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Taranto ( טרנטו)
T. si affaccia nel punto più interno del grande golfo a cui dà nome. Il nucleo originario, che poi divenne l’acropoli ed ora è la città vecchia, sorgeva su di una penisoletta che si protendeva verso Ovest tra le acque del Mar Grande e quelle di un grande bacino lagunare, detto Mar Piccolo. L’istmo fu tagliato nel medioevo a protezione della città ed in tempi diversi il fossato venne approfondito ed allargato e infine trasformato nel Canale Navigabile.T. fu una delle più floride città della Magna Grecia, ma nel 272 a C. si arrese ai romani, divenendo città federata e, dopo la guerra sociale, nell’89 a. C., municipio. Nel 546 Belisario l’unì all’Impero bizantino, ma nel 662 cadde in potere dei longobardi di Benevento. Dopo varie vicissitudini, passò nel medioevo ai Del Balzo e agli Orsini, divenendo un Principato che comprendeva gran parte della Puglia e della Basilicata e raggiunse l’apice dello splendore con Giovanni Antonio Orsini del Balzo (1386 o 1393-1463). Alla morte di questi, il Principato fu incorporato nel Regno.
Sede vescovile attestata nel VI secolo[1].
Una tradizione ebraica medievale narra di alcune migliaia di ebrei catturati a Gerusalemme nel 70 d. C. e deportati da Tito a T., Otranto ed in altre città della Puglia[2]. La tradizione, che può avere avuto un fondamento reale, intendeva esaltare la comunità tarantina e le antiche comunità pugliesi, le cui prime origini sembrano tuttavia riconducili a fattori geografici e commerciali.
La documentazione più antica sugli ebrei a T. è costituita da epigrafi funerarie, la cui datazione procede dalla fine del IV secolo al IX[3]. Redatte in greco, latino ed ebraico – la maggior parte sono bilingui – le epigrafi provengono da un’area sepolcrale che aveva il proprio epicentro nel luogo detto Montedoro, dove oggi sorge il Palazzo degli Uffici (ex Orfanotrofio). Nella stessa zona furono rinvenute anche diverse lucerne cristiane, indice della promiscuità dell’area.
Nelle due iscrizioni in lingua greca – la prima databile alla fine del sec. IV, la seconda ai sec. V-VI -, compaiono i nomi di Elia, Iacob, Daudato, Azaria e Susanna; in quelle latine (sec. VII-IX) abbiamo Shabbatai, Iacob, Erpidia, Donnolo, Aster, Samuele, Silano, Ezechiele, Anatolio, Giusto e Rachele. Le epigrafi in lingua ebraica tramandano i nomi di Iosef, Leone, David, Ester e Basilio. Il prevalere del latino nell’epigrafia sembra da porsi in relazione con la conquista longobarda di questa parte di Puglia (662). Il dominio longobardo fu interrotto nell’840 dagli arabi, i quali restarono nella città sino all’880, quando tornarono i bizantini. La riconquista bizantina comportò una ri-ellenizzazione di T., al punto che Beniamino da Tudela (ca. 1160) dirà che tutti i suoi abitanti erano greci. L’adattamento degli ebrei al nuovo dominio potrebbe vedersi nel nome Teofilatto, detto Chimaria, che troviamo proprietario di vigne nel 1033 e nel 1039[4].
Nel 925 fu riscattato a T. il tredicenne Donnolo b. Avraham Shabbetai, che era stato catturato dai musulmani nell’espugnazione di Oria il 4 luglio di quell’anno. Il riscatto fu pagato con denaro dei suoi genitori, che di certo avevano affari nella città e lo avevano depositato presso congiunti di questa comunità[5]: Donnolo, come è noto, diventò medico e filosofo insigne.
Gli arabi sottoposero più volte T. a distruzioni dopo la loro cacciata a opera dei bizantini e forse la ricostruzione, o il consolidamento, delle fortificazioni richiese l’utilizzazione anche delle lapidi del cimitero giudaico[6]. Questa congettura è sostenuta dal rinvenimento nel 1884 di un grosso frammento di iscrizione ebraica durante la demolizione della Torre della Giudecca (Canale di Porta Lecce), che faceva parte di un complesso di tre torri costruite verso la fine del XVI secolo a completamento delle fortificazioni del castello. È possibile che il frammento provenisse dalle antiche fortificazioni demolite per fare posto alle nuove o dallo sterro di Montedoro fatto nella stessa occasione, sempre per motivi militari.
