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Pisa (פיזה)
Capoluogo di provincia. La città sorge sulle rive dell’Arno, a 12 km dalla sua foce che si getta nel Tirreno, in mezzo ad un vasto piano alluvionale formato dai depositi del fiume stesso. Di origine etrusca, fu sottomessa da Roma (179 a.C.) e si sviluppò già nell’alto Medioevo come centro commerciale e potenza marinara, estendendo, dopo la prima crociata (1096-1099) il proprio raggio d’azione nel Levante. Libero comune ( secoli XI-XII), cominciò a decadere nel Duecento per il declino delle colonie del Levante, la rivalità con le altre città marinare (fu sconfitta alla Meloria da Genova nel 1284) e le lotte interne tra guelfi e ghibellini. Dalla fine del XIII secolo all’inizio del XV fu sotto svariate signorie, sinché, nel 1406, cadde sotto il dominio di Firenze.
Nel 1494, però, P. si ribellò ai fiorentini e, nello stesso anno, giunse in città il re di Francia, Carlo VIII. In seguito, i Medici ripresero il dominio del ducato di Toscana, divenuto, nel 1570, granducato, di cui P. seguì le sorti. Le cure del governo mediceo migliorarono le condizioni della città, grazie anche ai lavori di bonifica che la liberarono dalla malaria, le franchigie offerte ai nuovi abitanti che volessero stanziarvisi ed il canale navigabile dei Navicelli fatto scavare dal granduca Francesco, nel 1576, che rimise la città in diretta comunicazione con il mare. Nei due secoli successivi, P. aumentò la propria popolazione, sino a raggiungere i 12.500 abitanti alla metà del Settecento.
La presenza ebraica a P. è attestata, verso il 1160, dal resoconto di viaggio di Beniamino da Tudela che riferiva esservi nella città una ventina di ebrei, senza descriverne, tuttavia, le origini e le attività economiche[1].
Nel secolo XIII il nucleo ebraico è testimoniato da epigrafi in caratteri e da una norma statutaria (ispirata, presumibilmente, al rigore instaurato a partire dal pontificato di Innocenzo III ), che prevedeva la dimora coatta per gli ebrei residenti o di passaggio a P., pur senza imporre una clausura ghettuale vera e propria[2].
Nella prima metà del XIII secolo, è attestato altresì il possesso ebraico di beni stabili a P., nella zona denominata classus Iudeorum[3].
Dopo la peste del 1348, che fece un gran numero di vittime, nel 1354 gli ebrei furono invitati a stabilirsi a P. con le loro famiglie[4]. Tra coloro che risposero all’invito, alcuni provenivano da diverse zone dell’area mediterranea, altri erano d’origine italiana e soprattutto romana[5].
Dopo che Gherardo d’Appiano ebbe venduto P. a Gian Galeazzo Visconti (1399), al rinnovo dei patti con gli ebrei gli Anziani di P. permisero a Sabbato Dattali e al figlio Mugetto di fenerare per dieci anni, diventando, per questo lasso di tempo, equiparati ai cittadini e con gli stessi diritti concessi agli “altri cittadini usurai”[6], venendo assicurati, tra l’altro, che nessuno potesse costringerli a portare alcun segno distintivo, nonostante le disposizioni del Breve pisano in tal senso[7].
Agli inizi del XV secolo si stanziò a P. Vitale di Matassia de Synagoga, d’origine romana, capostipite di quella che è stata considerata la più importante famiglia di banchieri ebrei del Rinascimento italiano, che avrebbe, in seguito, assunto il cognome “da Pisa”.[8] Dopo la caduta di P. sotto Firenze, ottenuto il monopolio della gestione dell’attività feneratizia, Vitale di Matassia prese direttamente in affitto dall’Opera del Duomo, nel 1407, un palazzo, che si trovava nell’area della parrocchia (o cappella) di S. Margherita (che è attualmente la zona intorno alla torre del Campano, nei pressi della Sapienza), che era stato di proprietà del banchiere cristiano Parasone Grasso e in cui, già prima del 1395, abitava e gestiva un banco feneratizio, per conto di una società di ebrei, Daniele di Magister Melli da Bertinoro[9]. L’edificio - in cui Vitale di Matassia, con famiglia e banco, si era già stanziato in subaffitto dalla famiglia Astai, qualche anno prima – sarebbe stato acquistato dalla famiglia da Pisa nel 1466 e, sino alla fine del XVI secolo, sarebbe stato noto nella città come la casa delli ebrei[10].
Alla morte di Vitale (1422) gli successero le nipoti Bruna e Dolce e la figlia Giusta, che sposò Isacco di Manovello (Emanuele) da Rimini (talvolta, menzionato come da Urbino). Isacco - che dall’anno della morte del suocero risultava già stanziato a P., abitando e tenendo banco in cappella S. Margherita – fu a capo dell’attività feneratizia pisana sino alla metà del secolo ed oltre[11]. Dal matrimonio di Giusta e di Isacco nacquero Vitale e Dolce, sposatasi con Bonaventura di Dattilo da Fano. Vitale di Isacco assunse la direzione degli affari paterni subito dopo la metà del secolo, mantenendo sempre a P. la propria residenza, nonostante le sue attività si fossero estese a tutta la Toscana e si diramassero anche nell’Italia settentrionale e meridionale[12]. Una figlia di Vitale di Isacco, Clemenza, poco dopo essersi sposata con Davide di Guglielmo di Dattilo da Montalcino, all’inizio degli anni Ottanta del XV secolo, si convertì al cristianesimo con il nome di Lucrezia e sposò Brancaleone da Piandimeleto, di famiglia nobile quanto sprovvista di beni[13].
Qualche anno più tardi, nel 1485, un gruppo di quattordici ebrei, tra cui Vitale di Isacco da Pisa e i suoi familiari, fu condannato dagli Otto di Guardia e Balia fiorentini ad una multa di 400 fiorini, senza apparente motivazione. Poco dopo, risultò che uno dei magistrati degli Otto era stato corrotto da Vitale e dagli altri per ottenere di liberarsi dalle imputazioni, previo pagamento della multa: nel 1486 fu emessa la sentenza definitiva, da cui risultava che l’accusa contro Vitale era stata di aver tentato di avvelenare la figlia convertita e il genero cristiano, mentre il figlio di Vitale, Isacco, era stato incriminato per atti sessuali proibiti, commessi in compagnia di maschi ebrei e cristiani. L’accusa di tentato avvelenamento mossa contro Vitale pare essere partita da parte ebraica, per motivi non chiari, come risulta dal processo contro il medico ebreo Emanuele di Angelo da Citerna, condannato a una multa irrisoria per la presunta preparazione del veleno, nel 1490, anno in cui Vitale moriva[14].
