connessione con le vicende belliche tra Firenze e S.[15].

Gaio di Angelo, inoltre, non era solo una figura di spicco tra i feneratori senesi del periodo in questione, ma aveva anche un qualche ruolo politico, avendo inviato, insieme ai suoi soci, un oratore presso il Visconti, a Milano, in missione autorizzata (e forse finanziata) dal Comune senese[16]. Gaio risultava aver continuato a prestare al Comune anche per il primo decennio del XV secolo: la documentazione di tali prestiti  sembra attestare un controllo specifico da parte dei Regolatori per il prestito pubblico su pegno e un controllo in cui i prestatori venivano considerati alla stregua degli altri cittadini, dato che il loro credito nei confronti del Comune veniva iscritto nel debito pubblico (di competenza della Biccherna). Nel 1408, tuttavia, vennero nominati dei cittadini per trattare con Gaio la restituzione di un suo credito e, nel 1412, tre cittadini ( uno per ogni Monte in cui era suddivisa S.), furono preposti ad affiancare i Regolatori per quanto concerneva i rapporti tra ebrei e Comune, sorvegliando che i feneratori non contravvenissero ai patti[17].

Nel 1412, dopo aver menzionato i danni dell’usura, si stabilì, invece, di non rinnovare i patti che sarebbero scaduti otto anni dopo, proibendo il prestito ebraico nella città e nel contado con una grave multa: tuttavia, dal fatto che lo statuto prevedesse la liceità del prestito, ebraico e cristiano, a S. e contado, si è dedotto che il provvedimento fosse volto a frenare il monopolio feneratizio del titolare dei patti del 1408. Alla vigilia dello scadere della condotta (1420), il Comune risultava ancora pesantemente indebitato con gli ebrei e fissò il tasso al 22% (con conservazione dei pegni per 18 mesi): se l’ebreo fosse stato d’accordo con i nuovi patti, sarebbe stato ritenuto creditore del Comune ( e il suo credito sarebbe stato defalcato dalla cifra annuale di 1.500 lire che doveva pagare); se non fosse stato d’accordo, la rottura dei patti avrebbe portato alla fine del debito del Comune (ammontante a 10.500 lire)[18].      

Pochi mesi dopo, tuttavia, il prestito ebraico venne proibito, mentre il debito comunale avrebbe dovuto essere saldato all’interesse del 10%. La condanna dell’usura ebraica preludeva alla decisione del Comune di organizzare autonomamente il prestito e i feneratori cristiani si proposero in alternativa agli ebrei[19]

Nonostante la predicazione antiebraica di Bernardino da Siena, le ragioni dell’inasprirsi dell’atteggiamento comunale nei confronti del prestito ebraico sembrerebbero da ricercarsi, piuttosto, sia pure a titolo di ipotesi, nel ruolo tenuto da Gaio di Angelo nel periodo della dominazione viscontea, ruolo che l’avrebbe forse compromesso agli occhi delle autorità senesi, dopo la riconquistata autonomia della città[20].

Nel 1428 fu concessa agli ebrei libertà di culto, con l’obbligo, tuttavia, di astenersi da qualunque traffico e di tenere chiuse le botteghe nei giorni di festa del rito cristiano[21].

I problemi finanziari in cui era incorso il Comune per il pagamento dei mercenari, tuttavia, lo condussero, nel 1437, a rivolgersi per un prestito a Isaac di Consiglio, dietro garanzia della gabella del mosto: da parte ebraica, la richiesta creditizia fu patteggiata in cambio dell’abolizione dei provvedimenti contro  il prestito presi precedentemente[22].

Due anni più tardi, fu imposto il  segno distintivo  (una rotella gialla), da cui i feneratori  chiesero e ottenenero l’esenzione per il periodo della condotta[23].

Nel 1441 Josef di Guglielmo da Arezzo e i soci si ripartirono un mutuo ingente con il Comune, mentre furono loro concessi capitoli in cui venivano stabilite norme per comporre liti o vertenze con il Comune stesso[24].

Tra questa data e il 1457 il prestito ebraico continuò, come attesta, tra l’altro, il fatto che il Comune inviava due ambascerie (nel 1448 e nel  1456) a Roma  per  ottenere  l’assoluzione della Chiesa per aver già stipulato e per voler ulteriormente stipulare patti con gli ebrei[25]. Nel 1457, furono stipulati tra il Comune e Jacob di Consiglio da Padova patti che sono i primi relativi al prestito ebraico a S., di cui sia stato conservato il testo. Tali patti avevano come condizione iniziale il prestito al Comune di una notevole cifra di denaro da scalarsi dalla tassa annuale di esercizio dell’attività feneratizia. Jacob e i soci che avrebbe nominato venivano autorizzati ad aprire, per dieci anni, banchi feneratizi a favore dei cittadini senesi e di chiunque avesse avuto bisogno di un prestito, avendo la proibizione di prestare su pegni relativi al culto cristiano o di proprietà  del Comune e provvisti di stemma. Il prestito poteva essere su pegno o chirografario o fiduciario, potevano essere prese come garanzia proprietà immobiliari, purché non costituenti bene dotale e l’interesse permesso era del 20% annuo[26].
A Jacob e soci venivano concesse condizioni  di facilitazione che permettevano loro di detenere una sorta di monopolio del prestito.

