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Provincia di Pavia. Posta sulla riva destra del Ticino, lungo una delle vie più frequentate tra Lombardia e Piemonte, i Romani vi eressero un emporium fortificato, nei cui pressi si combatté la cosiddetta "battaglia del Ticino" tra Annibale e Scipione. Sotto la signoria dei Torriani e, poi, dei Visconti, si proclamò Repubblica, alleandosi con Milano, per passare, in seguito, agli Sforza. Dopo alterne dominazioni, finì sotto il dominio spagnolo.
Il primo documento riguardante la presenza ebraica a V. è l'accordo del 1435 tra il Consiglio e Salomone del fu Abramo Galli, perché quest’ultimo si stanziasse in città a fenerare o vi mandasse il figlio Mosè, praticando il tasso del 37,5% e pagando ogni anno al Comune 25.000 lire imperiali: tra le varie clausole, di particolare rilievo era quella inerente l'esenzione dal segno distintivo.
Quattro anni più tardi, troviamo qui tale Dattilo, che prestava 10 fiorini al Magistro Lucchino che, a propria volta, li prestava a interesse al Comune.
Dal 1450 al 1452 furono fatti da parte del Consiglio di V. vari tentativi di imporre il segno distintivo a Dattilo e famiglia, passando dallo stabilire la multa di 1 fiorino, in caso di mancata osservanza della disposizione, alla minaccia di espulsione: dopo l'accusa mossa al prestatore di praticare un tasso di interesse più alto del convenuto e dopo aver stabilito che chiunque trovasse un ebreo senza segno gli strappasse le vesti, i consiglieri tornarono un'ultima volta sull'argomento il 10 aprile 1452, ribadendo che: Item ordinaverunt quod primi qui vadunt Mediolanum supplichent l.d.d.n. quod Iudei portent signum, et casu quo aliquis ex hominibus Viglevani fuerit in auditorium dictorum Iudeorum quod non debeant portare signum sint totaliter privati ab off. comunitatis et nullat. stent in numero hominum de Viglevano[1].
Mentre combatteva per il segno, il Comune nel 1450 aveva, tuttavia, dichiarato la sua totale dipendenza economica da Dattilo, obbligandolo ad intervenire per estinguere il debito con un armigero dello Sforza, promettendogli il diritto di comprar beni immobili, se obbediva, e minacciandolo di pene gravissime, se rifiutava: nonostante ciò, il Duca era intervenuto ripartendo la somma tra il Comune e il prestatore. Mentre di questa operazione finanziaria non ci restano gli esiti, è documentato, dal 1453, il reiterato intervento ducale per sollecitare il pagamento dei debiti che, sia il Comune che i privati, avevano con Dattilo.
L'anno dopo, il figlio di Dattilo, Elia, fu accusato di fornicazione e, avendo commesso il fatto prima della absolutio generale concessa nel 1453, fu scarcerato, mentre la donna correa avrebbe dovuto essere trattenuta per subire l'interrogatorio dopo la nascita del figlio (la disparità di trattamento in favore dell'ebreo fu, debitamente, sottolineata dal podestà al Duca).
Sempre nel 1454, Mosè di Galli, residente a V., venne accusato di associazione a delinquere con una donna, condannata a morte, che lo aveva, però, scagionato prima della propria esecuzione, provocando l'intervento ducale per revocare ogni provvedimento preso dalle autorità locali contro il calunniato. Nello stesso anno, in seguito alle vive proteste ebraiche, il Duca dette poi ordine al castellano di V. di provvedere affinché cessassero le ostilità nei loro confronti.