All’inizio degli anni Novanta del secolo, Isacco di Vitale fu protagonista di un episodio di “iconoclastia” con licenza delle autorità ecclesiastiche che è stato interpretato come segno della varietà di rapporti tra ebrei, autorità religiosa e autorità laica nei differenti contesti locali italiani[15].
Nel 1495 venne fondato il Monte di Pietà, dopo le prediche di frate Timoteo da Lucca, che si premurò di far sì che gli ebrei, con i proventi della loro attività feneratizia, facessero fronte alle prime necessità finanziarie del Monte stesso: perché lui seguitava i giudei, per paura l’Ebbreo del presto di Pissa li paga per il monte ducati millecinquanta e ducati trecento in presto per tre anni e la pigione dove si trovava il Monte di Pietà[16].
I figli di Vitale di Isacco da Pisa, Simone e Isacco, che erano succeduti al padre, furono costretti a sospendere il prestito nel 1495-96, per le vicende politiche toscane.
Nel 1509 i pisani, nello stipulare i patti della sottomissione a Firenze, chiesero che il Monte fosse mantenuto, come segno di autonomia della città e per far fronte ai fabbisogni della parte meno abbiente della popolazione.
I figli di Simone e di Isacco ripresero l’attività feneratizia nel 1514. La restaurazione della Repubblica fiorentina (1527-1530) provocò l’interruzione del prestito ebraico e il trasferimento di una parte dei da Pisa in altre città italiane[17], mentre rimase a P. il figlio di Simone, Vitale, cognato del senese Laudadio da Rieti che divenne titolare del banco pisano. Il figlio di Vitale, Simone, rimase anch’egli nella città, dove ottenne la laurea in medicina presso lo Studio nel 1554[18].
Un documento della metà del XVI secolo attesta l’attività del banco ebraico pisano (di cui era titolare Laudadio da Rieti, già dal 1547) con gli studenti dell’Università e mostra che l’attività feneratizia ebraica era volta, generalmente, al ceto medio-alto, mentre il Monte di Pietà sopperiva ai fabbisogni creditizi degli strati più bassi della popolazione[19].
Nel 1548 Cosimo, nell’intento di far rifiorire P., concesse estesi privilegi per i “cristiani nuovi” d’origine portoghese, che venissero a stabilirsi nella città, purché si fossero mantenuti, almeno esteriormente, ligi alla fede cattolica[20].
Tre anni più tardi, Cosimo rivolse poi un invito a commerciare nelle sue terre, a tutti i popoli del Levante, con l’intenzione, tuttavia, di far giungere soprattutto gli ebrei levantini (che, essendo rimasti fedeli all’ebraismo, non cadevano sotto la giurisdizione dell’Inquisizione)[21]. Pur non essendo volto esplicitamente al popolamento di P., l’invito mediceo sembra aver attirato nella città alcuni israeliti, come attestano presenze iberiche e levantine negli anni Sessanta del secolo[22].
Alla morte di Laudadio da Rieti, gli successe nel banco di P. il figlio Angelo nel 1558[23]. Sei anni dopo, Angelo supplicò il principe Francesco di concedergli l’assicurazione del monopolio sul banco pisano, abbassando, in cambio, il tasso di interesse[24].
Con il decreto di segregazione nei ghetti di Firenze e di Siena e il divieto dell’attività feneratizia ( 1570-71), Angelo da Rieti fu costretto a chiudere il banco[25]: vennero, così, a declinare le fortune della Comunità ebraica italiana nella città, mentre i levantini pare continuassero a godere dei privilegi del 1551[26]. All’incirca negli stessi anni, fu instaurato l’obbligo della professione di fede tridentina all’Università, precludendone l’accesso agli ebrei, che sarebbero stati però riammessi allo studio della medicina negli anni Novanta del secolo, grazie ai privilegi concessi da Ferdinando I[27].
Angelo da Rieti, due anni dopo i provvedimenti restrittivi del 1570-71, ottenne, tuttavia, di tornare a P. con la famiglia, con le lodi del principe Francesco per la sua passata attività feneratizia, ma il divieto di continuarla in futuro. Nel 1576, morto Angelo, i suoi tre figli ebbero da Francesco, assurto al trono granducale, la conferma del privilegio paterno che consentiva loro di negotiare et mercantilmente esercitarsi come gli christiani honoratamente, senza far cose usurarie et inlicite, purché in Pisa, dove hanno la loro casa antica, et nelli altri luogho ne’ quali occorressi negotiare[28].
Dodici anni più tardi (1588), Ferdinando I, consentì alla famiglia Leucci, costretta a suo tempo ad abbandonare P. per segregarsi nel ghetto di Firenze, di tornare a risiedere nella città (dove avevano abitato per un secolo e mezzo), per esercitarvi il commercio, a patto che portassero il segno distintivo e non tenessero in casa personale cristiano[29].
Nel 1591 e nel 1593, Ferdinando invitò i mercanti di qualsiasi provenienza, ma in particolare levantini e marrani a stabilirsi a P. (e a Livorno) e nel 1595, l’invito fu esteso agli ebrei cacciati dal Ducato di Milano[30].
Il granduca condusse le trattative per i privilegi da conferire ai Levantini con Maggino di Gabriello (Meir di Gavriel Zarfatì), un versatile ebreo veneziano di ascendenza francese, che aveva promosso a Roma la seticoltura e l’arte del vetro, introducendovi nuovi metodi da lui sviluppati[31].
Dato che al momento della firma delle lettere patenti con cui il granduca invitava i mercanti, Maggino risultava stendere un atto notarile a P., insieme a quattro rappresentanti della “nazione ebrea levantina”, è stata sollevata l’ipotesi che i Levantini di P. non fossero estranei all’iniziativa medicea, anche se non è affatto assodato in nome di chi Maggino conducesse le trattative con l’autorità[32]. Le lettere patenti – che garantivano ai mercanti privilegi di 25 anni, automaticamente rinnovabili, salvo preavviso quinquennale, e vincolavano anche i successori di Ferdinando – assicuravano libertà di religione e di culto, diritti pari a quelli dei mercanti cristiani, compresa l’esenzione dal segno distintivo e la facoltà di portare armi difensive, acquistare beni immobili, tenere in casa personale cristiano, aprire botteghe in qualsiasi parte della città, frequentare l’Università, esercitare la medicina, curando anche pazienti cristiani. Inoltre, esse davano facilitazioni nel commercio e nell’attività professionale e autonomia amministrativa e giurisdizionale. Erano vietati, invece, il proselitismo, i rapporti sessuali con non ebrei, l’usura e la stracceria[33].