I  feneratori venivano equiparati ai cittadini senesi,  per il periodo in cui  erano in vigore i  loro capitoli e venivano esentati dalla tassazione ordinaria e straordinaria,  ad eccezione delle gabelle di porti e di contratti. Oltre a  essere garantita loro la protezione in caso di guerra, veniva assicurata la tutela da procedimenti contro di loro che non fossero stati autorizzati dal Concistoro e, a differenza dei patti del 1444, gli ebrei potevano amministrare autonomamente la giustizia, infliggendo, tuttavia, solo pene pecuniarie (la detenzione o la pena di morte essendo  riservate   al podestà e  al  capitano di giustizia). Era garantita la libertà di  culto e l’esenzione dal segno  (di cui avrebbero goduto anche i collaboratori del banco e  le famiglie[27].

Nel 1471 venne fondato a Siena il Monte di Pietà, senza che il fatto comportasse nocumento agli ebrei, cui fu concesso di  continuare l’esercizio della attività creditizia, data l’insufficienza del Monte a sopperire ai fabbisogni della popolazione: pertanto, nel 1477, furono stipulati patti con Guglielmo di Dattilo (Dattero), ebreo di Montalcino, di cui era procuratore il figlio Isacco[28].

Tali patti erano stati formulati secondo il modello di quelli del 1457, ma con alcune varianti: durata quindicinale (e non decennale), capitale di investimento aumentato, garanzia della segretezza per chi avesse investito denaro nel banco, concessione di aprire un albergo per gli ebrei di passaggio, facoltà di vendere generi alimentari senza pagamento di gabelle[29].

Dal 1477 al 1526 è documentata una serie di patti tra i feneratori e il Comune e, nel 1526, gli ebrei ne ebbero la conferma, previo pagamento di una notevole somma di denaro (700 scudi d’oro di sole), senza, tuttavia, essere dispensati dal pagamento annuo di 600 lire al Camerlengo del Biado, pattuito nel 1477[30].

Per quanto concerne le conversioni nel XV secolo, risulta che, nel 1438, si fosse convertito a S. un ebreo d’origine riminese, menzionato nei documenti come Jacob Dattali, che, avendo al suo attivo accuse  per furto con scasso e per tentata violenza carnale ai danni di correligionari e ripetuti  rapporti  carnali con prostitute cristiane, si convertì assumendo il nome di Lorenzo Domenico e scampò, pertanto, alla pena comminatagli[31].

Verso gli inizi del XVI secolo (e cioè, una trentina d’anni dopo la sua istituzione), il Monte andava declinando ed il prestito  era concentrato in mano ebraica[32].

Dalla fine degli anni Ottanta del Quattrocento, intanto,, il titolare del banco di S. era Lazzaro di Manovello da Volterra, cui erano associati Vitale di Isac da Pisa, Mosè di Dattilo da L’Aquila e Mosè di Angelo da Rieti: con quest’ultimo iniziava la significativa presenza della famiglia da Rieti nella città[33].

Nel 1521 la condotta fu rinnovata ai figli di Mosè da Rieti, Laudadio (Yishmael), Isacco e Dattilo (Yoav)[34].

In seguito alla richiesta dei banchieri, nel 1526 i capitoli vennero confermati per venti anni e lo stesso avvenne nel 1545, ma con la condizione che la tassa annua sarebbe stata aumentata (da 600 a 700 lire, cioè a 100 scudi) e con il prestito forzoso di una ingente somma al Comune. Nel 1553 vi fu un ulteriore rinnovo della condotta, in cui si ribadiva che il prestito era concesso in esclusiva a Laudadio ed ai suoi eredi, pena una fortissima ammenda.

L’anno dopo, i da Rieti dovettero fare un ultimo prestito senza interessi al Comune, per una cifra da restituire in tempo molto breve. Previa corresponsione di un’ulteriore somma (100 scudi d’oro), vennero poi accolte le richieste dei da Rieti di poter uscire dalla città, data la situazione (guerra di Siena) e di trattare un salvacondotto con il nemico per una parte della famiglia[35].

Nel 1555 venne permesso a Simone da Rieti e alla famiglia di lasciare la città, a seguito del versamento di un prestito (50 scudi d’oro). Laudadio ed il figlio Mosè rimasero, invece, a S., ottenendo nel 1556 un rinnovo della condotta per diciassette anni.

Nello stesso anno, Laudadio assegnò a Mosè la ragione del banco di S., che, alla morte di Laudadio nel 1558, passò agli eredi, i quali dovettero regolare tra loro le questioni ereditarie. I documenti attestano che, sino al 1570, il banco fu gestito da Mosè e da Simone da Rieti, che avevano come procuratore per il territorio senese il correligionario Joachinino. Oltre che in altre località toscane, i da Rieti avevano un banco anche a Casole, considerato come una sorta di filiale di quello senese[36]

Presumibilmente intorno alla metà del secolo, l’apostata Hananel da Foligno (che contribuì, insieme ad altri convertiti, alla campagna antiebraica, conclusasi con il rogo del Talmud del 1553) venne a S. per predicare contro gli ebrei, cercando, tra l’altro, di intavolare questioni di ordine religioso con Samuele da Rieti, che gli teneva testa con l’aiuto del rabbino Yosef da Arles[37].

