Trevi

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Trevi

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Trevi (טרבי )

Provincia di Perugia. Sita su di un’area abitata già in epoca preistorica, T. assunse grande importanza in età romana, per la sua vicinanza alla Flaminia. Parte del ducato di Spoleto, fu sede vescovile sino all’XI secolo e dal XIII si costituì in libero Comune. Ebbe vari signori, tra cui i Trinci e tornò sotto il controllo della Santa Sede solo nel 1438, per rimanervi fino all’Unità d’Italia.

Il primo accenno ad una  presenza ebraica a T. risale al 1338,  quando il Comune decise di prendere a prestito dal feneratore Manuele una cifra per finanziare un inviato a Foligno per il contrastato possesso di Clarignano, contesa tra T., Foligno e Spoleto.

Meno di venti anni dopo, il Comune contrasse un prestito con l’ebreo Guglielmo, promettendo di saldarlo entro un mese. Passato poco tempo, il Comune rifuse un ulteriore prestito allo stesso Guglielmo e la medesima situazione si ripeté a qualche mese di distanza. Due anni più tardi, il Comune impose ai cittadini, due volte in un breve lasso di tempo, una tassa straordinaria per restituire le somme prese a prestito. Ciononostante l’anno successivo (1359),  il Comune ricorse nuovamente al denaro di Guglielmo per riparare le fortificazioni cittadine[1].

Nel 1368 T., indebitata con Spello, ricorse agli ebrei locali (che non sono menzionati per nome nel documento), senza riuscire a restituire loro la somma prestata e solo tre anni più tardi, esso risultava indebitato con Scacco (ovvero, Isacco) di Chiaruccia per una cifra presa per fare un regalo all’auditore e commissario pontificio della Camera Apostolica. Da un atto di poco posteriore sappiamo che coloro con i quali il debito era stato contratto erano Musetto di Servadeo, Chiaruccia e Angelo: in seguito, il Comune corrispose una somma a Musetto di Servadeo[2].

La conversione, all’incirca nel 1395, di Magister Battista, fratello del medico condotto cittadino Magister Guglielmo, è l’unica attestata a T. per il XIV secolo.

Dopo più di trent’anni (1427), il banco feneratizio di T. era tenuto da un Angelo di Elia, che, ancora in attività nel 1434, veniva allora risarcito per un prestito fatto al Comune, alcuni anni prima.

Nel 1441 si rivolsero al Comune di Spoleto Elia di Angelo ed Angelo di Elia, cui era stata concessa una condotta feneratizia nel 1416, spirata nel 1436, e rinnovata  per breve tempo, ma poi nuovamente scaduta, costringendoli a recarsi a T., mentre avrebbero voluto tornare a Spoleto[3].

Nel 1457 il consiglio Generale concesse una condotta feneratizia ad Isacco di Angelo, famiglia ed entourage compresi, accordando loro la parità di diritti con i cittadini di T. in materia civile e criminale e l’esenzione dal prestito di sabato e durante le feste ebraiche. L’interesse ammesso era del 30% annuo per i cittadini, mentre era lasciato alla libera contrattazione con i forestieri. Il Comune si riservava il diritto di chiedere annualmente un prestito di 30 fiorini, senza interesse, da ripagarsi entro due mesi. Isacco, tuttavia, non accettò i termini proposti, chiedendo una condotta sul tipo di quelle stipulate in altre città umbre. Il Consiglio Generale di T. accordò, invece, ad Isacco la condotta secondo i termini già stipulati, riducendo, però, ad un mese il lasso di tempo per restituire il  prestito di 30 fiorini. In caso di contenzioso, inoltre, i libri contabili di Isacco avrebbero fatto fede, ma, ancora una volta, Isacco non si dichiarò d’accordo, sino a che le autorità comunali non introdussero variazioni relative alla normativa sui pegni ed esentarono il feneratore dal pagamento delle tasse cittadine e delle tasse personali cui erano sottoposti di norma gli ebrei. La condotta avrebbe avuto  validità decennale e, sul rispetto dell’esenzione della tassa personale, insistette con successo Isacco nel 1460[4].  Nel 1457, intanto, le autorità di T. avevano chiesto ad Isacco un prestito di 10 fiorini d’oro e, l’anno successivo, le stesse stabilirono che, ogni anno, egli avrebbe dovuto comprare un anello del valore di 50 bolognini d’oro, per il palio che si teneva  in occasione della festa di S. Emiliano[5].    