La nomina nella prima stesura delle lettere patenti (1591) di Maggino al ruolo di “console”, che implicava prebende e poteri estesissimi sulla nuova comunità, incontrò l’opposizione dei mercanti levantini già presenti a P. e venne revocata nel testo definitivo, pubblicato nel 1593 e noto come Livornina[34]. Gli ebrei pisani e forse altri gruppi di levantini e marrani riuscirono a far includere nel testo definitivo anche garanzie più precise circa l’eventuale abbandono della città da parte dei destinatari dell’invito mediceo, comprendenti la facoltà di lasciare la Toscana per i paesi islamici, il permesso di esportare anche i libri ebraici e il passaggio delle dogane in franchigia per tutti i beni mobili, senza eccezioni. Inoltre, non i rabbini (come nei privilegi del 1591), ma i massari sarebbero stati riconosciuti come giudici nelle cause civili e penali riguardanti i soli ebrei. I massari avevano anche il diritto di “ballottazione”, cioè di accettare nuovi membri della Comunità, tramite votazione segreta della commissione costituita da loro e da rappresentanti del pubblico. Per quanto riguarda le conversioni, era proibito battezzare i minorenni senza il consenso delle famiglie, mentre era permesso a queste ultime di far visita ai battezzandi nella Casa dei Catecumeni; i genitori non furono obbligati a dare in vita la legittima ai figli battezzati ed ai convertiti veniva vietato di testimoniare nelle cause discusse davanti al giudice degli ebrei.
Inoltre, venne introdotta la sostituzione della Comunità ebraica all’autorità civile nella successione dei morti senza eredi, i Massari furono autorizzati all’esecuzione dei testamenti e le eredità furono esentate da tasse di successione. Dalla proibizione della stracceria venne, poi, esclusa la compravendita di oggetti usati. Infine, venne stabilito che il testo dei privilegi venisse applicato sempre a favore dei privilegiati[35].
La “nazione ebraica” di Pisa si definì levantina – e come tale venne definita dalle autorità – sino agli anni Trenta del XVII secolo, per evitare i rischi di uno scontro diretto con la Chiesa sullo spinoso tema dei marrani, che la politica granducale preferiva accettare de facto ufficiosamente, ad onta delle concessioni ufficiali che sancivano l’immunità dall’Inquisizione[36].
Nel 1655 il Commissario di P., dietro istruzione granducale, pubblicò un bando con il quale, pena una multa pecuniaria o fisica (per gli insolventi e i minori), si proibiva di molestare gli ebrei, compreso il loro personale di servizio, e di accogliere in casa i loro figli minori o i servi e gli schiavi che fuggissero per convertirsi. Poco dopo, anche il vice-rettore dello Studio pisano dovette proibire agli studenti, per ordine granducale, di insultare gli ebrei[37].
Nel 1787 avvenne un episodio di intolleranza verso tre ebrei e due musulmani dell’Africa settentrionale, che, venuti in visita a P. da Livorno, si soffermarono a osservare le sculture sulle porte del Duomo con un atteggiamento scambiato, a quanto pare, da alcuni astanti per irriverenza nei confronti delle immagini sacre del culto cattolico. Circondati, furono insultati e schiaffeggiati, riuscendo a sfuggire alla folla che, incitando all’aggressione contro i “turchi” e gli “ebrei”, era giunta nei pressi della sinagoga, dove un soldato, trovato un ebreo algerino, del tutto estraneo ai fatti, e scambiatolo per uno dei presunti “sacrileghi”, lo uccise[38].
All’arrivo dei francesi a Livorno, alcune famiglie ebraiche, in attesa che le acque si calmassero, si trasferirono a P., dove la ventata rivoluzionaria e contro-rivoluzionaria sembrò passare senza avere conseguenze violente per gli ebrei, come, invece, avvenne in altre località toscane[39].
Vita comunitaria
Nel XV secolo gli ebrei pisani si agglutinarono intorno alla famiglia da Pisa e alla loro dimora, in cui vi erano anche il banco e la sinagoga e sino agli anni Settanta del XVI secolo, la comunità ebraica continuava ad essere in larga maggioranza italiana e sotto la guida dei da Pisa e, poi, del nuovo titolare del banco feneratizio, Angelo di Laudadio da Rieti.
Allo stato attuale delle ricerche, è difficile determinare come fosse organizzata la vita comunitaria dell’insediamento italiano: ad esempio, nel 1511, la richiesta di esenzione dal segno distintivo per gli ebrei della città e del contado di P. venne avanzata a titolo individuale da Eliuccio o Leuccio di Salomone, da suo fratello Simone e da Uriello di Isaia, detto “il Todeschino”, che agivano anche a nome delle proprie famiglie e di tutti gli ebrei della città[40]. Nel 1518, tuttavia, in occasione della tassa che gli ebrei dovevano pagare per contribuire alle spese del carnevale, le autorità fiorentine si rivolgevano loro come alla Compagnia degl’hebrei di Pisa[41]. Negli anni cinquanta del XVI secolo, il problema della carne macellata secondo i dettami della Legge ebraica fu trattato, invece, da un Ebreo, a nome di tutti gli altri[42].
Per gli anni 1550-1570 sono stati individuati vari piccoli gruppi ebraici, ognuno con uno stato giuridico particolare: Angelo da Rieti e il suo entourage erano soggetti alle regole dei capitoli pattuiti con l’autorità fiorentina per l’esercizio del prestito, gli ebrei stanziatisi da tempo a P. avevano lo stato di cives pisani (come i Leucci, i da Pisa e gli Urielli, d’origine tedesca), gli Ebrei stanziatisi di recente (come una famiglia originaria di Viterbo e una di Fabriano) non erano cives pisani. Infine, vi erano gli ebrei iberici e levantini, che godevano dei privilegi del 1548 e del 1551, e quelli in transito per affari[43].
Poco prima che entrassero in vigore i privilegi ferdinandei del 1591, un documento attesta la presenza di un organo dirigente (ma’amad) con quattro massari[44], presumibilmente eletti dall’assemblea plenaria dei mercanti levantini già presenti a P., come si evince da un documento del primo ventennio del secolo successivo, in cui si affermava che, dall’inizio dell’insediamento ebraico, i massari venivano eletti tra tutti li capi di casa che non fussero parenti, né inimici, et così si continuò per molti anni [45]. Dato che in base al capitolo XXXI dei privilegi, era escluso dalla ballottazione solo chi si occupava di stracceria, le elezioni dei massari non costituirono un problema finché il numero dei mercanti fu cospicuo. Quando, tuttavia, durante i primi anni del XVII secolo, svariati avevano abbandonato P., la Comunità o Nazione pisana ottenne di far eleggere i massari entranti (in numero di cinque) dai massari uscenti e da sette altri mercanti (cioè riducendo gli elettori a dodici), come a Livorno, dopo l’emancipazione da P. del 1597. Il nuovo sistema elettorale rimase in vigore per pochi anni, per poi essere sostituito, nel 1613, dopo la considerevole immigrazione, dalla decisione di allargare l’assemblea elettiva ai rappresentanti di ogni famiglia di mercanti. I massari risultavano essere sempre cinque, ma i continui tentativi degli uscenti e del parentadodi alternarsi nella carica con sotterfugi e l’elezione di coloro che, non essendo realmente mercanti, non erano idonei a giudicare con competenza le cause commerciali, provocarono un profondo malcontento. Nel 1637 vennero alla luce abusi e irregolarità nella elezione dei massari che portaronoalla decisione di togliere la responsabilità agli uscenti per passarla al Commissario di P. Dopo vari tentativi di riconquistare in pieno il proprio potere, i massari, nel 1640, ottennero dal Granduca il diritto di decidere autonomamente della legittimità o meno dei sospetti di parzialità. Il calo demografico, riducendo il numero dei candidati idonei, eliminò la competizione nell’elezione al “massarato”, portando alla rotazione nella carica degli eletti, che il Granduca, tuttavia, decise di nominare personalmente[46].