Nel 1569 i gestori del banco senese si rivolsero a Cosimo per far accogliere alcuni degli ebrei appena espulsi dagli Stati della Chiesa da Pio V, ricevendone un netto rifiuto. Coerentemente con l’atteggiamento di ossequio ai desideri papali, assunto per ottenere il titolo granducale, Cosimo, nel dicembre del 1571, emanò a S. l’editto di reclusione nel ghetto, dove dovevano andare a vivere tutti coloro che non avessero preferito andarsene dalla Toscana (o, eventualmente, trasferirsi a Firenze, dove era stato istituito l’altro ghetto)[38]. Poco prima era stato poi già  ribadito l’obbligo del segno distintivo, ripetuto anche l’anno successivo (1572).  

Con la segregazione veniva anche a cessare il permesso di esercitare il prestito. I da Rieti, tuttavia, decisero di rimanere a S., dove Simone chiese di poter rientrare nel 1578, domandando  altresì di abitare nella casa occupata in precedenza e di esercitare il commercio. Tre anni dopo, gli eredi di Simone (morto nel frattempo) chiesero di poter tenere case e botteghe fuori dal ghetto e di essere  esentati dal segno, ricevendo l’assenso delle autorità che, tuttavia, limitarono al primogenito l’esenzione dal segno[39].

Lungo l’arco del XVII secolo, la Comunità ebraica  si rivolse di tanto in tanto alla Balia per impetrare nuovi aiuti alle sue nuove molestie[40]. In quel periodo il divieto di tenere personale cristiano nelle botteghe o nelle case  non valeva per quanti, senza coabitare con gli ebrei, servissero nelle loro case e botteghe e vi portassero acqua, legna e lavorassero panni dei medesimi o facessero per loro altri accidentali et interrotte faccende per le quali restasse esclusa l’intenzione della legge che era di proibire totalmente la coabitazione[41].

Sulla vita di un abitante del ghetto senese, piccolo mercante di stoffe e di vesti usate, nel periodo tra il 1625 e il 1633, resta l’insolita testimonianza di un’autobiografia[42]

Nel 1735 furono rivedute le leggi pubblicate a Firenze contro gli ebrei, vietando di maltrattarli, deriderli e usar loro qualsiasi violenza, ivi compresi i tentativi di sottrarre i minori a scopo di conversione, e di tali provvedimenti goderono anche gli ebrei senesi[43].

In occasione della visita del granduca Pietro Leopoldo a S., nel 1766, la Comunità locale offrì una festa che suscitò l’approvazione generale[44].

Nel 1798 un terremoto provocò gravissimi danni, sia agli edifici monumentali che alle casupole delle ripide pendici cittadine, ma non si sa se ne causò anche al quartiere ebraico ( sito nel settore scosceso del colle San Martino).

Due  mesi dopo l’ingresso delle truppe francesi a S., nel marzo del 1799,  gli ebrei furono costretti a consegnare gli oggetti di culto in metallo prezioso della sinagoga, similmente a quanto avvenne per gli oggetti di valore delle chiese[45].

Nel 1799 il movimento antifrancese sanfedista, scoppiato ad Arezzo, ebbe gravissime ripercussioni a S., dove i sanfedisti entrarono il 28 giugno dello stesso anno, assalendo il ghetto, saccheggiando le case e la sinagoga  e trucidando svariati ebrei, tra cui alcuni fuggitivi da Monte San Savino[46]. Al fanatismo religioso dei sanfedisti si unì la convinzione che gli ebrei parteggiassero per gli ideali francesi, come attesta un cronista dell’epoca, scrivendo: i Giudei di Siena inaffiavano l’albero [della libertà] e lo custodivano per inchiodarvi e farvi pendere i fedeli seguaci del Nostro Signor Gesù Cristo[47].

Due giorni dopo i fatti di sangue, il comandante generale delle truppe impose un pesante tributo finanziario alla Comunità ebraica, nonostante i saccheggi subiti; il mese successivo venne imposto un ulteriore tributo, cui si cercò di far fronte con gran difficoltà[48].

In memoria dell’eccidio, la Comunità  decretò, per molti anni, un giorno di digiuno il 25 di Sivan (corrispondente al 28 giugno del calendario cristiano), secondo quanto attesta il Libro della Scuola di quell’anno[49]. In seguito all’infausto avvenimento, è stato ritenuto che molti ebrei abbandonassero la città[50]

Attività economiche

Gli ebrei presenti a S. nel XIV secolo erano dediti all’attività feneratizia. Mentre negli accordi stipulati precedentemente tra di essi ed il Comune non venivano stabiliti i tassi di interesse, nel 1392  il tasso fu regolamentato al 30% annuo (come nei patti stipulati a S. Gimignano, all’inizio del secolo) e la durata del deposito del pegno fu portata a due anni (anziché uno), in considerazione delle guerre e delle carestie[51]

Fino al 1412, il tasso di interesse era stabilito al 29%[52], ma  nel 1420 esso fu portato al 22% circa e nel 1477 al 20% [53].

Agli inizi del XVI secolo, il tasso fu innalzato di nuovo al 30% solo per i mutuanti forestieri[54].

Nella condotta del 1521 concessa ai figli di Mosè da Rieti (che ricalcava più o meno i patti del 1477), vi era inserita una concessione nuova, relativa al permesso di tenere sia nella città che nel contado una o più botteghe di rigattiere e merciaio, vendendo le merci senza tassa ulteriore rispetto a quella abituale per la concessione del prestito[55].