Nel 1463, in seguito alla predicazione dei francescani contro l’usura ebraica, il Consiglio Generale, temendo di incorrere nella scomunica, annullò la condotta stipulata con Isacco di Angelo e gli altri ebrei, ma il governatore dell’Umbria, a nome della Camera Apostolica, volle che la condotta venisse rispettata: il Consiglio, pertanto, dovette tornare sulle proprie decisioni, esortando, tuttavia gli ebrei all’osservanza del segno distintivo[6].

Nel 1469 il francescano Agostino da Perugia riuscì ad ottenere dal Consiglio Generale di stilare nuovi regolamenti relativi alla continuazione del prestito ebraico in città: gli ebrei che non avessero osservato scrupolosamente l’obbligo del segno distintivo sarebbero stati multati per 200 ducati d’oro. Un paio di giorni più tardi, il francescano presentò al Consiglio Generale le correzioni che aveva apposto alla condotta, tra cui la subordinazione all’approvazione della Chiesa delle norme legislative civili e criminali riguardanti gli ebrei e un singolare paragrafo, secondo cui il prestito ebraico veniva ammesso come male necessario, mentre l’usura era da considerarsi vietata sia dalla “legge naturale” che da quella mosaica e cristiana. Isacco accettò le modifiche proposte dal francescano.

Nello stesso anno, Isacco di Angelo di T. era  tra i rappresentanti della Comunità ebraica del ducato di Spoleto, che inviarono due procuratori per rappresentarli di fronte al Vice-Tesoriere ed al Vice-Camerlengo  della Camera Apostolica[7].

Nel 1474 il cardinale Giuliano della Rovere concesse al Comune, oppresso dalle difficoltà finanziarie, il permesso di far venire uno o due ebrei a prestare su pegno, senza pericolo di scomunica. Poco dopo, il Comune dette una condotta ad Angelo di Bonaiuto da Camerino (che rappresentava anche il fratello Leone) e ad Isacco di Angelo da T. (che rappresentava anche gli altri membri della sua famiglia). Nei capitoli della  condotta veniva permessa, tra l’altro, la macellazione rituale della carne, mentre l’obbligo del segno permaneva. La condotta avrebbe avuto durata ventennale ed il tasso di interesse permesso sarebbe stato del 33% annuo[8]. Il banco dei da Camerino era ancora in attività negli anni ’90 del secolo[9]

Nel 1476 il vescovo di Spoleto inviò una lettera ai Priori, esortandoli ad annullare i patti feneratizi, onde  scongiurare la scomunica, ma si trovò comunque una soluzione di compromesso che avrebbe permesso agli israeliti di continuare a fenerare, sia pure in modo non ufficiale, fermo restando, che avrebbero dovuto continuare sia a pagare al Comune ogni anno la somma di 50 bolognini, sia comprare l’anello per il palio per la festa di S. Emiliano[10].

L’anno successivo, il convertito Francesco (o Feliciano) Sisti, incaricato dell’esazione della vigesima dagli ebrei, ricevette da  Isacco di Angelo e da Buonaiuto di Isacco di Sassoferrato, ambedue residenti a T., il pagamento dell’ultima rata dovuta[11].

Nello stesso anno (1477), Abramo di Angelo di Camerino veniva accusato di aver commesso un atto di stregoneria contro una donna, ottenendo il perdono del Consiglio Generale di T. 

Nel 1483 gli statuti della città di T. proibirono agli ebrei di comparire in pubblico tra il Giovedì Santo e la
Pasqua[12], mentre nel 1494 il Comune rischiò la scomunica a causa del prosieguo più o meno legale del prestito: il Consiglio elesse, pertanto, una  commissione formata da sei membri per esaminare i vari aspetti della questione e proporre nuove soluzioni al problema[13].

Nel 1510 il Consiglio Generale decise di annullare la condotta feneratizia stipulata con un ebreo ( il cui nome non veniva indicato nel documento in questione), al fine di scongiurare la scomunica della città, ventilata da alcuni frati predicatori[14].

Nel 1529 esercitava, però, ancora il prestito su pegno Angelo di Vitale da Camerino, al quale ricorse anche, tre anni più tardi, il Comune stesso, dovendo pagare al commissario papale un debito: la somma di 30 o 40 scudi, doveva essere ottenuta impegnando una determinata quantità di grano[15].

Nel 1542 il Comune decise di usare i proventi della tassa dativa per riscattare i pegni depositati a suo tempo presso il banco di Angelo di Vitale, ma, passati tre anni, il Comune si indebitò nuovamente con Angelo della dativa, restituendogli qualche mese dopo la somma. Il Comune fece poi ricorso ad Angelo anche poco più tardi, promettendo di restituire la somma, parte in contanti e parte in grano[16].