I massari erano eletti per un anno: due si occupavano dell’amministrazione comunitaria (a quanto pare, per un semestre) e, dei due, uno ( forse per un semestre) era parnas presidente, cui spettava la convocazione e la presidenza delle sedute plenarie, in cui tutti e cinque i massari trattavano degli affari importanti della comunità, firmando le decisioni registrate nel Libro della Sinagoga e controfirmate dal cancelliere.
I cinque massari nominavanoi tesorieri(gabbayim) dei vari organi della Comunità, del rabbino e degli altri impiegati e costituivano il tribunale laico della comunità cui spettava la giurisdizione civile e criminale dei soli ebrei.
In sei cassette venivano raccolti i fondi per il finanziamento delle attività comunitarie, ripartite in assistenza sociale e mantenimento delle strutture religiose comunitarie (Tzedaqah), istruzione religiosa (Talmud Torah), visita agli infermi (Biqqur Holim), riscatto degli schiavi ebrei (Pidyon Shevuyim) e aiuti alle comunità della Terra Santa. I gabbayim, nominati semestralmente, raccoglievano ed amministravano i vari fondi[47].
La Nazione imponeva una tassa indiretta sulla carne macellata ritualmente, mentre le entrate della Tzedaqah provenivano generalmente da offerte volontarie, lasciti ecc.: l’aggravarsi della situazione economica portò alla decisione, nel 1641, di obbligare chiunque facesse un’offerta a privilegiare comunque la cassetta della Tzedaqah[48].
L’unica confraternita pisana era quella del Biqqur Holim, attestata dal 1599, che, oltre all’assistenza ai malati, presumibilmente si occupava anche delle sepolture[49].
Il riscatto degli schiavi ebrei, fatti prigionieri dalle flotte granducali nel Mediterraneo e nell’Africa settentrionale e appartenenti, quindi, al Granduca, avveniva tramite offerte volontarie. Tuttavia, le cifre necessarie allo scopo erano, talvolta, così elevate da creare forte malcontento, inducendo, dal 1612, a una forma di regolamentazione.
Quattro anni dopo, in seguito ad un contenzioso sorto con la Comunità di Livorno che gli ebrei pisani dovevano aiutare nel riscatto degli schiavi, tramite il pagamento di una tassa sulle proprie merci in importazione, esportazione e transito nel porto livornese, venne istituita anche a P. una tassa sulle merci, allo scopo di finanziare il riscatto degli schiavi[50].
Il Talmud Torah, oltre all’istruzione religiosa comprendeva anche l’insegnamento dell’ebraico e, presumibilmente, dello spagnolo (o, forse, del portoghese) e dell’aritmetica[51].
La legislazione della Comunità, costituita dalle decisioni o haskamot, sparse in vari libri, venne aggiornata e raccolta, negli Statuti del Libro Nuovo, nel 1636, raggiungendo i 55 capitoli. Negli anni 1636-1643 vennero aggiunti altri capitoli, superando largamente la sessantina[52]. In aggiunta agli Statuti del Libro Nuovo, vanno ricordati i capitoli del Libro Vecchio della Sinagoga di P., risalenti agli anni 1599-1613[53].
Attività economiche
Sino ai provvedimenti del 1570-71, il prestito caratterizzò l’attività dei da Pisa, intorno ai quali “si raccoglievano famiglie ebraiche, dedite alle più svariate professioni”[54].
Da un documento del 1435 sembra che il tasso d’interesse praticato per prestiti fatti al Comune fosse del 18%, mentre, nel 1461, salì al 24%. Dopo tale data scese però al 20% per i prestiti ai privati e, forse, si abbassò ulteriormente per quelli al Comune[55]. Nel 1564 il tasso di interesse del banco pisano era del 20% (mentre negli altri banchi toscani era del 30% ), pattuito in cambio della garanzia del monopolio feneratizio ad Angelo di Laudadio da Rieti[56].
Dopo l’elargizione dei privilegi del 1591-93, affluirono a P. mercanti e imprenditori, muniti dell’autorizzazione per impiantare fabbriche di tessuto, di cuoiami, di saponi e di cera; l’industria del cotone sembra venisse introdotta da Abram Israel che ottenne, nel 1595 dalla Pratica Segreta fiorentina il privilegio decennale di fabbricare fustagni e tele d’ogni sorte dove vada bambagia[57].
Le attività commerciali che avevano attirato i mercanti a P. cominciarono a declinare con l’incremento del porto di Livorno: dopo la seconda metà degli anni Trenta del XVII secolo, la situazione economica era di gran lunga peggiorata a causa dell’emigrazione di molti mercanti ed i venditori ambulanti di abiti nuovi e usati erano così numerosi che la loro attività doveva essere regolata dai massari e l’onestà del loro comportamento negli affari doveva essere tenuta sotto controllo[58].
Da un censimento del 1643, risulta che, su 75 famiglie, 8 venivano definite ricche ( Sulema, Leucci - con due nuclei familiari - Lusena, De Paz, Moreno, Sedicario e Jesurum), 7 erano considerate benestanti, 10 nullatenenti e 49 povere e mendiche. Ad eccezione dei Leucci, le famiglie italiane erano appartenenti a quelle annoverate nella categoria dei poveri e mendichi[59].
Demografia
Tra il 1550 e il 1570 la presenza ebraica a P. era di circa 100 unità, su una popolazione cittadina di 10.000 abitanti circa[60].
Da un censimento del 1613 risultavano esservi a P. 93 famiglie ebraiche per un totale di 441 persone, ma nel 1622 il numero degli ebrei era sceso a 394, presumibilmente per l’emigrazione di svariati mercanti a Livorno. Due anni dopo la peste del 1630, le famiglie ebraiche erano 76 per un totale di 357 persone, mentre, nel 1643, venivano censite 75 famiglie, per un totale di 348 individui. Da questo ultimo censimento risultava che il 75% delle famiglie erano sefardite, il 24% italiane, per lo più d’origine romana, e l’un per cento d’origine dubbia. Nel 1689 il numero degli ebrei era 205, raggruppati in 41 famiglie[61].
