Titolo
Testo
Roma (רומא; רומה)
Capitale della Repubblica Italiana. Capoluogo di provincia e di regione (Lazio).
Si estende su entrambe le rive del fiume Tevere, parte in piano, parte su rilievi collinari.
Fondata, secondo la tradizione, nel 753 a.C., dopo varie vicende fu dominata da una dinastia di re etruschi sino al 510 a.C.; in seguito, fu sotto il regime repubblicano, la dittatura e l’impero, che prese avvio con Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.). Nell’impero il cristianesimo ascese a religione prima parificata (313 d.C.) e, poi, a religione nazionale (324 d.C.) e, infine, a religione di stato con l’editto di Teodosio (380 d.C.). L’impero, col nome di Impero Romano d’Occidente, sopravvisse con alterne vicende sino al 476 d.C. , quando l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, fu deposto dal generale germanico Odoacre. Dopo la guerra greco-gotica, R. passò sotto la dominazione bizantina, venendo di fatto governata dalla Chiesa, al cui vertice fu papa Gregorio Magno (590-604) che gettò le basi per il dominio temporale del papato. Varie rivolte popolari contro i bizantini scoppiarono, sino alla fine dell’esarcato con la successiva ripresa dell’espansione longobarda. Sullo sfondo delle lotte bizantino-longobarde prese origine lo Stato della Chiesa con R. come fulcro, costituitosi grazie a successive donazioni a partire dal secolo VIII e incrementatosi grazie agli accordi tra il papato e i re franchi, che raggiunse una vasta consistenza territoriale nell’Italia centro-settentrionale. Con l’incoronazione di Carlo Magno (800), R. riprendeva la funzione di centro della Chiesa e di sede della monarchia universale. Tuttavia, dal IX secolo, fu teatro delle lotte fra aristocrazia e clero e subì l’espansionismo dei duchi di Spoleto che l’avevano liberata dalla minaccia saracena. Nei secoli X e XI si alternarono al potere le famiglie aristocratiche: R., coinvolta nella lotta per le investiture, fu assediata ed espugnata da Enrico IV (1084) e, poi, saccheggiata da Roberto il Guiscardo. Nel 1144, in seguito ad una rivolta popolare, la città divenne libero comune, ma dopo quasi un cinquantennio, il potere tornò al papato, consolidandosi sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1216), mentre l’autorità cittadina passò agli organi di governo ecclesiastici, sebbene le principali famiglie aristocratiche (tra cui gli Orsini e i Colonna) e alcuni senatori (come Brancaleone degli Andalò) cercassero di oppore un governo laico. Ne seguì un periodo di decadenza della città, che culminò con il trasferimento del papato ad Avignone (1309-77) e si aggravò con il dilagare dello Scisma d’Occidente. Il tentativo di Cola di Rienzo di riportare R. all’antica grandezza repubblicana, intorno alla metà del XIV secolo, si concluse tragicamente. Caduta sotto la signoria di Ladislao di Durazzo (sec. XV), R. si risollevò con la composizione dello Scisma d’Occidente (che aveva diviso la Chiesa dal 1378 al 1417) e l’elezione al soglio pontificio di Martino V (1417), che riportò in città la sede e l’autorità della Chiesa. Nella seconda metà del XV secolo il potere era saldamente nelle mani del papato: l’autonomia cittadina cadde e la nomina dei funzionari passò ai papi. La città godette di un periodo di relativa tranquillità, interrotto, nel 1526, dal sacco degli armati dei Colonna in Vaticano e, nel 1527, dall’invasione delle truppe di Carlo V, che depredarono nuovamente la città. Nei secoli XVI-XVII R. si riprese dai danni subiti precedentemente e visse un periodo relativamente tranquillo. Indebolita economicamente dalla guerra di successione spagnola all’inizio del XVIII secolo, conobbe, poi, un periodo di discreto sviluppo culturale. Dopo lo scoppio della rivoluzione francese e l’assassinio di Hugon de Basseville (1793), il governo pontificio cominciò a vacillare: a seguito della campagna d’Italia di Napoleone (1796), le truppe francesi occuparono la città, venne proclamata la Repubblica Romana e il papa Pio VI fu condotto prigioniero in Francia, dove morì. Il suo successore, Pio VII (1800-1823), distesi i rapporti con la Francia, poté tornare a R., ma Napoleone I pose una seconda volta fine allo stato della Chiesa nel 1809, mettendovi a capo il figlio con il titolo di re di R. Nel 1814 cominciò la Restaurazione e Pio IX (1846-1878) accese le speranze dei liberali, concedendo la costituzione e abolendo la segregazione nel ghetto (1848), ma il precipitare degli eventi (I guerra d'indipendenza, assassinio di Pellegrino Rossi) lo fece fuggire a Gaeta, mentre veniva proclamata la seconda Repubblica Romana (1849), presto abbattuta e seguita dalla restaurazione del governo pontificio. La progressiva formazione dell’unità d’Italia segnò la fine del potere temporale della Chiesa; nel 1861 il nuovo parlamento italiano proclamò simbolicamente R. capitale d’Italia. Nel 1870, le truppe italiane entrarono in città e il papa si ritirò come prigioniero in Vaticano. Nel 1871, Vittorio Emanuele prese dimora al Quirinale.