Dopo il divieto dell’attività feneratizia (1571), gli ebrei si dedicarono presumibilmente al commercio (in particolare, tessuti) non necessariamente usata[56].

Intorno alla metà del XVII secolo, la corporazione dei merciai presentava un memoriale al servandissimo principe per impedire alli medesimi [ebrei] la fabbrica di nastri, trine et altre mercanzie, cui la Comunità ebraica rispose con una petizione, nel 1651, per pregare di non accogliere tali richieste che li avrebbero necessitati a morirsi di fame overo scapare dalla città[57]: la pratica, affidata ai deputati sopra gl’hebrei fu risolta a loro favore[58].  

Dopo vari tentativi dell’Arte della lana di impedire il commercio ebraico nel settore, nel 1684, le autorità decisero di concedere agli ebrei di continuare, per due anni, a commerciare in lana e rotami (cascami)[59].

Alla fine del XVII e agli inizi del XVIII secolo, alcuni ebrei risultavano essere appaltatori del tabacco, dell’acquavite, della carta e dei cenci e carnicci[60] 

 

Vita comunitaria

La comunità di S. era amministrata, sin dal 1647, da un Consiglio maggiore (Vaad gadol), composto da tredici membri e da un Consiglio minore (Vaad qatan), composto da cinque membri. Quest’ultimo era addetto alla riscossione delle tasse per sopperire alle spese generali della Comunità. Le frequenti dispute tra i due Consigli richiesero più di una volta l’intervento granducale e nel 1768, il Granduca regolò con ordine sovrano gli obblighi dei due consigli e dei Massari[61].

Durante l’epoca del ghetto vi erano svariate confraternite, tra cui la Bikkur holim per visitare e soccorrere i malati  e la Gemilut Hasadim (o Misericordia) per l’assistenza ai bisognosi[62].

Demografia

Dopo l’istituzione del ghetto, gli ebrei residenti a S. sarebbero stati meno di un centinaio[63]. Secondo i registri della parrocchia di San Martino (nell’area del ghetto), la popolazione ebraica senese, nel 1685, sarebbe stata di 371 persone, suddivise in 68 nuclei familiari: il notevole incremento demografico sembrerebbe da attribuirsi alle immigrazioni da Roma, Firenze, Venezia e Pitigliano di israeliti venuti a S. per esercitarvi il commercio, ancora relativamente fiorente, nonostante le restrizioni[64].

Nel 1697 la popolazione era di 408 persone, mentre da un censimento del 1766 risultarono  esservi 350 ebrei[65].

Nel 1777 la Comunità era di poco più di trecento individui e nel 1793 gli ebrei erano 431[66].

Ghetto

Una volta decretata l’istituzione del ghetto, il Granduca incaricò, nel 1572, il Collegio di Balia, che a propria volta nominò quattro dei suoi membri, per cercare il luogo adatto allo scopo, identificato nel settore del colle di S. Martino, compreso tra la via del Porrione e la via Salicotto, in cui furono collocati i due portoni che chiudevano il quartiere ebraico. La zona prescelta era vicina alla piazza del Campo e al mercato, da un lato, e confinava, dall’altro, con l’antica chiesa di S. Martino. Tra la via Salicotto e la via S. Martino vi era una rete di strade: via delle Scotte, vicolo del Luparello, vicolo del Rialto, via degli Archi, vicolo della Fortuna, vicolo della Manna, vicolo della Coda e vicolo del Vannello[67].    

Nel ghetto vi era una fonte, chiamata “Fonte del Ghetto”, che era adornata di una statua di Mosè in atto di additare le scaturigini dell’acqua[68].

Sinagoga

Da documenti dell’archivio della Comunità ebraica risulta che nel 1776 era stato concluso l’accordo per la costruzione di una sinagoga, sita in quella che veniva chiamata la “piazzetta del Tempio”,  presumibilmente per l’esistenza di una “Casa di preghiera”, ubicata sopra la bottega di un bottaio. I lavori per la costruzione della sinagoga furono iniziati, tuttavia, nel 1786, sotto l’amministrazione di Salvatore Gallichi e Alessandro Borghi. L’architetto fiorentino Zanobi del Rosso e il figlio Giuseppe, eseguirono i lavori, mentre gli ornamenti e le opere in legno furono eseguiti dai maestri legnaioli Nicolò Jande e Pietro Rossi. L’inaugurazione (nel 1786) fuaccompagnata da festeggiamenti, durati più giorni. L’edificio è stato descritto come una fabbrica degna di vedersi da qualunque persona, per la magnificenza non solo dell’edifizio, ma ancora per tutto quello che si rinchiudeva nel medesimo[69].

Cimitero

Da un documento del 1611 si rileva che gli ebrei possedevano un cimitero nel quale per tanto tempo che non è memoria d’huomo incontrario, i morti che sono stati  per i tempi di detta Università si sono seppelliti in un campo fuori  di Porta S. Viene volgarmente chiamato il campo delli Hebrei, il quale per ciò  si è creduto essere di detta Università per ragioni di pieno dominio[70].

Il cimitero, ubicato nella moderna via Linaiolo, era, presumibilmente, l’unico della Comunità e, data la vastità della sua area, si ritiene abbia potuto servire da sepoltura a tutti gli ebrei che la formarono[71].    

Rabbini, dotti, personaggi famosi.