Quartiere ebraico e ghetto
Da una serie di documenti del primo trentennio del XIV secolo, gli ebrei risultavano abitare nella cappella di San Lorenzo in Chinseca (nelle vicinanze dell’attuale piazza Chiara Gambacorti). La concentrazione abitativa in tale zona della città rispondeva, verosimilmente, alla disposizione legislativa introdotta alla fine del secolo XII. In epoca precedente, invece, gli ebrei sembravano aver scelto di dimorare prevalentemente nel cosiddetto classus Iudeorum, sito a nord dell’Arno, nel quartiere di Ponte, non lontano dall’attuale Piazza dei Cavalieri[62].
Sinagoghe
Un documento notarile del 1439 attesta della schola sive sinaghoga iudeorum posita super secundo solario[63], nell’abitazione di Isacco di Emanuele da Rimini, dove si era insediato, abitandovi e tenendovi il banco, già nel 1408, Vitale di Matassia, di cui Isacco era genero e successore.
La sinagoga, ubicata nella parrocchia (cappella) di S. Margherita, nell’attuale via D. Cavalca, era in funzione presumibilmente già dal 1407 e rimase tale sino al 1570-71. L’edificio in cui si trovava la sinagoga era noto come la casa delli Ebrei, dove ebbe dimora la famiglia da Pisa, e venne descritto, negli anni Venti del XVI secolo, come una casa con molte camere, dal momento che essa era un palazzo enormemente grande [64].
La prima sinagoga dei Levantini (e, quindi, di rito sefardita) fu nella sede della Comunità nel Palazzo Lanfranchi, sulla riva sinistra dell’Arno, nell’attuale Lungarno Galilei, e venne aperta al culto probabilmente nel 1591, quando fu restituito a P. l’antico Sefer Torah, cedutoa Firenze un ventennio prima. Poco dopo fu dato in consegna alla sinagoga un secondo Sefer Torah, di proprietà di José Abenine[65].
Un contemporaneo descriveva la sede della sinagoga come una casa grande, bella e accomodata[66]: nel 1594, tuttavia, i massari della Nazione presero in affitto un edificio dall’apparenza più modesta, posto nell’attuale via Palestro, che venne poi abbellito con costosi lavori di falegnamerie, tappezzerie di pelle e dorature, venendo acquistato, nel 1647, con un lascito di tale Abraham Antunes, che forse aveva dimorato a P. in passato. Non resta documentazione dell’aspetto della sinagoga (sino al suo rifacimento ottocentesco): l’unica notizia certa è che, lungo il muro perimetrale della sala dove veniva officiato, era collocata una panca di legno con alto schienale, chiamata manganella, che si ritiene contenesse un’ottantina di posti[67].
Cimitero
In un arco di tempo tra il 1161 e il 1330 veniva utilizzato come luogo di sepoltura ebraico un terreno a ridosso dell’attuale Porta Nuova, come attestato da due epigrafi degli anni Settanta del XIII secolo[68]. Il primo documento cartaceo che testimonia il cimitero ebraico pisano sembra risalire al 1330, quando Vanni e Ceo del fu Mone Cavalozari rinunciavano ai propri diritti su una terra che detenevano in feudo dall’Arcivescovado di P., perché venisse concesso a Ghilla, moglie di Bondiei Fagiani[69]. L’appezzamento di terra si trovava nel luogo chiamato Catallo sive ai Lecci, che si estendeva lungo le mura cittadine, all’incirca dalla Piazza del Duomo (dei Miracoli), sin quasi all’Arno e alla Cittadella Vecchia, in corrispondenza dell’antico quartiere di Ponte. All’inizio del XV secolo, Vitale di Matassia de Synagoga acquistò un terreno ad uso cimiteriale nella località “ai Lecci”, forse confinante con il terreno adibito già precedentemente a cimitero ebraico, probabilmente perduto dagli ebrei nel corso del XIV secolo[70].
Dai documenti degli anni Ottanta del XVI secolo risulta che il cimitero era ancora proprietà della famiglia da Pisa, ma veniva ceduto al demanio che doveva adibirlo ad area di fortificazioni[71]. Scompariva così, secondo una fonte il secondo (o terzo) cimitero di P.: il terzo ( o quarto) cimitero, risalente all’inizio del XVII secolo e documentato come il campo delli ebrei fuor della Porta Nuova[72], risulta essere stato ubicato in prossimità dell’antico cimitero nella località “ai Lecci” e protetto dalle disposizioni in merito della Livornina[73].
Nel 1674 questo cimitero ebraico cessò di essere utilizzato, in quanto il terreno venne richiesto da Ferdinando II alla comunità per costituirvi la cosiddetta Fagianaia: in cambio agli ebrei venne concesso un appezzamento di terreno nei pressi della Porta del Leone, a destra della Porta Nuova, e fu rinnovato il bando che vietava l’ingresso alla popolazione cristiana, in base al capitolo XXXVII dei privilegi, che imponeva il rispetto del luogo di sepoltura ebraico[74].
Dotti, rabbini, personaggi famosi e stampa ebraica
Nel XV secolo, dominava la vita culturale ebraica cittadina la famiglia da Pisa che era – e sarebbe rimasta anche nel secolo successivo – in stretti rapporti d’affari e di amicizia con la prestigiosa famiglia Abrabanel[75].
Nel XVI secolo troviamo a P. Vitale (Yehyel Nissim) di Simone di Vitale da Pisa (1493?- prima del 1572), profondo conoscitore delle Sacre Scritture, della qabbalah, della filosofia e della astronomia, autore, tra l’altro, dell’opera Minhat qenaut ( Il dono di zelo), che intende mostrare la superiorità della religione sulla filosofia, e del Maamar hayyei olam (Discorso sulla vita eterna), un trattato di Legge ebraica sul prestito a interesse[76].
Nel 1525 l’avventuriero ebreo con pretese messianiche David Reubeni (Reuvenì) soggiornò a P., come ospite di Vitale, di cui descriveva, nel suo diario di viaggio, la devozione religiosa, la generosità e le ricche e raffinate abitudini di vita, sul modello delle grandi famiglie italiane dell’epoca[77].
Nel XVII secolo troviamo a P. il rabbino Yitzhaq Uziel, studioso della Legge, che fu nella città nel 1602-1613[78]. Tra il 1610 e il 1627, venne inviato come rabbino a P. Azaryah Picho, nato a Venezia da famiglia levantina di Salonicco, che, dopo aver lasciato gli studi secolari, si dedicò agli studi ebraici, sotto la guida di Leone Modena. Strenuo difensore di un’osservanza rigorosa della Legge ebraica, il Picho criticò le lotte intestine e la rilassatezza dei costumi della comunità pisana, comminando, tra l’altro, la pena della scomunica per chi andasse a mangiare e bere nelle osterie cristiane[79].
