Gavi

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Gavi

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Gavi (גאווי)

Provincia di Alessandria. Posto sul torrente Lemme, che è un subaffluente della Bormida,  G. è di origine romana, ma il primo documento che ne attesti l’esistenza risale al 972. Il Comune di G. nacque nella seconda metà del XII secolo e, nel 1202, il centro passò sotto il dominio di Genova.

 

Un ebreo, di cui non viene fatto il nome, visse a G. nel 1471: gli fu ordinato di presentarsi entro due giorni dal cancelliere del Ducato di Milano, pena una pesante multa[1]. Forse si trattava del banchiere Benedetto, alias Tedesco, che, con la moglie Bona, nel 1472 si trasferì ad Alessandria e fu accusato di aver portato via i pegni dei debitori. I due furono seguiti nella gestione del banco a G. da Benione, che, a sua volta, aveva firmato una condotta con il Comune nel 1471. In seguito Benione e Benedetto entrarono in lite e furono processati[2].

Lo stesso Benione (Bignono) e suo figlio ebbero una controversia con Maestro Colombo di Mirandola, di fronte ai rabbini nel Ducato di Milano:  pomo della discordia furono affari matrimoniali e, più tardi, le parti si sottoposero anche ad un arbitrato, ma, poiché Benione ed il figlio si rifiutarono di accettare il lodo scaturitone,  furono scomunicati[3].

Nel 1550, nonostante l’ordine di espulsione degli ebrei, le autorità genovesi concessero al medico di G. l’autorizzazione di restare nella località, continuando la propria attività[4].

Da una lettera di Vito Levi, che, nel 1565, si rivolse ai Serenissimi Signori riferendo che gli ebrei di G. e di Novi avevano rifiutato il denaro offerto loro da altri correligionari, che volevano lavorare anch’essi in tali località, si apprende dell’esistenza allora a G. di banco di pegno gestito da un ebreo[5].

Nel 1567 i cittadini di G. chiesero che Alessandro Nantua fosse autorizzato a stare nella località, nonostante l’ordine di espulsione, per il suo ottimo comportamento nei confronti di tutta la popolazione e il Nantua stesso indirizzò una petizione in tal senso al Senato, posto che dal 1548 esercitava con grandissima satisfatione di tuto quel populo […] quel arte che generalmente sogliono tuti li hebrei di prestar denari […][6]. Nel 1570 al Nantua furono così concessi tre anni di residenza, ad onta dei decreti vigenti. Due anni dopo, il Doge e i Governatori mandarono una lettera ai podestà di alcune località, tra cui G., per denunciare gli abusi da parte dei cristiani che per avidità fornivano ai poveri generi alimentari a prezzi esosi: in una di tali missive veniva osservato esplicitamente che il guadagno dei cristiani superava di molto quello degli ebrei[7].

Nel 1578 il podestà di G. informò le autorità genovesi che tre fratelli ebrei, Angelo, Lazzaro e Anselmo Nantua, figli di Alessandro, erano stati autorizzati a vivere a G. con molta soddisfazione della terra e massime dei poveri[8]. Poco dopo, il podestà si rivolse al Senato, sostenendo che era necessario avere un banco a G.

Nel 1582 furono emanate alcune disposizioni riguardanti il comportamento da tenersi da parte degli ebrei di G. durante il periodo della Settimana Santa (divieto di qualsiasi rapporto con i cristiani per due settimane) ed il prestito su pegno, che poteva solo essere fatto su pegno mobile e al 15%.

Da questo stesso anno Vita Poggetto e famiglia furono autorizzati a vivere e ad essere attivi a G., Novi e Ovada[9].

Nel 1587 gli israeliti di G. ricevettero dalle autorità genovesi l’ordine di portare il segno distintivo giallo o di andarsene entro due mesi: l’anno successivo il podestà ricevette ( ed eseguì) l’ordine di prendere informazioni sugli ebrei locali, in attesa che venissero prese ulteriori decisioni[10].

Il cardinale Enrico Caetani, Camerlengo pontificio, concesse nel 1589 una tolleranza per tenere banco a G. ai fratelli Angelo e Lazzaro de Nantua[11] e, nel 1591, il primo dei due indirizzò una petizione al Senato chiedendo di essere autorizzato a commerciare, insieme ad altri correligionari, in granaglie ed altri generi alimentari provenienti da Lombardia, Piemonte, Monferrato e regioni limitrofe, a patto di non esercitare l’attività feneratizia. L’anno successivo alcuni membri del Comune indirizzarono una lettera al Doge e ai Governatori, informandoli del comportamento violento di uno degli ebrei locali nei confronti del Cancelliere G.B. Mayda e di uno dei Consoli di Parodi e delle difficoltà in cui versava la popolazione per colpa di coloro che non portavano il segno ben visibile.

Alcuni giorni più tardi, però,  Lazzaro e Angelo Nantua furono difesi di fronte al Senato, risultando vittime dell’accusa calunniosa di possedere armi proibite, avanzata dai Consoli di G., e dell’ingiusta confisca dei beni da parte del podestà. Il Senato decretò lecite le armi confiscate, mentre Lazzaro Nantua, condannato a tre anni di esilio per la lotta armata ingaggiata contro il Mayda, ricevette un lasciapassare per comparire di fronte alla corte a difendersi dalle accuse. Nel frattempo, era stata decisa l’asta dei pegni non riscattati, portati agli ebrei di G. dai cittadini di quella località, di Voltaggio e  di Parodi[12].