La comunità ebraica di R. è la più antica comunità diasporica in Europa che sia esistita in modo ininterrotto a partire dall’antichità classica[1].
Un insediamento stabile si era già costituito qui nel I secolo a.C., formato principalmente dai prigionieri di guerra portati da Pompeo nella capitale dopo la conquista di Gerusalemme (61 a.C.) poi riscattati e dai mercanti del Mediterraneo orientale, che, con altri ebrei impegnati nell’artigianato e in vari mestieri, erano venuti a tentare la fortuna nell’Urbe. Il numero degli ebrei crebbe con l’arrivo in catene dei vinti dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Tito (70 d.C.): a quest’ultimo evento facevano risalire il proprio insediamento a R. alcune antiche famiglie ebraiche romane, come i de’ Rossi, i degli Adolescentoli, i de’ Pomis, de’ Piattelli (o delli Mansi o Umani)[2].
Con la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, gli ebrei di R. ( e dell’impero), furono sottoposti per la prima volta ad una tassazione che li discriminava[3].
Già dai tempi di Giulio Cesare, gli israeliti romani godevano del diritto di praticare la propria religione, venendo esonerati dal servizio militare (per non infrangere il riposo sabbatico) e ricevendo il permesso di riunirsi a scopo di culto, anche quando le riunioni più in generale erano state proibite per motivi politici. Essi erano, inoltre, esentati dal sottoporsi ai tribunali civili romani, godendo invece del diritto di giudicarsi in modo autonomo[4].
La maggior parte delle testimonianze materiali attestanti la vita della comunità romana tra il I secolo a.C. e l’inizio del IV secolo d.C. proviene dalle sei catacombe ebraiche, rinvenute a R., in cui si trovano all’incirca 500 iscrizioni, per la gran parte in greco per i primi tre secoli ed in latino per i successivi: rarissime sono le iscrizioni in ebraico, mentre era frequente la scritta in ebraico Shalom o Shalom al Yisrael[5].
Sino all’avvento del cristianesimo gli ebrei si dedicarono ad un’intensa attività missionaria, facendo proseliti soprattutto tra le classi colte ed anche dopo tale attività continuò, nonostante fosse stata proibita con severissime pene che colpivano proseliti e proselitizzatori.
Con l’ascesa del cristianesimo a religione di stato, peggiorò la situazione degli israeliti, che vennero discriminati in campo civile, economico e religioso. Venne loro proibito, tra l’altro, di avere schiavi cristiani, di essere impiegati in uffici pubblici che implicassero un’autorità sui cristiani e di costruire nuove sinagoghe. La posizione tenuta dal cristianesimo, a partire dal IV-V secolo in poi, seguiva la linea tracciata da S. Agostino, secondo cui la Sinagoga doveva essere subordinata e asservita alla Chiesa, ma non distrutta, in quanto testimone vivente della fede da cui aveva preso origine il cristianesimo stesso: l’asservimento degli ebrei sarebbe cessato alla fine dei tempi con la riunificazione di Chiesa e Sinagoga e la relativa redenzione degli ebrei[6].
Nel declino di R. in tutti i campi, seguito alla presa dei Vandali (455), furono presumibilmente coinvolti anche gli ebrei, sebbene non vi siano attestazioni specifiche sulla loro situazione in tale periodo[7].
Il primo documento da cui emerge un rapporto diretto tra il papato e gli israeliti risale a Gelasio I (492-496) e mostra che tale pontefice era in buoni rapporti con un vir clarissimus di Telesia, che sembrava essere ebreo[8].
Nel 598, papa Gregorio I (Gregorio Magno), sollecitato dalla comunità ebraica romana ad intervenire in favore dei correligionari di Palermo, scriveva al vescovo locale la bolla Sicut Iudaeis (che avrebbe costituito, in seguito, il punto di riferimento per l’atteggiamento di svariati pontefici), in cui affermava che, come agli ebrei non era consentito trasgredire alle leggi restrittive loro imposte, così a nessuno era consentito menomarli in ciò che era stato loro concesso[9]. L’intervento della comunità romana a favore dei confratelli siciliani precorre il ruolo che essa avrebbe assunto nel Medioevo e all’inizio dell’Età Moderna nei confronti degli ebrei che non godevano della situazione privilegiata offerta dalla prossimità della corte papale.