La torre era detta «della Giudecca» perché situata nei pressi del quartiere ebraico, che si trovava nell’angolo nord-est della zona istimica della città, in quello che era conosciuto come il pittagio Torrepenna. Dal quartiere si passava all’esterno delle mura attraverso la «Porta della Ebraica», ossia della Giudecca. Nei suoi pressi si ergeva la chiesa di San Bartolomeo e dalla Porta un breve cammino conduceva all’area sepolcrale della comunità.
Secondo Beniamino da Tudela, quest’ultima a metà XII secolo era costituita da circa 300 membri, molti dei quali erano dotti, ed i suoi capi si chiamavano R. Meir, R. Nathan e R. Israel[7].
Esponente della tradizione culturale e calligrafica ebraica tarantina fu nell'XI secolo Shemuel ha-Sofer, ricordato per la sua bravura da Natan ben Yechiel di Roma (1035- 1106 ca.). Nel colofone in versi al suo ‘Aruk, un dizionario ebraico che fu per secoli il principale sussidio lessicale per lo studio del Talmud, l'erudito romano attesta, infatti, d'avere fatto ricopiare il testo biblico con tutti gli abbellimenti delle lettere e le modalità grafiche prescritte dai Maestri per mano del copista tarantino.
In questo periodo i normanni avevano già conquistato il Mezzogiorno. Nel 1133 Ruggero, re di Sicilia, accogliendo le richieste del vescovo Rosemanno, confermò a lui e alla sua chiesa i privilegi e le donazioni concesse dal duca Roberto il Guiscardo, dal principe Boemondo e dalla madre di questi, Costanza. Fra le donazioni, c’erano i redditi sulle attività dei giudei della città. La donazione fu confermata nel 1195 da Enrico VI di Svevia. In quel tempo l’attività precipua dei giudei tarantini era la tintura delle stoffe e, nel quadro della politica riorganizzativa di quell’industria, Federico II riservò nel 1231 all’arcivescovo di T. il diritto a non più di 10 once annue sugli utili ricavati dalla tintoria, ma di lì a qualche anno il mastro camerario di Terra d’Otranto si rifiutò di corrispondere all’arcivescovo la somma in assenza di un espresso mandato sovrano. Ebbe così inizio una controversia sulla spettanza della somma tra la chiesa locale ed il fisco, che sarebbe proseguita anche in epoca angioina[8].
Nel 1266 Carlo I d’Angiò si impadronì del Mezzogiorno, sottraendolo al figlio di Federico II, Manfredi. La nuova dinastia si caratterizzò subito per il proselitismo nei confronti dei musulmani e degli ebrei e sotto la pressione combinata della Corte e dei nuovi ordini dei domenicani e dei francescani, le comunità ebraiche si dissolsero. Nel 1292 a T. 172 ebrei accettarono il battesimo[9] e presero nomi nuovi, che di solito erano quelli dei padrini, appartenenti nella maggior parte dei casi alle famiglie più in vista della città.
La vita dei neofiti non fu facile, essendo costantemente nel mirino dell'Inquisizione, attenta a cogliere in loro tracce di pentimento del passo fatto o qualche gesto che sapesse di giudaismo. Più tardi fu permesso ai neofiti che lo avessero voluto di tornare alla religione dei padri, ma i rapporti con i cristiani permanevano tesi, in un’altalena di concessioni e di rigore che non permetteva né al neofito né all’ebreo di sentirsi pienamente inserito nella società in cui viveva.
Questo clima di sospetto e di mutuo disprezzo spiega l’esplosione di violenza contro i neofiti avvenuta a T. ai primi di luglio del 1411[10]. Causa occasionale furono alcune parole ingiuriose che alcuni neofiti, impegnati nei lavori di armamento di una galea, avrebbero detto ai marinai cristiani loro colleghi. La voce degli insulti si divulgò fulmineamente per la città e la popolazione cristiana si avventò, armi in pugno, contro le case dei neofiti e le mise a saccheggio. Per sedare gli animi, accorse con i propri uomini il capitano Gabriele Capitignano, che fu però immediatamente linciato. Un Giovanni Cappello di T., temendo il furore popolare, fuggì verso il castello, ma venne ucciso da un sasso scagliatogli dalla sommità della rocca. Dopo tali fattacci, l’Università cercò di correre ai ripari per evitare la punizione, e spiegò al re che la sollevazione era stata generale e che gli eccessi e gli omicidi erano stati commessi sconsideratamente, a motivo della sovreccitazione e perché così aveva voluto «il fato, o il nemico del genere umano». Il re, seguendo l’esempio di Dio, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta al bene, perdonò e prosciolse tutti da ogni delitto e pena.