Fu ospite del banchiere Laudadio (Yishmael) da Rieti (Da Rieti) il noto David ha-Reuvenì (Reubeni), avventuriero con ambizioni messianiche, che, tuttavia, non riuscì a convertire ai propri progetti il suo anfitrione, che dichiarò di preferire S. a qualsiasi altra città, compresa Gerusalemme. Laudadio, cognato di Vitale di Isacco (Yehiel) da Pisa e probabilmente pronipote di Mosè di Isacco da Rieti (l’autore della nota imitazione della Divina Commedia, dal titolo Miqdash Meat o Piccolo Santuario), fu descritto nel diario del Reuvenì come uomo avaro e di poca fede che non mantenne le promesse di aiuto fattegli[72]. Laudadio aveva fatto della propria dimora senese una “casa di riunione per i saggi”, in cui convergevano autorevoli rabbini, ingaggiati per curare l’educazione ebraica dei figli, per dirimere questioni normative e per offrire consulenza tecnica (nel campo della Legge ebraica) nel caso di controversie di carattere giuridico.

Ospite con tali mansioni in casa da Rieti, tra il 1530 e il 1536, fu il rabbinoYohanan di Yosef Treves, autore di un noto commento al libro di preghiere secondo il rito romano, Qimhah de Avishonah, (Bologna, 1540). In seguito, fu presso i da Rieti il rabbinoYosef di David da Arles, noto tra i correligionari italiani dell’epoca per le sue capacità stilistiche in ebraico, soprattutto nel campo epistolare, cui Laudadio affidò la direzione della accademia talmudica privata (yeshivah), che aveva fondato per provvedere, in particolare, all’educazione del più giovane dei suoi figli, Shabbetay Elhanan. Tra gli allievi della yeshivah vi furono anche Shelomoh da Modena, zio del noto Leone Modena, e Eliyahu da Pesaro, autori di opere manoscritte[73].

Nel 1562 il rabbino Yitzhaq Yehoshua di Immanuel de Lattes prese il posto di Yosef da Arles[74].  

La famiglia da Rieti, oltre che per l’importanza nell’attività finanziaria nella Toscana dell’epoca (che divideva con gli Abrabanel) e per le iniziative culturali ebraiche appena menzionate, va ricordata anche per la raffinatezza del modo di vita, simile a quello delle principali famiglie cristiane rinascimentali[75].

Tra i membri dei da Rieti che si distinsero nel XVII secolo, vi fu Giuseppe (Yosef), figlio di Agnolo (Shabbetay Elhanan), che è menzionato in un testo (Mashbit Milhamot) relativo alla controversia sul bagno rituale (miqve) di Rovigo[76].

Tra le yeshivot o accademie rabbiniche vi erano la Etz Hayyim, la Meor Enayim e la yeshivah Gallico:  il fiorire degli studi ebraici a S. le guadagnò l’appellativo di “Piccola Gerusalemme”[77].

Bibliografia

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[1] Per tale traslitterazione, cfr. Vitale da Pisa, Minhat Qenaot, citato in Kaufmann, D., La famille de Yehiel de Pise, p. 232.

[2] Simonsohn, S.,  I banchieri Da Rieti in Toscana, pp. 418-419.

[3] Zoller, I., Medici ebrei laureati a Siena negli anni 1543-1695, in Rivista Israelitica X (1913), pp. 60-70; 100-110. 

[4] Davidsohn,  R., Storia di Firenze,  Firenze 1956, voll. 8, vol.VII,  p. 195, citato in Salvadori, R., Breve storia degli ebrei toscani, p. 13, n. 10; p. 125, n. 10.

[5] La notizia, più volte ripetuta dagli autori che hanno trattato l’argomento, era desunta da un’errata lettura di un registro (Biccherna, 9, c. 45v) in cui si riteneva fosse scritto pro universitate judeorum. Cfr. Mengozzi, N., Il Monte dei Paschi di Siena e le aziende in esso riunite, I,  Siena 1891, p. 9, n. 2.

Tra gli autori che hanno seguito il Mengozzi, segnaliamo Cassandro, M., Gli Ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento, p. 7. La corretta lettura del documento è, invece, pro universitate iudicum e si trova nell’edizione, pubblicata già agli inizi del Novecento, del Libro dell’entrata e dell’uscita della Repubblica di Siena detti del Camerlingo e dei Quattro Provveditori di Biccherna, Libri I e II, Siena 1914, p. 211. Per l’individuazione dell’errata lettura del registro di Biccherna e  per  la relativa  correzione, desunta dalla fonte  novecentesca sopra indicata, cfr.  Boesch Gajano, S., Il Comune di Siena e il prestito ebraico nei secoli XIV e XV, p. 180, n. 10.

[6] Ivi, p. 181, nn. 12, 13.

[7] Ivi, p. 180, n. 11.

[8]  Pavoncello, N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, p. 292.

 [9] Boesch Gajano, S., op. cit., pp. 182-183; cfr. ivi, p. 183,  n. 17.

[10] Le immunità riguardavano l’alliramento periodico, i fideiussori a garanzia di non barattare i pegni, la gabella annua di cento fiorini d’oro, l’invio di fanti e cavalieri, il servizio di guardia. Ivi, p. 185, n. 19.