Dopo un silenzio di alcuni secoli, si ritrovano tracce sulla presenza degli ebrei a R. nel 1007, quando venivano menzionati tre dei rabbini che ne guidavano la comunità e nel 1020 (o 1021), quando fu mossa contro di essi l’accusa di aver “provocato” un terremoto nella città con il loro comportamento blasfemo nei confronti di un’immagine del Cristo, accusa che fu seguita dall’uccisione di alcuni di loro per punizione[10].
Tra il 1130 e il 1138 vi fu, poi, il papa (o antipapa) Anacleto II, della famiglia romana dei Pierleoni, di origine ebraica[11].
Secondo il resoconto del noto mercante e viaggiatore ebreo Beniamino da Tudela, che visitò R. tra il 1159 e il 1167, vivevano nella città svariati Ebrei in “posizione onorevole” ed esenti da tributi: alcuni erano allora al servizio del papa e a capo della comunità vi era il rabbino Daniel Anav[12].
La situazione degli israeliti peggiorò, però, nel secolo successivo con il IV Concilio Lateranense (1215), ispirato dall’attitudine antiebraica di Innocenzo III (1198 - 1216),[13] che diede origine a una legislazione discriminatoria, all’interno della quale fu particolarmente significativa l’istituzione del segno distintivo per evitare rapporti troppo stretti tra la popolazione ebraica e quella cristiana. Tuttavia, tale regolamentazione non sembra essere stata messa in pratica rigorosamente a R., secondo quel certo lassismo nell’applicazione delle norme di cui avrebbero beneficiato gli ebrei romani sino alla metà del secolo XVI, godendo, pertanto, di una situazione più favorevole rispetto ai correligionari di altre località[14].
Dopo il rogo del Talmud a Parigi (1244), tuttavia, fonti ebraiche alludono alla confisca e al rogo dell’opera anche a R., sotto il pontificato di Gregorio IX[15].
Sotto il pontificato di Alessandro IV (1254-1261), all’incirca nel 1257, venne imposto e, sembra, messo in pratica anche qui l’obbligo del segno distintivo, che consisteva in una rotella gialla da applicare sull’abito all’altezza del petto per gli uomini e per le donne in due strisce blu applicate sullo scialle[16].
Papa Clemente IV (1265-1268), con la bolla Turbato corde del 1267 dette in seguito mandato agli inquisitori domenicani e francescani di procedere contro i cristiani giudaizzanti e chi li spingeva a giudaizzare: ne derivò un peggioramento della condizione generale degli ebrei, cui non sfuggirono neppure quelli della capitale[17].
Nicolò IV (1288-1292) fu tra i papi che confermarono una costituzione protettiva rieditando la bolla Sicut Iudaeis (1288-1292). Dopo aver rinnovato la bolla Turbato corde contro i giudaizzanti, indirizzandola anche agli inquisitori dell’arcidiocesi romana, infatti, il pontefice, in risposta alla supplica di soccorso inviatagli dalla comunità di R., emise la bolla Orat Mater Ecclesia (1291), nella quale affermava che gli ebrei, in quanto sotto la protezione papale, non dovevano essere vessati ingiustamente e minacciava sanzioni ecclesiastiche contro chi avesse trasgredito a queste disposizioni. Presumibilmente, ebbe un certo influsso su tale decisione papale Magister Gajo, il primo medico personale pontificio di cui si abbia notizia[18].
Poco dopo la sua nomina, Bonifacio VIII (1294-1303) umiliò la delegazione di ebrei romani che era venuta a felicitarsi con lui e qualche anno più tardi, nel 1298, il rabbino capo o forse il presidente della comunità romana, Elia de’ Pomis, fu implicato in un’accusa non chiara e giustiziato: la sua morte sembra avesse evitato guai peggiori ai correligionari romani.[19] Probabilmente, infatti, essa aveva qualche relazione con il permesso, accordato all’Inquisizione dalla bolla del 1297, di mantenere segreto il nome di chi fosse coinvolto – come accusatore o come testimone- contro persone “influenti” (potentes), dando origine alle delazioni, in particolare contro gli ebrei. La comunità ebraica romana, rivoltasi al papa per ricevere soccorso, ottenne da Bonifacio VIII una bolla (1299) in cui gli ebrei venivano dichiarati impotentes, nonostante le loro ricchezze, e, pertanto, sgravati dal pericolo delle delazioni anonime e dei procedimenti inquisitoriali senza tutela legale[20].