Con gli Aragonesi, subentrati nel 1442 agli Angioini nel dominio del Regno, la documentazione sui neofiti e gli ebrei a T. diventa assai ricca e illustra sufficientemente i loro rapporti con l’autorità centrale, l’Università, i cittadini e i gabellieri, nonchè le loro attività e la loro mobilità - specialmente all’interno di quello che era stato il Principato di Taranto -, la consistenza numerica e le controversie. Da notare che l’Università mostrò verso i neofiti maggiore comprensione che non verso gli ebrei, per i quali chiese nel 1463 che fossero concentrati in un solo quartiere e nel 1464 che portassero il segno distintivo[11]. L’attività precipua degli ebrei in questo periodo era costituita dalla mercatura e dal prestito su pegno.
Nel corso del XV secolo gli ebrei ebbero a T. anche vari interessi culturali, come testimoniano i manoscritti copiati in quel periodo. Un manoscritto fu eseguito, ad esempio, negli anni 1464-1466 per uso personale da un ebreo di Corfù, il cui nome lo rivela di origine arabo-sefardita: Shemuel b. David il Medico ibn Shoam, soprannominato Burla. Il codice contiene sette trattati di medicina tradotti dal latino in ebraico, per la maggior parte composti da Arnaldo da Villanova e da Gerardo (de Solo)[12].
Un altro manoscritto ha Shemuel b. David ibn Shoam Burla non come copista, ma come committente e destinatario del lavoro[13]. Questo fu eseguito da Menahem b. Iosef Vivante nel 1467 e certamente a T., dove il committente l'anno precedente aveva operato. Menahem Vivante è autore anche di un manoscritto, privo di data topica, eseguito nel 1446 (cod. Oxford 1605) e contenente alcuni trattati cabalistici. Il manoscritto per Shemuel b. David Burla contiene le She'iltot (“Quesiti”, “Questioni”) di Acha di Shabcha (un autore vissuto tra il 680-752). Il libro, scritto in aramaico, tratta sia questioni legali e rituali sia dei “doveri del cuore”, ossia di obbligazioni etiche.
Alla speculazione mistica sono dedicate le opere contenute in un altro codice tarantino[14]: La spiegazione dei segreti della Torah nel commento di Ramban, La disposizione della Divinità ed i Capitoli sul Messia, il mondo delle anime e la resurrezione dei morti. Dal colofone della prima opera - datato 12 novembre 1493 - sappiamo che il copista si chiamava Ysaac b. Natan Cohen ed era di origine spagnola. La maggior parte del codice è di sua mano, mentre il primo quaderno del libro della Disposizione (ff. 81r-96v) rivela un copista di origine bizantina. Nell'antica rilegatura del manoscritto si trovava inserito un frammento pergamenaceo recante le formule finali di un atto giuridico rogato da un notaio di T. di nome Stefano.
Negli ultimi anni di Ferrante I d’Aragona sembrò che il cielo sugli ebrei del Regno cominciasse ad oscurarsi. L’animosità verso di essi si accentuò, suscitata sovente dal fanatismo di alcuni religiosi. Uno di questi, un fra’ Francesco, spagnolo, inventò persino che San Cataldo, il venerato patrono di T., gli era apparso in sogno per dargli man forte nella sua battaglia contro i giudei. Si era nel 1492 ed il frate, dopo avere fatto invano ricorso all’eloquenza per indurre la corte ed il popolo a scacciare gli israeliti, scosse gli animi con l’annuncio che il Santo gli aveva rivelato l’esistenza di una cassetta contenente certe sue profezie incise su lamine di piombo, che preannunciavano la rovina del Regno e la vicina morte del re se non si fosse affrettato ad espellerli. Re Ferrante, la cui benevolenza verso gli ebrei era una caratteristica della sua ricca personalità, non solo non prestò fede al frate, ma lo ammonì severamente a non turbare gli animi[15].