[11] Dei patti stipulati con Consiglio e soci non restano che due clausole: il prestito di 800 fiorini da parte degli ebrei e la cessione della gabella sul macello. Il tasso di interesse restava confermato al 10%. Il prestito era stato originato dalla necessità di pagare truppe mercenarie. Ivi, p. 188, n. 26. Per le vicende militari del periodo e la presenza di truppe mercenarie nel  senese, cfr. Lisini, A. –Iacometti, F. ( a cura di), Cronache senesi, RIS, V, 6, 716 e segg.; per  ulteriori dettagli su Salomone di Matassia di Sabatuccio, cfr. Toaff, A. , Gli Ebrei a Perugia, Perugia 1975 ad indicem.   

[12] Boesch Gajano, S., op. cit., p. 189, n. 29. L’allontanamento degli ebrei da case e palazzi di alcune zone centrali  della città, riportato anche da altri autori, è attribuito a motivi religiosi e datato in anno diverso dal 1384: cfr. Fantozzi Micali, O., La segregazione urbana: ghetti e quartieri ebraici in Toscana, p. 88, in cui viene indicato l’anno 1391 come data dell’intimazione di sgombero dalle abitazioni del centro; cfr. Pavoncello, N., op. cit., p. 292, in cui l’allontanamento da determinate vie sembrerebbe posto in relazione con le  accuse anti-ebraiche mosse dopo la peste del 1348. 

[13] Per questi provvedimenti e per altri di analogo tenore restrittivo nei confronti  della presenza ebraica, cfr. Boesch Gajano, S., op. cit., p. 190, n. 30.

[14] Ivi  pp. 191-193.

[15] Ivi p. 193; per i dettagli sui patti relativi a tali banchi, cfr. ivi,  nn. 39-40.

[16] Ivi, p. 194; da una delibera del 1403 del Concistoro, risulta che  Gaio e un luogotenente del duca avessero prestato la cifra di mille fiorini, ripartita in parti uguali e a restituzione della quale veniva concessa la gabella del vino al minuto; l’interesse per il solo Gaio fu stabilito dover essere del 12%. Tra l’invio di un oratore a Milano e il prestito in questione vi era forse un legame. Cfr. ivi,pp. 194-195; cfr. nota 43. 

[17] Ivi, p. 196.

[18] Ivi, p. 197.

[19] Per i particolari relativi a questa iniziativa comunale (che prevedeva il prestito su pegno al 19% annuo circa), vedi ivi, p. 198. Sui  particolari relativi alle proposte dei feneratori cristiani, cfr. ivi, p. 199.

[20] Cfr. ivi, pp. 201-202. Per quanto concerne la valutazione dell’influenza della predicazione anti-ebraica di Bernardino, la Boesch Gajano ricorda che la più dura condanna dell’usura (quella del 1420) è precedente alla ben nota predicazione del  frate a S., di cui ricordiamo, in particolare, i 45 giorni di predica nel 1427: cfr. ivi, p. 201; cfr. Bontempelli, M., S. Bernardino da Siena , Roma 1927, p. 29, citato in  Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 89, n. 12.

[21] Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 89; Pavoncello, N., op. cit., p. 293. Da notare è, tuttavia, che ambedue gli autori non menzionano la fonte da cui hanno desunto l’informazione su questi provvedimenti; il Pavoncello, inoltre, non ne indica neppure la data.

 [22] Ivi, pp. 200-203.

[23] Ivi, p. 203; per la fonte che cita l’obbligo del segno, cfr. Pavoncello, N., op. cit., p. 294, nota 20.

[24] Cfr. ivi, pp. 204 -205. I soci di Josef di Guglielmo da Arezzo erano Dattaro di Manuele da Grosseto, Manuele da Asciano, Guglielmo da Montalcino e  Jacob da Consiglio da  Padova. Nello istrumento solenne (in data 24 agosto 1441), che veniva a integrare le delibere precedenti riguardo agli ebrei,  risultavano operare in zona  senese: Isaac di Consiglio, Dattaro di Angelo (firmatari dei capitoli con il  Comune), Dattaro di Consiglio da Tivoli, Isaac di  Manuele da Pisa, Iosef di Guglielmo da Arezzo, Guglielmo di  Dattaro da Montalcino (ivi, p.  205).  

[25] Ivi, pp. 206-207, note 74-75. Per un’ulteriore documentazione su Jacob di Consiglio e altri feneratori senesi, vedi ivi, p. 207.

[26] Boesch Gajano, S., op. cit., p. 211; cfr. ibidem, n.93.

[27] Per questi e per ulteriori particolari inerenti il contenuto dei capitoli in questione, cfr. ivi, pp. 210-215.

Sui soci di Jacob, da lui nominati in tre diverse riprese, tra il giugno e il luglio 1457, vedi ivi, p. 216.

[28] Zdekauer, L., I Capitula Hebraeorum di  Siena (1477-1526), p.  260 e p. 263. Il Comune, che pure aveva promosso l’istituzione del Monte, ne ammetteva ufficialmente l’insufficienza rispetto al bisogno di denaro della popolazione e, pertanto, rivolgeva una supplica al Papa per l’assoluzione dei cristiani che avevano partecipato ai Capitula Hebraeorum del 1477. Per il testo di tale supplica, vedi ivi, Appendice, pp. 268-269. Per l’attività feneratizia ebraica parallela a quella del Monte, cfr. Mengozzi, N., Il Monte dei Paschi e le sue aziende, Siena 1913, p. 13, citato in Salvadori, R., Breve storia degli ebrei toscani,p. 127, n. 19. Il Salvadori menziona il 1472 come anno dell’istituzione del Monte a S. : cfr. Salvadori, R., op. cit., p. 32.