Nel 1634 il Vicario dell’Arcivescovo di P. ricevette istruzioni dalla Curia romana per proibire la ventilata apertura di una tipografia ebraica e sequestrare i caratteri tipografici ebraici[80]. Presumibilmente, l’iniziatore dell’impresa sarebbe stato il giovane rabbino Benyamin Babli, recentemente giunto a P. da Venezia, dove aveva studiato con Leone Modena, al quale si rivolse, tra l’altro, per dirimere questioni rituali riguardanti il diritto familiare, sorte durante il suo soggiorno quasi decennale nella città tirrenica. Il suo allievo Abraham Sulema, pur avendone conseguito il titolo, non esercitò, pare, come rabbino[81]. Successore del Babli fu il rabbino Yaaqov di Mosheh Senior, di cui ci resta un responso sul rituale sinagogale. Il rabbino David di Yehudah Sabibi, originario di Salonicco, arrivò, nel 1658, come inviato dalla Terra Santa a P., dove fu probabilmente rabbino, insegnante al Talmud Torah e macellatore rituale[82].
Poco dopo, venne, come inviato dalla comunità ashkenazita di Gerusalemme, il rabbino e cabbalista Natan Shapiro che si fermava a P. per un quadriennio, predicando in favore della rigorosa osservanza di determinati precetti. Nel 1669 fu probabilmente a P. anche il rabbino Yosef ha-Levi, inviato da Hevron[83].
Agli inizi del XVIII secolo fu noto rabbino della Comunità pisana Refael (di Elazar?) Meldola[84].
Nel 1785 Gad di Samuele Foa (Fua), della celebre famiglia di stampatori ebrei di Sabbioneta, impiantò una tipografia ebraica a P., conosciuta come la Stamperia Fua (Foa), gestita, in seguito da Samuel e Yosef Molcho, che furono aiutati nella attività tipografica da Jacob Tobiana e Jacob Nunez Vais[85].
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[1] Beniamini Tudelensis, Itinerarium, ( a cura di Colorni, V.) Bologna, 1967 (ristampa anastatica), p. 18. Secondo il Luzzati, si può ipotizzare che gli ebrei in questione provenissero da paesi cristiani e musulmani. Cfr. Luzzati, M., L’insediamento ebraico a Pisa prima del Trecento: conferme e nuove acquisizioni, p. 512 e n. 8. Da un documento dell’anno 859 si è rilevata l’esistenza di una proprietà ebraica in una zona appartenente alla Diocesi di Lucca, ma gravitante, in senso economico e geografico, su Pisa; tale dato, tuttavia, non accredita necessariamente l’ipotesi di una presenza ebraica a P. già all’epoca. Cfr. ivi, pp. 510-511.
[2] Per le iscrizioni cimiteriali in caratteri ebraici, cfr. Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, pp. 37-38; Vivian, A., Iscrizioni e manoscritti ebraici di Pisa, pp. 191-219; Idem, Iscrizioni ebraiche a Pisa in età medievale e moderna, in Atti del Convegno di Idice dell’associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo, 9-11 novembre 1982, Roma 1985, pp. 116-122. Il testo della norma statutaria restrittiva della facoltà degli ebrei di vivere in qualsiasi parte della città recita:”Non patiar, neque permittam aliquem iudeum vel iudeam habitare in aliqua parte vel loco pisane civitatis, nisi in loco et in classo Iudeorum, ubi soliti sunt morari, vel in aliquo loco alio, dicti iudei concordaverint. Ita quod dicti iudei morentur in una contrada tantum et non in diversis contratis, sub pena que michi videbitur a quolibet contrafaciente tollenda. Lonardo, P.M., Gli Ebrei a Pisa sino alla fine del secolo XV, doc. I, p. 27; cfr. Bonaini, F., Statuti inediti della città di Pisa, p. 377 (Libro III, rubrica 88). Sul fatto che non si trattasse di un ghetto vero e proprio, cfr. Luzzati, M., L’insediamento ebraico a Pisa prima del Trecento, p. 514.
[3] Luzzati, M., L’insediamento ebraico a Pisa prima del Trecento, p. 517.
[4] Lonardo, P.M., op. cit., doc. VII, pp. 40-41.
[5] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 26.
[6] Lonardo, op. cit., p. 24; cfr. doc. X, p. 45.
[7] Ibidem; per il testo di tutti i capitoli, vedi ivi, doc. X, pp. 43-47. L’obbligo del segno, cui si fa riferimento nei capitoli in questione, risalirebbe al 1321: cfr. ivi, p. 25.
[8] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 117. Sull?ascendenza di Vitale di Matassia, vedi ibidem. Su Vitale, cfr. Lonardo, P.M., op. cit., pp. 50-51.
[9] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 213; p. 218 e ibidem, n. 17; cfr.ivi, p. 66.
[10] Ivi, p. 219.
[11] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 66; p. 117.
[12] Ivi, pp. 65-66; p. 117.
[13] Alla conversione di Clemenza è stato dato molto rilievo dagli storici (Graetz, Kaufmann, Cassuto) che la considerarono una delle cause della morte del padre; mentre il Luzzati, ricostruendo la vicenda sulla base di nuovo materiale documentario e sull’approfondimento del precedente, la “sdrammatizza”, rilevando, tra l’altro, che Vitale di Isacco morì quasi dieci anni dopo la conversione della figlia. Cfr. Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 67. Per le posizioni del Graetz, del Kaufmann e del Cassuto, vedi ivi, pp. 67-68. Un dato da rilevare è che la controversa questione della dote di Clemenza-Lucrezia fu affidata, con decisione unanime da parte ebraica e cristiana, all’arbitrato del fratello, Isacco di Vitale. Cfr. ivi, p. 78. Sul marito di Clemenza, il conte Brancaleone e la sua famiglia divenuta ormai povera, vedi ivi, pp. 85-88.
[14] Ivi, pp. 69-72; il Cassuto, che aveva menzionato il processo contro Vitale e familiari nel suo libro sugli Ebrei a Firenze nell’età del Rinascimento, sarebbe stato reticente su alcuni particolari, secondo il Luzzati. Cfr. ivi, pp. 69-71; cfr. Luzzati, M., La casa dell’ Ebreo, p. 117.