Nel 1310 venne convalidato dal Senato uno statuto di privilegi riguardante gli israeliti locali, nel quale si dichiarava che essi dovevano essere considerati alla pari degli altri cittadini per diritti e doveri, non dovevano essere molestati, non potevano essere citati in giudizio di sabato o nelle loro feste e non potevano essere sottoposti a particolari contribuzioni. L’obbligo del segno distintivo (un tabarro rosso per gli uomini ed un grembiule rosso per le donne) permaneva, anche se non sembra fosse rispettato costantemente[21].
Dagli statuti di R. del 1312 si evince, poi, che la comunità ebraica era riuscita ( non si sa precisamente quando) a convertire in tributo monetario la partecipazione forzata ai ludi carnevaleschi, che si tenevano al circo Agonale e al monte Testaccio. Il tributo, dell’entità di dieci fiorini d’oro per ogni casa di preghiera ebraica esistente nelle terre del papa (per un totale annuo di 1.130 fiorini), fu la prima tassa cui fu sottoposta la comunità romana e una delle più onerose, rimanendo nota nei secoli come tassa di Agone e Testaccio[22].
Fra i tributi straordinari cui fu sottoposta la comunità romana, vi fu nello stesso periodo anche il donativo richiesto dall’imperatore Enrico IV per l’incoronazione a R. nel 1312[23].
Già a partire dalla fine del secolo XIII, intanto, si era sviluppata tra gli ebrei romani l’attività feneratizia, crescendo ulteriormente nel secolo XIV e provocando quel progressivo aumento delle tasse che, in seguito, avrebbe rovinato economicamente la comunità stessa [24].
Nel 1320 Giovanni XXII inviò da Avignone l’ordine di confiscare e bruciare le copie del Talmud e degli altri libri ebraici in cui fossero state trovate espressioni contrarie al cristianesimo e formulò il proposito di espellere gli ebrei, iniziando da quelli romani, disposizioni che furono però evitate dall’intervento ebraico attuato per far cambiare opinione al pontefice. Tuttavia, alcune fonti riportano che un rogo del Talmud avrebbe avuto luogo a R. nel 1322 e che vari ebrei avrebbero preferito lasciare la città, dopo che era stata minacciata la loro espulsione (che non venne poi messa in atto)[25].
Papa Bonifacio IX (1389-1404), che cercò di riportare l’autorità pontificia nei territori italiani della Santa Sede, fu particolarmente tollerante nei confronti degli ebrei: protesse alcuni medici[26] e nel 1402 riconobbe alla comunità cittadina i privilegi concessi loro dalla repubblica romana nel 1310[27].
Nel 1405 il Senato elargì anche la cittadinanza romana a tre medici forestieri : Mosè da Tivoli, Mosè da Lisbona ed Elia di Sabato Beer da Fermo[28].
Martino V (1417-31), in cammino per R., promulgò nel 1419 una bolla di protezione degli ebrei e, l’anno successivo, concesse alla comunità locale di suddividere la tassa di Agone e Testaccio tra tutte le comunità ebraiche degli stati pontifici.
Durante il suo pontificato confermò i privilegi del 1310, tentò (invano) di frenare la predicazione antiebraica dei francescani e cercò di ristabilire la pace nella comunità romana mettendovi a capo il medico Leuccio[29].
Il suo successore Eugenio IV (1431-1447) emise, nel 1442, la bolla Super gregem Dominicum, in cui venivano stabilite severe misure restrittive contro gli ebrei (e i Saraceni) di Spagna, estese, poi, anche agli italiani, dei quali venivano abrogati i privilegi di Martino V. Nel 1443, la comunità romana cercò di ottenere dalla Camera Apostolica la revoca della bolla: tra i negoziatori dell’accordo vi era anche il medico e poeta Mosè da Rieti, ma il prezzo che sicuramente gli ebrei dovettero pagare per tale revoca fu l’aumento dell’antica decima, convertita in una cifra fissa[30].
Con Niccolò V (1447-55) iniziò la successione dei papi umanisti, il cui amore per la cultura, affiancato all’esercizio del potere, dava luogo a non poche ambiguità di comportamento. Niccolò, dopo aver dichiarato di voler proteggere gli ebrei dalla predicazione dei frati, cedette alle pressioni di questi ultimi e, soprattutto, di Giovanni da Capistrano, la cui avversione lo aveva portato a ventilare l’ipotesi di liberarsi della loro presenza, trasportandoli per nave oltremare.
Fomentato dal Capistrano, Niccolò V rimise in vigore nel 1447 i provvedimenti antiebraici della Super gregem Dominicum, affidandone l’esecuzione al Capistrano stesso: tra i divieti più perniciosi della bolla del 1447 vi era quello di fenerare, che stroncava il cespite di guadagno di molti ebrei romani. Infine, in occasione del giubileo del 1450, Nicolò V permise al Capistrano di organizzare a R. una disputa teologica con tale rabbino Gamliel, che portò all’inevitabile conversione di quest’ultimo e di una quarantina di suoi correligionari[31].