[29]   Zdekauer, L., op. cit., pp. 260-263; cfr. Boesch Gajano, S., op. cit., pp. 219-220.

[30] Zdekauer, L., op. cit., pp. 264-265; cfr. l’articolo 8 dei Capitoli del 1477 (ivi, p. 261). 

[31] Mengozzi, N., Conversioni, , pp. 175-176; pp. 180-182.

[32] Zdekauer, L., op.cit., pp. 265-266.

[33] Cassandro, M., Gli ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento, p. 22.

[34] Ivi, p. 26. Per  informazioni più particolareggiate su Laudadio da Rieti, vedi il paragrafo Rabbini, dotti, personaggi famosi.

[35] Per il periodo del declino della repubblica senese, di cui vi sono interessanti echi nell’epistolario dei da Rieti (Da Rieti), cfr. Simonsohn, S., I banchieri Da Rieti in Toscana, p. 409 e segg.

[36] Cassandro, M., op. cit., pp. 26-29.

[37] Hananel da Foligno, la cui famiglia era imparentata con i da Rieti, era venuto a S. con un altro convertito, Pellegrino da Mantova, probabilmente per raccogliere fondi tra la popolazione senese per la Casa dei Catecumeni, appena fondata a Roma. Per ulteriori particolari su questa visita a S. e sull’incontro con Samuele da Rieti, cfr. Simonsohn, S., op. cit., pp. 415-416; per le lettere, con cui Samuele riferisce tali fatti al padre (Laudadio ), cfr. ivi, pp. 494-496. Per  ragguagli sul da Foligno, vedi Cassuto, U., E.J., alla voce”Foligno Chananel Da”. 

[38]  Cassuto, U., Gli  ebrei a Firenze nell’età del Rinascimento, pp. 104-105; Cassandro, M., op. cit., p. 30.

Per  maggiori ragguagli sull’acquiescenza di Cosimo a Pio V, al fine di ottenere il titolo granducale, vedi la voce “Firenze” della presente opera. 

[39] Ivi, pp. 30-31; Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 93; p. 95.   

[40] Deliberazioni di Balia, ad annum; vedi Decreto del 26 gennaio 1662 (datazione senese), citato in Pavoncello, N., op. cit., p. 302, n. 42.

[41] Mengozzi, Il Monte dei Paschi e le aziende in esso riunite , vol. IV, p. 255, citato in Pavoncello, N., op. cit., p. 303, n. 44 ( senza indicazione della data delle disposizioni in questione).

[42] Roth, C., Le memorie di un ebreo senese (1625-1633), in RMI 5 (1930-31), pp. 287-309.

[43] Cantini, L., Legislazione Toscana, Firenze 1800-1808, tomo XXIII, p. 283, citato in Piattelli, op. cit., p. 304, n. 47.

[44] V. Piattelli, op. cit., p. 304, in cui , a suffragare il fatto, viene citato il Diario manoscritto di tale Pecci, senza ulteriori indicazioni.

[45] Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 110.

[46] Piattelli, op. cit., p. 305; cfr. Salvadori, R. G., Presenze ebraiche nell’Aretino dal XIV al XX secolo, Firenze 1990, p. 93; cfr. Fantozzi Micali, O., , op. cit.pp. 111-112. Il Piattelli sostiene che furono uccisi 19 ebrei; il Salvadori riferisce, invece, che fossero 13. Piattelli, op. cit., p. 305; cfr. Salvadori, R.G., Breve storia degli ebrei toscani, Firenze 1995, p. 93.Il registro dedicato a Nati, matrimoni e morte, conservato nell’Archivio della Comunità ebraica di S., attesta che i morti furono tredici. cfr. Zoller, I.,  Per la storia del 28 giugno 1799 a Siena, p. 140; per  il disaccordo di svariati autori circa il numero delle vittime, vedi ibidem. Per nominativi e dettagli relativi alle tredici vittime, cfr. Archivio della Università Isr. in Siena, Nati, matrimoni e morte,  fol. 3116t- 3117, citato ivi, pp. 141-142.

[47] Zoller, I., Per la storia del 28 giugno 1799 a Siena, p. 139; la cronaca citata è opera del canonico Giovanni Battista Chrisolino, Città di Castello (1799). Secondo lo Zoller, gli ebrei senesi avrebbero aderito agli ideali della rivoluzione francese : cfr. ibidem.

[48] Per questi contributi forzosi, per gli argenti della sinagoga saccheggiati e per le ulteriori ruberie,  Cfr. Zoller, I.,  Per la storia del 28 giugno, pp. 30-32.

[49] Piattelli, op. cit., pp. 305-306. Per questi e ulteriori particolari sull’eccidio di S., cfr. Zoller, I., Nuove fonti per la storia del 28 giugno 1799 a Siena, pp. 240-244; pp. 65-67.

[50] Piattelli, op. cit.,p. 306; di altro parere è Fantozzi Micali, che sulla scorta del Cassandro, sostiene che il numero dei componenti della comunità non sarebbe sceso : Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 112.

[51] Boesch  Gajano, S., op. cit., p. 188, n. 27.

[52] Ivi, p. 197.

[53] Ibidem; Zdekauer, L., op. cit., p. 261.

[54] Cassandro, M., op. cit., p. 25; cfr.  ibidem, n. 62.