Contemporaneamente, il Senato indirizzò un decreto ai podestà di una serie di località, tra cui G., ordinando che gli ebrei abbandonassero il Dominio entro tre mesi, pena il carcere e la confisca dei beni, che sarebbero stati incamerati dal Tesoro. Alcuni giorni dopo, risultavano essere stati espulsi Lazzaro e Angelo Nantua e, in seguito, una lettera anonima partì da G. per Genova, per informare il Senato che il figlio tredicenne di Lazzaro Nantua, Alessandro, era morto per le sciabolate infertegli da tale Andrea Como. I cittadini chiesero al podestà di far intervenire il braccio straordinario contro l’assassino di Alessandro, mentre, più tardi, anche il Senato raccolse informazioni sull’episodio, esortando il podestà ad adoperarsi per far luce sul delitto[13].

Nel frattempo, i Consoli di G. si erano rivolti al Senato, pregandolo di permettere agli ebrei locali di rimanere, dato il danno che la loro assenza avrebbe provocato nella popolazione bisognosa, obbligandola a chiedere  prestiti ai cristiani[14].

Nel 1593 l’arciprete di G. fece pervenire a Lazzaro Nantua l’ordine di presentarsi all’Inquisitore, entro tre giorni, senza averne ricevuto previa autorizzazione dal podestà: ne seguì una serie di lettere tra quest’ultimo e le autorità genovesi, che, tra l’altro, lo invitarono a recarsi a Genova dall’Inquisitore[15]. Nello stesso periodo, i Consoli di G. chiesero al Senato di confermare agli ebrei l’autorizzazione a restare, per i benefici che la popolazione traeva dalla loro attività (prestito a basso interesse e donazioni di denaro alla comunità e al Monte di Pietà). Dopo essersi informato sugli ebrei di G., il Senato concesse loro di restare per alcuni mesi nella località, previo il rispetto dell’obbligo del segno, ma allo scadere del termine stabilito, Lazzaro Nantua ricevette il permesso di rimanere per ulteriori quaranta giorni.

Nel 1594 Vita Poggetto, in forza di un arbitrato, impose ad Angelo Nantua ed al fratello, ancora a G., di pagare una somma di denaro ad Anselmo Carmi[16] e, un anno dopo, il podestà di G. informò il Senato che gli ebrei locali non portavano il segno giallo, prestavano ad usura ad onta della proibizione e vestivano come i cristiani e che, in particolare, Angelino Nantua portava un cappello di taffettà di color d’oro,[…] di tal bellezza che più presto gli resta di pompa che altro, poiché anco a christiani esso collore è lecito portare[17].

Nel 1596 vi fu un contenzioso tra Angelo Nantua e il podestà per quattro scudi prestati a quest’ultimo, ma, l’anno successivo, il Nantua fu assassinato.

Nel 1598 l’ordine di espulsione contro gli ebrei, decretato da Genova, fu ricevuto in tutta una serie di località del Dominio, tra cui G.

Due anni dopo, Gentile, moglie di Lazzarino Nantua, presentò una supplica, perorando la causa del marito, in prigione per debiti e ridotto in povertà, dopo la morte del fratello Angelo. Nel 1601 Lazzaro Nantua iniziò un procedimento legale contro il suo padrone di casa per un contenzioso sull’affitto e per il sequestro dei beni effettuato da quest’ultimo: risultando in ordine con i pagamenti, il Nantua ottenne di riavere i propri beni.

Sette anni più tardi, una coppia cristiana attestò la locazione di una casa, che divideva con Lazzaro Nantua, il quale non era in grado di pagare l’affitto.

La documentazione sulla presenza ebraica a G. si chiude dopo ulteriori tre anni, quando Lazzarino era ormai in tali condizioni di povertà, che il Senato gli condonò le multe impostegli dal podestà, perché non era in grado di comprarsi il regolamentare cappello giallo[18].

Un ulteriore accenno agli ebrei a G. risale, infine, al 1614, quando quattro correligionari tedeschi, in viaggio per Genova per acquistare palme e cedri, furono tenuti segregati in un luogo separato, per paura che diffondessero la peste[19].

Bibliografia

Loevinson, E., La concession des banques de prêts aux juifs par les papes des seizième et dix-septième siècles, in REJ 92 (1932), pp. 1-30; 93 (1932), pp. 27-52, 157-178; 94 (1933), pp. 57-72, 167-183; 95 (1934), pp. 23-43.

Simonsohn, S., The Jews in the Duchy of Milan, 4 voll., Jerusalem 1982-1986.

Urbani, R.- Zazzu, G., N., The Jews in Genoa, 2 voll., Leiden-Boston-Köln 1999.


[1] Simonsohn, S., Milan, doc 1297.

[2] Ivi, doc. 1334, 1340, 1420, 1493, 1545, 1633.

[3] Ivi, doc. 1696.

[4] Urbani, R., -Zazzu, G.N., The Jews in Genoa, doc. 300; il medico in questione era Alessandro Nantua. Ivi, p144.

[5] Ivi, doc. 320; cfr. la voce “Novi” della presente opera.

[6] Ivi, doc. 332, 334.

[7] &Ivi, doc. 344, 359; cfr. la voce “Voltaggio” della presente opera.

[8] Ivi, doc. 369.

[9] Ivi, doc. 370, 381, 385.

[10] Ivi, doc. 394, 401, 402, 403.

[11] Loevinson, E., Banques de prêts, p. 59.

[12] Urbani, R.- Zazzu, G.N.,op. cit., doc. 421, 422, 423, 427.

[13] Ivi, doc. 437, 441, 446, 453, 463, 465.

[14] Ivi, doc. 448.

[15] Ivi, doc. 455, 456, 457, 458, 459, 462.

[16] Ivi, doc. 460, 466, 467, 468, 469, 490.

[17] Ivi, doc. 496.

[18] Ivi, doc. 508, 512, 515, 529, 532, 539, 542.

[19] Ivi, doc. 544.

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