Nel 1456, Callisto III (1455-1458) revocò, inoltre, i privilegi concessi precedentemente dai papi agli ebrei e reiterò i provvedimenti restrittivi della Super gregem Dominicum[32].
Paolo II (1464-71) introdusse la corsa degli ebrei nel novero dei giochi del Carnevale romano nel 1466 ma , due anni dopo, confermò alla comunità locale i privilegi di Martino V, ribadendo l’autorizzazione a dividere la tassa di Agone e Testaccio con le altre comunità dello Stato della Chiesa, fermo restando che essa ne rimaneva l’unica responsabile di fronte al fisco[33].
Sisto IV (1471-84), poco dopo la sua ascesa al soglio papale, reiterò le disposizioni di Martino V e Paolo II per la partecipazione delle comunità pontificie alla tassa di Agone e Testaccio esatta da quella romana. In seguito, confermò agli ebrei di tutto lo Stato l’imposizione della vigesima, della decima e di una tassa per finanziare la spedizione contro i Turchi[34].
Sebbene avesse avallato la lotta voluta dai sovrani spagnoli contro gli ebrei convertiti al cristianesimo, ma sospetti di essere relapsi o ricaduti nell’ebraismo, Sisto IV non pose il veto allo stanziarsi a R. (e altrove) di quanti, dal 1483, avevano preso a fuggire dalla penisola iberica[35].
Alessandro VI (1492-1503) confermò il privilegio degli ebrei romani nel 1492 e, pur approvandone l’espulsione dalla Spagna, non impedì che i profughi venissero a R.: anzi, sembrò aver imposto agli ebrei romani una forte tassa per il rinnovo del permesso di residenza, proprio come ritorsione contro il loro tentativo di ostacolare l’ingresso degli esuli, e contro quanti di questi ultimi erano marrani manifestò un atteggiamento improntato a durezza[36].
Leone X (1513-21) promosse gli studi cristiani nel campo veterotestamentario e della lingua ebraica, permise l’apertura di una stamperia ebraica a R., fu in cordiali rapporti con il figlio del medico Bonet de Lattes, Emanuele ( che aveva tradotto in latino testi in ebraico che interessavano la Santa Sede) e frenò i predicatori. Nel 1521, concesse un privilegio ai feneratori romani, in cui venivano stabiliti il numero dei banchi e il massimo dell’interesse percepibile, l’esenzione dalle tasse (salvo quelle di Agone e Testaccio) e la sottoposizione alla sola giurisdizione della Camera Apostolica, sottraendoli, pertanto, all’eventuale “scomunica” rabbinica[37].
Nel 1527, gli ebrei romani, come la popolazione tutta, soffrirono enormi danni nelle persone e nei beni durante il sacco della città ad opera delle truppe mercenarie tedesche e spagnole[38].
Sotto il pontificato di Paolo III ( 1534-1549) fu istituito a R. un Monte di Pietà (1539), avvenne il riconoscimento della Compagnia di Gesù (1540) e iniziò a operare anche qui l’Inquisizione, con il nome di Santo uffizio (1542)[39]. Nel 1542 Paolo III emise una serie di disposizioni a favore dei neofiti (cui vietava, tuttavia, di sposarsi tra loro per impedire la “ricaduta” nell’ebraismo) e, al tempo stesso, accolse a R. (e in altre località del suo Stato) gli esuli dal regno di Napoli. L’anno successivo, autorizzò l’istituzione di una Casa dei Catecumeni in città, ma allo stesso tempo, previo pagamento della vigesima, riconfermò i privilegi della comunità romana concessi dai precedenti pontefici[40].
Sotto il pontificato di Giulio III (1550-1555) venne messo al rogo a R., nel 1553, Cornelio da Montalcino, un francescano che si era convertito all’ebraismo, vennero ordinati la confisca e il rogo del Talmud e, poco dopo, furono bruciati in Campo dei Fiori libri ebraici di ogni genere. Per far fronte a tale situazione, nel 1554, gli ebrei di R. e di altre località italiane si riunirono a Ferrara, istituendo la censura interna dei libri, che, in seguito, sarebbe passata alla Chiesa, influendo pesantemente sulla cultura degli ebrei romani (e di quelli italiani in genere).
Sempre nel 1554 Giulio III, per il mantenimento della Casa dei Catecumeni, impose una tassa di 10 ducati d’oro, da corrispondersi da parte di ogni sinagoga o oratorio che si trovava nei territori della Chiesa. Tuttavia, data l’impossibilità degli ebrei di pagare, tale provvedimento venne sostituito con la corresponsione di una cifra annuale tolta dalla vigesima[41].