[55] Cassandro, M., op. cit., p. 26.

[56] Ivi, p.65.

[57] Ivi, Appendice II, doc. X, p. 113.

[58] Archivio di Stato di Siena (in seguito ASS), Balia, n. 199, cc. 135v., 150v., citato ivi, p. 66, nota 167.

[59] ASS, Balia, n. 209, c. 14r, citato ivi, p. 67, nota 172. Per il divieto del 1678 di commerciare in lana a Firenze, che fu introdotto, qualche anno dopo, anche a S., cfr. la voce “Firenze”. 

[60] Cassandro, M., op. cit., p. 68, nn. 173, 174; cfr. Pavoncello, N., op. cit., p. 303.

[61] Pavoncello, N., op. cit., p. 304; cfr. Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 103.

[62] Ivi, p. 300. 

[63] Harris, A. Ch., La demografia del  ghetto in Italia (1516-1797 circa),p. 12. Il Cassandro, tuttavia, ritiene che tale cifra vada considerata come punto di riferimento solo parziale. Cfr. Cassandro, M., Gli ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento, p. 6.

[64] Fantozzi Micali, O., op. cit., pp. 100-101.

[65] Ivi, p. 101; p. 104.

[66] Ivi, p. 107; p. 112.

[67] Fantozzi Micali, O., La segrgazione urbana, pp. 93-94; Pavoncello, N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, p. 299.

[68] Piattelli, op. cit., p. 301. Il Roth afferma che: ”A Siena una statua di Mosè adornò il Ghetto per generazioni, finché alcuni devoti polacchi non richiamarono l’attenzione su quell’infrazione al secondo comandamento.” Roth, C., Nel Ghetto italiano, in RMI  (II), 1926, pp. 99-112, p. 111. Dall’affermazione del Roth è stato desunto che, per un certo periodo, vi fossero a S. ebrei ashkenaziti, mentre la maggior parte della comunità seguiva il rito italiano, cioè il rito degli ebrei romani. Piattelli, op. cit., pp. 301-302.

[69] Fantozzi Micali, O., op. cit., p. 108; cfr. Pavoncello, N., op. cit., p. 306. Per la descrizione particolareggiata della sinagoga, vedi  ivi, pp. 307-311.

[70] Balia 859, carta 234, citato in  Pavoncello, N., op. cit., p. 302, n. 43.

[71]Pavoncello, N., op. cit., p. 302.

[72] Per l’albero genealogico dei da Rieti, cfr. Vogelstein, H. - Rieger, P., Geschichte der Juden in Rom, II, p. 74; Cassuto, U., Gli ebrei in Italia nell’età del  Rinascimento, Firenze 1918, p. 349. Ragioni d’ordine cronologico fanno escludere che Laudadio fosse il figlio dell’autore del  Miqdash Meat, come aveva supposto Eshkoli, A.Z., Sippur David  ha-Reuvenì, Jerusalem 1940, p. 121; cfr. Simonsohn, S., I banchieri Da Rieti  in Toscana, p. 406, nota 2. Per l’ospitalità di cui Reuvenì godette  presso Laudadio, cfr. Kaufmann, D., Minhat Qenaot, Berlin, 1898, p. 11 (Introduzione); Idem, La famille de  Jehiel de Pise, p. 90, p. 232. Per le osservazioni di Reuvenì su Laudadio, cfr. Eshkoli, A.Z., Sippiir David ha-Reuveni, p. 51.

[73]  Su Yosef da Arles alla guida della  yeshivah di Siena, cfr. Marx, A., Rav Yosef ish Arli be-tor moreh ve-rosh yeshivah be-Siena (Rav Yosef da Arles come insegnante e capo dell’accademia rabbinica di Siena), pp. 201-304 ( Parte ebraica); su Shelomoh da Modena, cfr. ivi, pp. 279-284; su Eliyahu da Pesaro, vedi ivi, pp. 286-289; per le opere manoscritte di Shelomoh e di Eliyahu, cfr. Mortara, M.,  Indice alfabetico dei rabbini e scrittori israerliti di cose giudaiche in Italia,  p. 40; p. 48.

[74] Per questo e per ulteriori particolari sulle attività di Yosef da Arles a  S., cfr. Simonsohn, S., op. cit., p. 408 e segg.

[75] Per i particolari, cfr. ivi, p. 415. Da rilevare, inoltre, è l’importanza dell’epistolario dei da Rieti, che fornisce importanti riferimenti agli avvenimenti dell’epoca  che toccavano la vita senese, in particolare, durante il periodo del declino della repubblica, prima dell’annessione al granducato, nel 1555. Vedi ivi, p. 419 e segg. Dall’epistolario si apprende anche di un tentativo cristiano di sottrarre un fanciullo ebreo alla famiglia a scopo conversionistico, avvenuto a Pisa: cfr. ivi, p. 416.  Per il testo di alcune lettere dei da Rieti, vedi ivi, pp. 489-499. 

[76] Roth, C., op. cit., p. 297, nota 1. Sulla controversia relativa al bagno rituale di Rovigo, cfr. il paragrafo “Rabbini e opere ebraiche”, alla voce “Rovigo”.   

[77] Piattelli, op. cit., pp. 300-301. Da una lettera degli anni Ottanta del  XIX secolo risultano esservi state a S. cinque accademie rabbiniche con annessa biblioteca. Ivi, p. 301.

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