[15] Riassumendo per sommi capi la vicenda, risulta che, nel 1491, Isacco di Vitale, dovendo eseguire dei lavori di restauro nella sua casa – la ben nota “casa degli Ebrei”- per non incorrere, in quanto ebreo, nell’accusa di vilipendio alla religione cristiana, chiese al Vicario arcivescovile l’autorizzazione di far distruggere un’immagine di S. Cristoforo, posta in un luogo della casa descritto come brutto e non frequentato, che ostacolava il procedere dei lavori. Ottenuta l’autorizzazione a procedere, Isacco riuscì ad ottenere che venisse rimossa anche un’immagine del santo, che era in un luogo centrale della casa, se non addirittura nella sinagoga. L’abilità di Isacco nel trattare con le autorità ecclesiastiche e il peso economico dei da Pisa nella vita cittadina consentirono che si giungesse, da parte del Vicario, ad ammettere l’incongruenza delle immagini sacre cristiane in una casa ebraica, in contrasto con la politica conversionista della Chiesa. In altre occasioni, invece, gli ebrei, com’è noto, erano stati severamente condannati per la vera o presunta iconoclastia. Non a caso, ad esempio, il tentativo di Daniele da Norsa di imitare a Mantova l’esempio del correligionario pisano incorse nell’opposizione delle autorità laiche, che intendevano sfruttare le credenze religiose dei sudditi cristiani per rinsaldare il proprio prestigio. Il Luzzati, descrivendo minutamente le diverse vicende dell’”iconoclastia” ebraica a P. e a Mantova, ne deduceva la necessità di differenziare tra gli specifici contesti politico-ecclesiastici locali dell’Italia della fine del XV secolo. Cfr. Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, pp. 205-234; cfr., in particolare, pp. 211-227.
[16] Ivi, p. 190. La data di fondazione del Monte sarebbe stata per un altro storico il 1496 : cfr. Lonardo, P. M., Gli Ebrei a Pisa, p. 65, n. 2. Tuttavia, la notizia che il banchiere di P. aveva pagato l’affitto della casa dove era ubicato il Monte - attestata da un atto dell’aprile 1495 – conferma che l’anno fu il 1495. Cfr. :ASFi, NA, C 164 (1495-1499), c. 118, citato in Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 190, n. 40.
[17] Ivi, p. 118; v., in particolare, n. 22.
[18] Ivi, p. 119, n. 24. Secondo il Luzzati, si laureò in medicina a P. anche il padre di Simone, Vitale. Per la bibliografia su Vitale Nissim di Simone di Vitale da Pisa, cfr. ivi, p. 118, n. 23. Studiò a P. e in altre città, laureandosi, poi, a Ferrara, nel 1561, un cugino di Simone, Emanuele di Salomone di Isacco (ivi, p. 119, n. 25). Su Laudadio (Ismaele) da Rieti a capo del bano di P., cfr., ivi, p. 114.
[19] Sull’attività feneratizia ebraica con gli studenti di P., cfr. ivi, p. 110 e segg. Sull’attività del banco feneratizio dei da Rieti, rispetto a quella del Monte di Pietà, vedi ivi, pp. 286-287.
[20] Toaff, R., La nazione ebrea a Livorno e a Pisa (1591-1700), pp. 34-35. Per il contenuto del bando di invito di Cosimo ai Portoghesi, descritto sommariamente in un memoriale ottocentesco sugli ebrei della Toscana, vedi ivi, p. 35. Dal memoriale appena menzionato risulta che i “cristiani nuovi” portoghesi venivano garantiti dall’inquisizione del Santo Uffizio; qualora i Portoghesi fossero stati denunziati come “giudaizzanti”, sarebbero stati processati con garanzie di legalità che venivano minutamente descritte. Ibidem.
[21] Per le caratteristiche di tale invito, si veda la voce “Firenze” della presente opera.
[22] Documenti risalenti agli anni Sessanta del XVI secolo attestano la presenza a P. di alcuni ebrei di provenienza iberica e di provenienza levantina. Tra quelli d’origine iberica, vi erano, ad esempio, Leone Falconi e i suoi fratelli, figli di Abramo “Falconi”, provenienti da Ferrara; tra quelli che si dichiaravano Levantini, troviamo Leon quondam Havaner Habibe hebreus mercator de Tripuli e Moises quondam Vitalis de Matalonis hebreus mercator levantinus e la famiglia Solema. Tra gli ebrei d’origine portoghese si presume che vi fossero anche marrani, probabilmente ritenuti di religione ebraica a P., ma cristiana altrove, come quel Dominus Lion Sabili Lusitanus, che non viene indicato come ebreo nella maggior parte dei documenti, salvo, significativamente, nel repertorio premesso a un registro notarile. Questo stesso Leone, veniva definito, talvolta, nei documenti come “levantino” e non come “ebreo”. D’altronde, dalla lista delle circoncisioni di Yehyel Nissim da Pisa, risulta essere stato circonciso il figlio di Yehudah Sabibi (Sabili), portoghese. Cfr. Luzzati, La casa dell’Ebreo, pp.130-133. Cfr. Toaff, R., op. cit., p. 57, n. 26. Sul fatto che ebrei portoghesi abitanti a P. si definissero “Levantini”, già prima del 1570, per non correre rischi con l’Inquisizione e per godere dei privilegi ai Levantini concessi nel 1551, cfr. ivi, pp. 57-58.
[23] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 115, n. 13; cfr. Cassandro, M., Gli Ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento, pp. 28-29.
[24] Luzzati, La casa dell’Ebreo, p. 287.
[25] Per i particolari relativi alla chiusura del banco feneratizio di Angelo, cfr. Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, pp. 287-288.
[26] Toaff, R., op. cit., pp. 39-40.
[27] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, pp. 120-121; cfr. p. 120, n. 29. Nel 1595 grazie all’intervento di Ferdinando I, si laureò in medicina a P. un ebreo ( di cui si ignora il nome); tuttavia, nel 1621, in occasione ancora della laurea di un ebreo a P., la Santa Sede ammonì il governo granducale a desistere dal concedere la laurea agli ebrei. Nel XVII secolo, infatti, non risultano lauree di ebrei presso lo Studio. Ivi, p. 122; cfr., in particolare le note 32 e 34.
[28] ASFi, Magistrato Supremo, n. 4449, cc. 113rv, citato ivi, p. 289, n. 61.
[29] Ivi, p. 290.
[30] Toaff, R., op. cit., p. 42. Secondo il Luzzati, oltre ai mercanti attirati dall’invito mediceo, vi era già una piccola comunità marrana a P., che sarebbe stata l’immediata beneficiaria dei privilegi concessi. Cfr. Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 141.
[31] Sulla sua figura, cfr. Toaff, R., op. cit., pp. 42-43.
[32] Per questa e per altre ipotesi sulla collaborazione tra Maggino e i destinatari delle patenti granducali, cfr. ivi, pp. 43-44.
[33] Ivi, pp. 45-48. Per il testo completo delle lettere patenti del 1591 e del 1593, cfr. ivi, Allegato 1, pp. 419-435.
[34] Ivi, p. 44.
[35] Ivi, pp. 49-51; cfr. ivi, pp. 432-433.