Paolo IV (1555-1559), che durante il periodo della sua attività cardinalizia si era distinto per l’ intransigenza religiosa e la lotta contro l’eresia, secondo lo spirito della Controriforma, poco dopo l’elezione al soglio pontificio, promulgò la bolla Cum nimis absurdum (1555), che, rimettendo in vigore tutte le misure antiebraiche precedentemente concepite (ma applicate solo saltuariamente e parzialmente, soprattutto a R.), colpiva duramente la comunità romana, abolendone i privilegi e costringendola alla segregazione ghettuale, alla riduzione drastica delle fonti di guadagno e al salasso fiscale, e scatenando di fatto un declino progressivo che l’avrebbe portata, nel corso dei secoli successivi, ad uno stato di prostrazione ineguagliato in Europa. Il segno distintivo, ripristinato in tutto il suo rigore, consisteva in una berretta gialla per gli uomini ed in un velo giallo per le donne[42].
Durante il pontificato di Pio IV (1559-1565) le disposizioni di Paolo IV vennero mitigate, anche se non tutto abolite. Nella bolla (indirizzata particolarmente agli ebrei romani) Dudum siquidem (1562), il papa consentiva alcune facilitazioni relative alla dimora nel ghetto, tra cui il blocco degli affitti senza limite di tempo; inoltre, gli Ebrei potevano possedere beni urbani e rustici sino ad una certa cifra e affittare botteghe fuori del ghetto. Le limitazioni rispetto al commercio vennero abrogate ed il segno abolito durante i viaggi[43].
Pio V (1566-72), seguace della linea dura di Paolo IV, volle ripristinare le disposizioni di quest’ultimo con la bolla Romanus pontifex (1566), revocando quelle di Pio IV. Con la Cum nos nuper (1567) obbligò gli ebrei a vendere tutte le proprietà acquistate per concessione del suo predecessore, pena la confisca e la devoluzione del ricavato per metà alla Casa dei Catecumeni e per metà al Monte di Pietà. Nella comunità romana vennero a confluire, inoltre, molti ebrei, dopo che il papa, con la bolla Hebraeorum gens (1569) in cui li accusava di ricettazione, lenocinio, pratiche magiche e malefizi, aveva ordinato che, entro tre mesi, lasciassero lo Stato della Chiesa con le sole eccezioni di R. e Ancona[44].
Gregorio XIII (1572-85) prese alcuni provvedimenti a favore degli ebrei romani, mettendo una guardia armata a protezione del ghetto e minacciando della pena capitale chiunque vi si fosse avvicinato con intenzioni aggressive (1573). Egli cercò, inoltre, di rinsaldare la struttura economica comunitaria (1577), ripristinò il prestito, permise di non portare il segno distintivo durante i viaggi e di recarsi a svariate fiere, senza pagare i relativi pedaggi o gabelle per le persone e le merci (1581). Tuttavia, con la sua bolla del 1577, Gregorio ripristinò e regolamentò la predica coatta (che sarebbe stata tenuta, una volta alla settimana, in una chiesa prefissata, con la partecipazione a rotazione della popolazione ebraica di ambo i sessi), fondò a R. un Collegio dei neofiti per indottrinare i convertendi, stabilendo un tributo ebraico annuo per sovvenzionarlo (1577-78), vietò inderogabilmente ai medici ebrei di curare pazienti cristiani e autorizzò il tribunale dell’Inquisizione a perquisire il ghetto per indagare su eretici e marrani, sul possesso abusivo del Talmud o sulla presenza di servitù cristiana (1581)[45].
Sisto V (1585-90), mosso dal desiderio di promuovere il benessere economico del suo stato, con l’editto Christiana Pietas (1586) concesse agli ebrei l’autorizzazione a stabilirsi nelle città, castelli grossi e terre dello Stato della Chiesa, corredata da ampie facilitazioni economiche e in materia religiosa, per cui svariati ebrei tornarono a R. e, in generale, nei suoi territori[46].
Clemente VIII (1592-1605) vanificò l’operato del suo predecessore,[47] ripristinando con la bolla Caeca et obdurata (1593) le restrizioni statuite dalle bolle di Paolo IV e Pio V, compreso il divieto di risiedere in località diversa da R., Ancona ed Avignone. Sempre nel 1593, fu ordinato agli ebrei romani di consegnare il Talmud ed i commentari rabbinici perché fossero bruciati. Tra il 1593 e il 1596 l’obbligo di consegna dei testi venne limitato al Talmud e ad alcuni trattati cabbalistici, mentre le altre opere, se preventivamente sottoposte a censura, potevano essere tenute. Nel 1601, venivano bruciati a R., in piazza San Pietro, i libri confiscati e, tre anni dopo, il papa concesse un’assoluzione generale, salvo per reati gravissimi.
