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Volta Mantovana (La Volta) (לה וולטה)
Provincia di Mantova. Posta in un area dominata da etruschi, galli e romani, nel Medioevo il centro appartenne ai Canossa e dalla metà del Trecento ai Gonzaga, che lo tennero sino al XVIII secolo.
Il primo accenno alla presenza ebraica nella località risale al 1491, quando furono autorizzati a fenerare Angelo (Mordekhay) di Giacobbe da Sermide e Isacco di Bonaventura (Meshulam) Fano da Mantova[1]: quattro anni dopo (1495) ricevettero l’absolutio i soci Daniele e Isacco da Senigallia, cui, nello stesso anno, venne concessa una conferma del permesso di fenerare[2].
Lungo tutto l’arco del secolo XVI, il banco di V. proseguì l’attività, con la presenza di vari banchieri[3].
La tassa per il rinnovo del privilegio ebraico del 1587, pagata a V., ammontava a 358 scudi, mentre dieci anni più tardi arrivava a 500 scudi[4].
In seguito ai provvedimenti presi dal vescovo di Mantova, nel 1595, per sottoporre i libri ebraici a censura, centinaia di testi furono espurgati a V.[5].
Nel primo trentennio del secolo successivo, il banco continuava ad essere in funzione[6] ed alla nascita dei figli di Francesco II (1609 e 1611) furono prese speciali misure per proteggere gli ebrei dagli eccessi cui la popolazione locale si abbandonava, in occasione di tali eventi[7].
Nel corso degli anni Venti del secolo, anche gli ebrei di V. furono costretti all’acquisto forzato di grano per smaltire le scorte ducali[8].
Dopo la fine della guerra di successione mantovana, un gruppo di feneratori, tra cui, per V., Abramo Senigallia e soci, si appellò nel 1632 al Duca per ricevere aiuti economici, essendo caduto pressoché in miseria per le infauste vicende belliche[9].
Ulteriori testimonianze del gruppo ebraico locale non sono state reperite.
Attività economiche
Gli ebrei di V. furono principalmente impegnati nella conduzione del banco di prestito: tuttavia, nel 1605, ricevettero il permesso di affiancare all’attività feneratizia la vendita di indumenti di lana[10]. Da un documento precedente (1590), relativo ai feneratori che erano occupati anche nel commercio, risulta che ve ne erano due a V.[11].
Bibliografia
Simonsohn, S., The History of the Jews in the Duchy of Mantua, Jerusalem 1977.
[1] Archivio Gonzaga di Mantova (Libro dei decreti), 7 marzo 1491, citato in Simonsohn, S., History of the Jews in the Duchy of Mantua, p. 213 (nota).
[2] Ivi, p. 213 (nota). Isacco, il cui padre si chiamava Avigdor, si trova menzionato nel registro della Sinagoga Grande. Prima di trasferirsi a V. aveva abitato a Mantova ed acconsentì a vendere la propria casa di Mantova, in Contrada del Grifone, alla Comunità ebraica per trasformarla in sinagoga: a tale sinagoga egli lasciò parte delle sue ricchezze, dopo aver istituito il legato in favore della “Sinagoga Grande”. Nei documenti in volgare Isacco è menzionato come figlio di Bonaventura da Senigallia: l’uso del nome Bonaventura come equivalente italiano dell’ebraico Avigdor è inusuale, in quanto, abitualmente, si trova il nome Bonaventura come traduzione dell’ebraico Meshulam. Ivi,p. 568.
[3] Nel 1503 Isacco da Senigallia ricevette il permesso di vendere il banco al cognato Salvatore (Yehoshua) di Benedetto (Barukh) e, l’anno successivo, il permesso di fenerare. Nel 1520, oltre a Isacco, ricevettero l’autorizzazione anche Isacco Meldola e i fratelli Lazzaro (Eleazar) e Israele da Rovigo. Dodici anni più tardi (1532), Isacco Senigallia vendette la propria parte del banco al socio Abramo da Rodigo. Dopo Abramo da Rodigo, gestirono il banco, con la debita autorizzazione, dal 1557 al 1575, Daniele di Abramo Levi detto dall’Arpa (presumibilmente figlio del musicista di corte dei Gonzaga) e Giuseppe da Civitavecchia. Quest’ultimo, cui veniva permesso di prendersi un socio, fu sostituito, dopo la morte, dai figli Zaccaria, Sabbato (Shabbetay) e Leone (Yehudah) nel 1580. Sette anni dopo, il banco passò nelle mani di Leone , sino al 1598, quando questi ricevette il permesso di vendere metà del banco ai soci Mosè, Daniele e Vitale (Yehiel) Melli. Ivi, p. 225. Su Vitale (Yehiel) Melli, vedi alla voce “Goito” della presente opera.
[4] Ivi, pp. 165-166.
[5] Dall’elenco, che comprende V. e altre località (Castiglione, Castelgoffredo e Canneto), risultano essere stati espurgati 912 testi. Ivi, p. 691.
[6] Nel 1605 Leone da Civitavecchia e David Milio ricevettero l’autorizzazione a fenerare, mentre nel 1626 la ebbero Abramo Senigallia e i suoi fratelli e nipoti, Simone (Shemuel) Melli e gli eredi di Leone da Balma da Fano. Ivi, p. 237.
[7] Ivi, p. 127, nota 76.
[8] Ivi, pp. 279-280, nota 269.
[9] Ivi, p. 66.
[10] Ivi, p. 237 (nota).
[11] Ivi, p. 392, nota 220. Da un documento del 1591, risulta che le tasse per l’acquisto di riso erano state pagate anche a V. (ivi, p. 393, nota 222).