Dopo la metà del secolo, Angelo di Vitale continuava a fenerare ed a sopperire con prestiti alle spese, cui doveva far fronte la città[17].

Nel 1564, però, il banco di Angelo di Vitale chiuse i battenti ed il banchiere, dietro richiesta delle autorità, dovette dichiarare di essere stato completamente ripagato per i  prestiti fatti al Comune. Nello stesso anno, Angelo avrebbe dovuto versare la quota della multa comminata alle Comunità ebraiche umbre per aver contravvenuto alle disposizioni contenute nella bolla di Pio IV sugli ebrei.

Due anni dopo, vi era un contenzioso tra Angelo e il Comune di T. , riguardante l’effettivo risarcimento di tutte i prestiti accordati ed una commissione fu eletta dal Consiglio Generale di T. per appurare se le proteste del prestatore fossero motivate[18].

Nel 1567 Angelo di Isacco Supino, di Foligno, a nome di varie comunità umbre, promosse un’azione per recuperare del denaro anticipato per la Casa dei Catecumeni di Roma, devolvendolo a favore di Angelo di  Vitale[19].

Nello stesso anno, il Comune fu costretto dal govenatore dell’Umbria a pagare 750 fiorini d’oro  per la Casa dei Catecumeni di Roma: la cifra rappresentava il valore della casa posseduta a T. dal feneratore Angelo di Vitale, che, a quanto si evince dal documento, si era convertito al cristianesimo[20].

Nel 1569, Pio V con la bolla Hebrorum gens, decretò l’espulsione degli ebrei dall’Umbria, tuttavia, non ci restano documenti attestanti l’applicazione del decreto a T.

Attività economiche

Oltre all’attività feneratizia, gli ebrei di T. risultavano attivi nella professione medica.

Nel 1380 era medico condotto in questa località Magister Guglielmo di Magister Vitale da Spoleto, cui il Comune dette in affitto, per il periodo della condotta stessa, una casa. Tredici anni più tardi, in vista dello spirare degli accordi di Magister Guglielmo, il Comune, data l’utilità del servizio da lui svolto, gli prolungò di un anno il contratto, assegnandogli uno stipendio, in cui era incluso l’affitto della casa in cui dimorava. Nel  1394 grazie alle riconosciute capacità di Magister Guglielmo nell’esercizio della professione medica, gli fu rinnovata la condotta per ulteriori cinque anni, ma, l’anno successivo, le difficoltà economiche in cui versava il Comune, lo indussero a ridurre al medico il salario. Nello stesso anno (1395), Magister Guglielmo era in lite col fratello, Magister Battista, da poco convertitosi, e il Consiglio Generale, tenuto conto del vantaggio dell’attività medica del primo per la popolazione, decise di intervenire a suo favore contro Battista[21].

All’inizio degli anni Quaranta del secolo, era medico condotto a T. Magister Abramo di Magister Sabatuccio di Assisi, ma, nel 1456, si decise di non ingaggiare più medici ebrei[22].

Un’altra attività che caratterizzò gli israeliti di T. fu la vendita degli stracci e degli abiti usati. Nel 1475, i Priori accordarono ad Abramo di Angelo da Camerino, dietro pagamento di una somma, una condotta per il 1476, per la vendita della “stracceria” e degli abiti usati, con cui veniva dato ad Abramo il monopolio del settore e la facoltà di esercitare il commercio una volta al mese al mercato di S. Maria delle Lacrime.  

Nel 1511 i Priori, previo pagamento di 20 fiorini d’oro, rinnovarono a Mosè (alias Mosce) la licenza in esclusiva per il commercio degli stracci e dell’usato, rinnovo annuale che si ripeté nel 1513 e nel 1514.