A partire da questo periodo prese avvio la serie di Bandi di non dare molestia agli Ebrei che presumibilmente attesta il ripetersi di vessazioni da parte della popolazione, soprattutto durante il periodo carnevalesco[48].
Sotto il pontificato di Paolo V (1605-21) venivano riproposti agli ebrei i consueti divieti in campo commerciale e sociale[49], ma, conformemente alla riforma dei tribunali di R. del 1611, variò la giurisdizione nei loro confronti[50].
Urbano VIII (1623-44), per far fronte alle spese per la difesa del proprio Stato e alla cupidigia dei familiari, costrinse gli ebrei romani a corrispondere una serie di tributi straordinari e, sebbene animato dall’intenzione di rinsaldare le finanze ebraiche, diede loro un duro colpo[51].
Sotto il pontificato di Innocenzo X (1644-55) la situazione economica degli Ebrei si fece ancora più difficile, complice lo straripamento del Tevere del 1647, che provocò ingenti danni[52].
Nel 1656 scoppiò la peste in città, mietendo vittime tra la popolazione e provocando agli israeliti ulteriori gravi disagi economici, destinati a ripercuotersi nel tempo[53].
Sotto Clemente IX (1667-69), essi vennero liberati dalla partecipazione alle corse del carnevale, anche se fu imposto loro, in sostituzione, il pagamento perpetuo di un tributo ed un umiliante atto di ossequio in Campidoglio[54].
Verso la fine del secolo (1693) ebbe luogo un episodio luttuoso che venne sfruttato da quanti osteggiavano i rapporti sociali (esistenti, nonostante tutto) tra la popolazione ebraica e quella cristiana: numerosi invitati ebrei e cristiani (tra cui nobili e prelati) perirono insieme nel crollo della casa a più piani, nel ghetto, in cui si celebrava il matrimonio del facoltoso commerciante Abramo Sonnino[55].
Negli anni Trenta del XVIII secolo, vennero sequestrati tutti i libri ebraici a R., per essere esaminati e censurati, venendo, in seguito, restituiti, ma le perquisizioni nel ghetto per tale scopo vennero reiterate anche negli anni Quaranta e Cinquanta[56].
Tra i molti divieti imposti agli ebrei vi fu anche quello di porre lapidi funerarie al cimitero e di accompagnare i morti con corteo funebre.[57]
Pio VI (1775-1799), ripristinò, poco dopo la sua elezione al soglio pontificio, il restrittivo Editto sopra gli Ebrei di Clemente XIV e ribadì le misure più oppressive, come il divieto dello studio del Talmud, delle opere cabbalistiche e di tutti i libri ebraici ritenuti contrari alla fede cristiana. Veniva, inoltre, ripristinato l’obbligo del segno distintivo giallo, per ambo i sessi, da portarsi sia dentro che fuori dal ghetto. Qualsiasi patente commerciale fu revocata e tutte le attività commerciali site fuori dal ghetto dovevano essere liquidate, come le società commerciali ebraico-cristiane[58].
Poco prima di tale editto, inoltre, era stato messo in vendita a R. un opuscolo antiebraico, La vita e il martirio di S. Simoncino, mentre negli anni Ottanta furono uccisi un paio di Ebrei, l’opera proselitistica della Casa dei Catecumeni ebbe nuovo impulso e vi furono episodi di rapimenti e costrizioni. Oppressi dai debiti verso la Camera Apostolica e dalle tasse, gli ebrei si rivolsero al papa, che nominò una congregazione speciale per vagliarne le lamentele, senza, tuttavia, giungere ad alcuna conclusione[59].
Nel 1793, dopo che fu trucidato in un tumulto popolare il segretario della legazione francese Hugon de Basseville, il ghetto venne accerchiato e assediato per otto giorni dalla popolazione romana, convinta che gli ebrei appoggiassero i rivoluzionari francesi. Solo l’intervento del cardinal vicario e delle altre autorità con una numerosa truppa impedì che la situazione degenerasse. Tuttavia, fu riconfermato l’ editto contro gli ebrei del 1775 , ivi compreso l’obbligo del segno[60].
Nel 1798, poco dopo la proclamazione della Repubblica Romana, venne piantato l’albero della libertà nel ghetto: alcuni israeliti, tuttavia, persero la vita nel tumulto antifrancese scatenato dal popolo, fedele al papa. Sedata la rivolta, Isacco Baraffaele, considerato l’uomo più facoltoso del ghetto, entrò nella guardia nazionale francese, come svariati altri correligionari.