Alcuni anni dopo, il Duca intervenne a favore di due fratelli, Mosè ed Elia, ingiustamente accusati, ordinando al podestà di V. di restituire loro le proprietà confiscate e di farli tornare al loro banco. Nel 1469, in seguito alla questione sorta dalla controversa conversione di Caracosa, Elia di V. fu incaricato di occuparsi dei dettagli del pagamento dei 25.000 ducati sborsati dagli ebrei per il rilascio di coloro che erano stati imprigionati con l'accusa di voler riportare la ragazza all'ebraismo. Il fratello di Elia, e altri membri della comunità di V., risultarono implicati nella storia e beneficiarono dell'annullamento ducale dei provvedimenti punitivi presi, in questo frangente, contro i correligionari del Ducato.
Nell'assemblea di Piacenza del 1470, riguardante la tassazione, figurava tra i contribuenti anche Mosè di V., segnalato come residente a Cremona, nella lista dei renitenti a pagare, stilata qualche mese dopo. All'incirca nello stesso periodo, i feneratori di V. furono impegnati in diversi prestiti al Comune, ma i rapporti con la popolazione continuarono ad essere piuttosto tesi, come attesta il bando podestarile del 1474 cum pena pecuniaria per chiunque, in occasione della Settimana Santa, avesse molestato il prestatore Manno. In difesa degli ebrei, specialmente in quel momento dell’anno, sono documentati a V., come altrove nel Ducato, provvedimenti vari nel 1478: ciononostante, vi furono tentativi di assalto e saccheggio di case e banchi da parte dei locali, ripetuti l'anno successivo. Nello stesso periodo il divieto di entrare a V. senza licenza podestarile provocò la reazione degli ebrei forestieri, che fu interpretata come espressione di sentimenti anti-ducali: un’accusa che, in seguito, si rivelò infondata.
Nel 1488 tra gli ebrei espulsi e condannati alla confisca dei beni per vilipendio alla fede cristiana, vi fu anche Salomone di V.
Dopo più di 60 anni, le tracce documentarie della presenza ebraica a V. riprendono con una dichiarazione, rilasciata da un banchiere locale nel memoriale ebraico del 1551, che recitava: Essere vero che la concessione fatta alli hebrei de habitare nel Stato de Milano è fatta per comodo et uttile dei cittadini, adciò melio se possano servire a sue necessità cum qualche poco interesse, ma non essere vero che perciò ... occorrano inconvenienti ogni giorno[2].
Nello stesso anno il Consiglio di V. chiese di rendere obbligatoria l'osservanza del segno, prima che questa divenisse un'istanza generalmente sentita, nel 1566.
Quando, dato il prevalere delle grandi banche genovesi a Milano, gli ebrei avevano ormai ripiegato sul prestito nelle località vicino alla capitale, a V. troviamo Josef, attivo dal 1548, in violento contrasto con i mercanti di lana, che ne temevano la concorrenza, in quanto egli accettava in pegno a basso prezzo i filati offerti da tessitori e artigiani. Anche Clemente Clava (alias Kalonimos Kazeghin), uno dei deputati generali dell'Università ebraica dello Stato di Milano, possedeva un banco a V., presumibilmente poco redditizio, dato che, alla sua morte, gli eredi lo rilevarono.
Nel 1569, quando gli ebrei cercarono di ottenere un rinnovo della condotta, facendo l'elenco dei servigi resi da lungo tempo allo Stato, portarono ad esempio la situazione degli abitanti di V., dicendo: et infiniti puoveri che muorirebbero di fame se non fossero li loro lavoreri et arti et...poveri mercanti che sarebbero falliti, quando da essi non fosseno stati sovvenuti come per fede essibita d'alcuni di Vigevano si può vedere[3].
Con questa testimonianza si esaurisce la documentazione sulla presenza ebraica nella città.
Bibliografia
Fossati, F., Gli ebrei a Vigevano nel secolo XV, in Archivio Storico Lombardo XXXVII (1910), pp. 199-215.
Segre, R., Gli ebrei lombardi nell'età spagnola, Torino 1973.
Simonsohn, S., The Jews in the Duchy of Milan, 4 voll., Jerusalem 1982–1986.