Dopo la tempesta provocata dalla venuta di Carlo VIII di Francia (1495), sembrò che una nuova primavera fiorisse con Federico, figlio di Ferrante I d’Aragona, dal quale, con i Capitoli del 12 giugno 1498, gli ebrei ebbero il miglior corpus di garanzie e di riconoscimenti di diritti che mai abbiano avuto in Europa sino ai tempi moderni. Ma la primavera durò poco. La conquista del Regno da parte degli spagnoli nel 1503 avviò la fine della presenza ebraica nel Mezzogiorno. Nel 1510 Ferdinando il Cattolico fece pubblicare il bando di espulsione dei giudei e dei cristiani novelli, ad eccezione di duecento famiglie delle più facoltose. A questa data i nuclei ebraici a T. si erano ridotti a 18 mentre quelli cristiani erano 1400. Parecchi neofiti ricorsero contro l’espulsione, affermando di potere dimostrare di non essere venati di ebraismo e di essere sposati con cristiane de natura, ossia non discendenti di giudei convertiti. Ebbero il permesso di restare Siciliano Dastori, Argentino de Lanzellotto, Masello de Bencivenga, Giovanni Paolo de Salvis ed Andreano de Valente[16].
Il bisogno delle popolazioni spinse le autorità a tollerare il rientro dei giudei e il loro ricostituirsi in comunità. Quella di T. divenne una delle più prospere della provincia, come attestano i contributi fiscali che pagò nel 1535. Fra i suoi notabili in questi anni c’erano mastro Isac de Speranza e mastro Polidoro Speranza, il quale operava come prestatore a nome di don Simone Abravanel e a nome proprio. Poi tutto finì, per volontà di Carlo V, nell’ottobre 1541[17].
Bibliografia
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[1] Cfr. De Vincentiis, D.L., Storia di Taranto. Nuova edizione a cura di C.D.Fonseca, Taranto 1983; Vetere, B., (a cura di), Storia di Lecce dai Bizantini agli Aragonesi, Bari 1993.
[2]The Josippon [Josephus Gorionides], I, pp. 432-433.
[3] Noy, D., Jewish inscriptions of Western Europe, Vol. I, Italy (excluding the City of Rome), Spain and Gaul, Cambridge 1993; Colafemmina, C., Gli ebrei a Taranto nella documentazione epigrafica (secc. IV-X), pp. 109-127, tavv. XVII-XXXIV.
[4]Trinchera, F., Syllabus Graecarum Membranarum, pp. 29-31, doc. XXVI; pp. 36-37, doc. XXXI. Chimaria, traslitterazione dell’ ebraico Shemaryah, è l’esatto corrispondente del greco Teofilatto: “Dio custodisce”.
[5] Il Commento di Sabbatai Donnolo sul Libro della creazione, a cura di D. Castelli, pp. 3-4 (ebr.).
[6] Qualche settore dell’area continuò ad essere usato con funzione cimiteriale da parte dei cristiani, come attesterebbero due iscrizioni databili ai secc. XI-XII rinvenute nella zona. Cfr. D’Angela, C., Due stele bizantine del Museo Nazionale di Taranto, pp. 386-392.
[7] The Itinerary of Benjamin of Tudela, a cura di Adler, M. N., p. 11 (ebr.), p. 9 (ingl.).
[8] Cfr. Colafemmina, C., Gli Ebrei a Taranto. Fonti documentarie, pp. 46-47, doc. 27; pp. 49-63, doc. 30-36; pp. 76-81, doc. 44-46.
[9]Ferorelli, N., Gli ebrei nell’Italia meridionale, p. 55.
[10]Cfr. Vacca, N., Per la storia degli Ebrei in Taranto: 1)Un tumulto antisemita nel 1411, pp. 221-224, 226-229.
[11] Cfr. Colafemmina, C., Gli Ebrei a Taranto cit., pp. 106-107, doc. 65; p. 114, doc. 70.
[12] Sirat, C. - Beit-Arié, M., Manuscrits médiévaux en caractères hébraiques portant des indications de date jusq’à 1540, , I, 121.
[13]Sirat, C. - Beit-Arié, M., Manuscrits médiévaux, I, 123.
[14]Sirat, C. - Beit-Arié, M., Manuscrits médiévaux, III, 49.
[15] Ferorelli, N., Gli ebrei nell’Italia meridionale, p. 189.
[16] Cfr. Colafemmina, C., Gli Ebrei a Taranto, pp. 176-183.docc. 107-112.
[17] Ferorelli, N., Gli ebrei nell’Italia meridionale, pp. 236-236; Colafemmina, C., Gli Ebrei a Taranto, p. 200, doc. 126 (21 gennaio 1540). Mastro Isac de Speranza emigrerà nello Stato Pontificio. Nel 1545 gli fu concesso il permesso, valido per cinque anni, di gestire un banco di prestito in Vetralla. Cfr. Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, V, p. 2493, n. 2540*.