[36] Ivi, pp. 57-59. L’ultimo documento in cui gli ebrei di P. si definiscono membri della “Nazione Ebrea Levantina” è del luglio 1634. Cfr. ivi, Appendice, Documento 7, 14, p. 545. Per ulteriori informazioni sui marrani di P., cfr. ivi, pp. 99-104.
[37] Ivi, p. 108.
[38] Salvadori, R., Breve storia degli ebrei toscani, p. 89.
[39] Ivi, p. 90 e segg.
[40] Archivio di Stato di Pisa ( in seguito ASPi), Comm., n. 6, cc. 124-129v., citato in Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 135, n. 40.
[41] ASPi, Comm. n. 8, c. 12, citato ivi, p. 135, n. 41.
[42] ASPi, GC., n. 284, c. 188v (n. 130),ø27 febbraio-4 marzo 1553, citato ivi, p. 135, n. 42.
[43] Ivi, p. 136. Inoltre, va ricordata la presenza degli ebrei del contado pisano, tra Pontedera, Cascina e Ponsacco, e la presenza, già nella prima metà del XVI secolo, di ebrei iberici. A proposito di questi ultimi, vedi ivi, p. 129.
[44] Toaff, R., op. cit., p. 67, n. 7; cfr., Appendice, Documenti, p. 524.
[45] Ivi, Appendice, Documenti, p. 541.
[46] Per queste e per ulteriori informazioni in materia, cfr. ivi, pp. 67-72; per i criteri di ammissibilità al “massarato”, dopo il 1638, pp. 72-74.
[47] Ivi, pp. 74-75.
[48] Ivi, pp. 75-77.
[49] Ivi, p. 78. Da rilevare è l’assenza di documenti sulle attività specifiche della confraternita. Ibidem.
[50] Ivi, pp. 78-80.
[51] Sulla scuola, i suoi programmi e i suoi insegnanti, risultano, tuttavia, scarse notizie. Cfr., ivi, pp. 81-82.
[52] Ivi, p. 85; per il testo delle haskamot del Libro Nuovo, cfr. ivi, Appendice, doc. 2, pp. 499-515.
[53] Per il testo dei capitoli del Libro Vecchio, cfr. ivi, Appendice, doc. 1, pp. 493-498.
[54] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 27. Non vengono menzionate, tuttavia, in modo specifico le attività di tali famiglie; dal diario di viaggio di David Reubeni, a P., nel 1525, risulta che, a parte la famiglia da Pisa che lo ospitava, i restanti ebrei di Pisa erano gente poverissima. Cfr. ivi, p. 219, n. 20.
[55] Lonardo, P.M., op. cit., p. 53; p. 56.
[56] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 287.
[57] Fantozzi Micali, O., La segregazione urbana. Ghetti e quartieri ebraici in Toscana, p. 129, n. 60.
[58] Toaff, R., op. cit., pp. 97-98.
[59] Ivi, p. 64.
[60] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 136.
[61] Toaff, R., op. cit., pp. 60-64; cfr. Frattarelli Fischer, L. Insediamento ebraico nella Pisa del ‘600, p. 12 e segg. Riguardo ai dati del 1689, una fonte arrotonda il numero delle presenze ebraiche a 250. Cfr. ivi, p. 64, n. 61.
[62] Luzzati, M., L’insediamento ebraico a Pisa prima del Trecento, pp. 515-516; cfr. ivi, p. 516, n. 22 e 25. Per la disposizione legislativa tardo-duecentesca che statuiva la concentrazione in una zona specifica della città, cfr. la nota 2 della presente voce.
[63] ASFi, NA, F 598 (1439), ser Guglielmo Franchi, cc. 86v-87, citato in Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 213, n. 12.
[64] Ivi, p. 219, n. 20. Data la presenza ebraica a P., già dal XII secolo, in mancanza di documentazione specifica, sono state fatte alcune supposizioni sulla possibile ubicazione di oratori o sinagoghe tra il XII e il XIV secolo: cfr. Luzzati, M., Alla ricerca delle sinagoghe medievali di Pisa, in Id.( a cura di), La sinagoga di Pisa, pp. 12-16. Per la sinagoga dei da Pisa, cfr. ivi, pp. 16-17. Quando i da Pisa lasciarono la città, dopo il 1494, presumibilmente una sinagoga fu aperta nell’edificio abitato dalla famiglia Leucci, originaria di San Severino Marche, che era ubicato nella parrocchia o cappella di S. Margherita. Si suppone che anche la famiglia da Rieti, imparentata con i da Pisa, avesse un oratorio domestico nella sua dimora, nell’attuale piazza D’Ancona, presso la chiesa di S. Francesco. Cfr. ivi, p. 18.
[65] Toaff, R., op. cit., p. 104.
[66] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 31, n. 43.
[67] Toaff, R., op. cit., p. 105; cfr. Fanucci Lovitch, M. , L’edificio ( secc. XIV-XIX), in Luzzati, M., La sinagoga di Pisa, p. 25 e segg. ; Bemporad Liascia, D., Gli arredi ( secc. XVI-XIX), ibidem, pp. 69-82.
[68] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 38.
[69] Archivio della Mensa Arcivescovile di Pisa (AMAPi), Protocolli Notarili, n. 11, c. 331r-v, citato ivi, p. 39, n. 7.
[70] Ivi, p. 40 e segg.
[71] Ivi, pp. 44-46.
[72] ASPi, FF, n. 2537, c. 1, citato ivi, p. 46, n. 35.
[73] Ivi, p. 46.
[74] Ivi, pp. 46-47; cfr. Toaff, R., op. cit., p. 108.
[75] Kaufmann, D., La famille de Yehiel de Pise, in REJ XXVI (1893),pp. 83-110; pp. 220-239.
[76] Per ulteriori notizie sull’opera di Vitale, cfr. Guetta, A., Vita religiosa ed erudizione ebraica a Pisa: Yechiel Nissim da Pisa e la crisi dell’aristotelismo, in Luzzati, M. (a cura di), Gli ebrei di Pisa (secoli IX-XX), pp. 45-67.
[77] Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, pp. 27-28; p. 219, n. 20.
[78] Toaff, R., op. cit., p. 103, n. 18; p. 107.
[79] Ivi, pp. 91-93; p. 107.
[80]Luzzati, M., La casa dell’Ebreo, p. 33, n. 48.
[81] Toaff, R., op. cit., pp. 106-107; per i quesiti sottoposti al Modena, v. Simonsohn, S., Sheelot u-tshuvot ziqne’ Yehudah (Responsa di Leone Modena), Jerusalem, 1955, p. 142; p. 146.
[82] Toaff, R., op. cit., pp. 81-82, p. 107.
[83] Ivi, pp. 83-84.
[84] Ivi, p. 107; Mortara, M., Indice alfabetico dei rabbini e scrittori israeliti, p. 38.
[85] Amram, D., The Makers of Hebrew Books in Italy, p. 397.