Nel 1515 il monopolio del commercio degli stracci e dell’usato passò al figlio di Mosè, Benedetto, dietro pagamento di 16 fiorini d’oro e 15 bolognini. L’anno successivo, Benedetto ricevette il rinnovo del monopolio per la somma di 17 fiorini d’oro e 15 bolognini e nel 151, la licenza fu messa all’asta e aggiudicata, per un anno, a Mosè per 17 fiorini d’oro. L’anno successivo, Mosè si aggiudicò di nuovo l’asta, offrendo la cifra di 10 fiorini annui, ma l’anno dopo vinse la partita l’ebreo Giuseppe, che offrì due fiorini d’oro e 16 bolognini per un anno. Anche nel 1527 Giuseppe si aggiudicò il monopolio, pagando 21 fiorini d’oro, mentre l’anno successivo lo fece offrendo 7 fiorini d’oro, nel 1530 offrendo 12 fiorini d’oro, nel 1540 12 fiorini e 24 bolognini, nel 1542 14 fiorini, ed infine, nel  1544, offrendo 14 fiorini e mezzo. Nel 1552 i  Priori assegnarono il monopolio, per un anno, a Gabriele di Michele, dietro pagamento di 27 fiorini d’oro, ma nel 1555 esso tornò per tre anni all’Ebreo Giuseppe, che promise di pagare 28 fiorini all’anno. Nel 1556 Giuseppe morì senza lasciare eredi ed il Comune permise a Gabriele di Michele di subentrargli nel monopolio, alle stesse condizioni. Nel 1558 il Comune procedette ad una nuova assegnazione triennale  a Gabriele e al figlio Michele, per 40 fiorini all’anno: tuttavia, nello stesso anno, ricevette da un altro ebreo l’offerta di 50 fiorini per lo stesso contratto e, posto che Gabriele non intendeva aumentare la sua offerta, il Comune rescisse il contratto, rifondendo la cifra da anticipata. Nel 1561 il monopolio dell’usato fu concesso a Michele di Gabriele, dietro pagamento di 22 fiorini ed in seguito il contratto venne prolungato per tre anni, con corresponsione di 56 fiorini[23].

Bibliografia

Toaff, A., The Jews in Umbria, 3 voll. Leiden, New York, Köln 1993-1994.

Toniazzi, M., I “da Camerino”: una famiglia ebraica italiana fra Trecento e Cinquecento, tesi di dottorato presso l’Università di Firenze 2013, Tutor Prof. G. Pinto.


[1] Toaff, A., The Jews in Umbria, doc. 130, 198, 200, 202, 203, 206.

[2] Ivi, doc. 231, 242, 244, 245. Nella seconda metà  degli anni Settanta, il Comune acquistò da Chiaruccia una certa quantità di vino e, poi, otto salme di legno. Ivi, doc. 260, 264.

[3] Ivi, doc. 792, 877, 995.

[4] Ivi, doc. 1241, 1245, 1246, 1251, 1310.

[5] Ivi, doc. 1259, 1271.

[6] Ivi, doc. 1379, 1381, 1388.

[7] Ivi, doc. 1507, 1508, 1509.

[8] Ivi, doc. 1652, 1654, 1658.

[9] Per i da Camerino a Trevi si veda anche Toniazzi, M., I “da Camerino”, p.76.

[10] Toaff, A., The Jews in Umbria doc. 1707.

[11] Ivi, doc. 1722.

[12] Ivi, doc. 1730, 1839.

[13] Ivi, doc. 2024.

[14] Ivi, doc. 2220.

[15] Ivi, doc. 2376, 2387. Il doc. 2387 fa riferimento al Monte di Pietà di T., ma non sono stati reperiti documenti sull’anno della sua fondazione. Nel 1535 il Comune, volendo offrire in omaggio al protettore della città una tazza d’argento, ne autorizzò l’acquisto presso il banco di Angelo di Vitale. Ivi ,doc. 2396.

[16] Ivi, doc. 2434, 2450, 2454. Nel 1549 Guglielmo di T. venne accusato di aver  importato del mosto in città senza aver pagato la relativa tassa; Guglielmo sosteneva a propria discolpa di  aver acquistato il mosto dai frati del convento di S. Maria delle Lacrime e che l’accordo con gli stessi era che le tasse e i balzelli doganali sarebbero stati a carico dei frati. L’esito del processo non ci è rimasto. Ivi, doc. 2500.

[17] Ivi, doc. 2515, 2538. Nel 1558 le autorità comunali, dovendo coprire le spese per l’invio di un emissario comunale al governatore di  Perugia, decisero addirittura  di togliere un oggetto dal Monte di Pietà, per impegnarlo temporaneamente presso il banco di Angelo di Vitale. Ivi,  doc. 2605    

[18] Ivi, doc.2638, 2644, 2659, 2666, 2669.

[19] Ivi, doc. 2672.

[20] Ivi, doc. 2677. Sui problemi relativi al pagamento della somma alla Casa dei Catecumeni e all’acquisizione  della  casa di Angelo, posta in vendita per recuperare la somma in questione, cfr. ivi, doc. 2681, 2682, 2684, 2686, 2687, 2689, 2690, 2692, 2693, 2694, 2697, 2698, 2700, 2701, 2702, 2703.

[21] Ivi, doc. 292, 549, 564, 574, 579.

[22] Ivi, doc. 1002, 1225.

[23] Ivi, doc. 1696, 2233, 2261, 2269, 2288, 2296, 2305 , 2313, 2314, 2367, 2374, 2379, 2427, 2436, 2443, 2534, 2579, 2589, 2601, 2602, 2622.

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