Nonostante il grave carico fiscale imposto dall’occupazione francese, un rapido rigoglio della vita economica ebraica seguì alla nuova libertà, ma, con il ritorno della curia papale a R., nel 1800, e il neo-eletto Pio VII (1800-1823), che riprese il controllo sulle finanze ebraiche, alcuni tra gli ebrei più agiati preferirono trasferirsi in Toscana.
Nei cinque anni successivi all’annessione di R. all’impero napoleonico (1809-1814), le condizioni di vita e l’economia ebraiche tornarono a migliorare, sebbene i vecchi tributi non fossero stati aboliti, a differenza di quanto era accaduto sotto il precedente governo repubblicano[61].
Il ristabilirsi del governo pontificio (1814) portò al rinnovarsi delle discriminazioni[62]. Sotto Leone XII (1823-29), furono ripristinati altri provvedimenti restrittivi.[63] Le limitazioni nel campo sociale ed economico fecero emigrare ancora una volta dallo Stato della Chiesa gli ebrei romani più abbienti, mentre quelli che rimasero nel ghetto versavano in condizioni sempre più precarie[64].
Sotto Gregorio XVI (1831-46) la pressione delle maggiori potenze europee e l’intervento dei banchieri Rothschild (con il loro ingente prestito all’erario papale) portarono ad un miglioramento delle condizioni di vita degli ebrei romani, dando adito all’abbattimento dei portoni del ghetto e alla parificazione civile[65].
Pio IX (1846-1878), poco dopo la sua elezione al soglio pontificio fece, così, alcune concessioni[66]: ormai, non solo gli intellettuali italiani di aspirazioni risorgimentali, ma anche parte della popolazione romana era a favore dell’abolizione del ghetto, tanto che il capopolo Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, indusse gli abitanti dei rioni limitrofi ad entrarvi, stringendo un patto di fratellanza con gli ebrei. Tra quanti caldeggiavano la causa ebraica vi era anche Massimo d’Azeglio, uomo politico e intellettuale, che pubblicava a Firenze, nel 1848, il saggio Sulla emancipazione civile degli Israeliti. Gli sforzi congiunti in favore degli ebrei sortirono come effetto la decisione di Pio IX di far abbattere le mura e i portoni del ghetto nel 1848[67].
Dopo l’intermezzo della seconda Repubblica Romana, furono ripristinate però le discriminazioni contro gli israeliti, costretti a vivere in una sorta di “ghetto aperto”[68].
Nel 1870, cessato il governo pontificio a R. e subentrato quello dello Stato Italiano, agli ebrei vennero riconosciuti gli stessi diritti degli altri cittadini italiani.
Vita comunitaria
Per lungo tempo la comunità romana fu composta di ebrei discendenti dagli antichi immigrati palestinesi nella città e da alcuni forestieri amalgamatisi ai locali, per cui la situazione interna non era improntata a conflitti che fossero provocati dalle differenti provenienze geografiche dei suoi membri.
L’ondata migratoria verso R., seguita alle varie cacciate dagli stati europei e dalle altre parti d’Italia, provocò, tra la fine del XV secolo e l’inizio del successivo, la rottura dell’equilibrio esistente e il conflitto tra il gruppo degli ebrei “italiani” originari e il gruppo dei recenti immigrati, definiti “oltramontani” o “tramontani”, comprendente gli immigrati da oltralpe e da oltremare e quelli esuli dall’Italia meridionale e dalla Sicilia. Gli ebrei forestieri, forti del proprio numero ( che superava quello dei locali), si organizzarono secondo la provenienza geografica e le relative tradizioni liturgiche e non intesero sottostare agli altri, che, invece, volevano mantenere il governo dell’amministrazione comunitaria e il controllo della distribuzione delle spese generali. Oltre al conflitto per il potere comunitario che opponeva locali e forestieri, si aggiungeva a turbare la comunità romana quello socio-economico, basato sulla divisione per censo, che conferiva una posizione privilegiata ai gestori dei banchi, seguiti dai “ricchi”, dai “mediocri” (ovvero di mezzi più o meno modesti) e dai nullatenenti o “poveri”, i quali ultimi erano esclusi dalle cariche pubbliche, in quanto non contribuenti alle tasse.
Dopo trent’anni di dissidi interni, l’Università incaricò Daniel da Pisa (della prestigiosa famiglia di operatori di banco romani trapiantatisi in Toscana) di riorganizzare l’amministrazione comunitaria e di comporre il dissidio tra le parti in conflitto. Il da Pisa formulò, pertanto, nel 1524, i nuovi ordinamenti o “Capitoli”, approvati da papa Clemente VII, seguendo il criterio di rispettare la divisione etnica e quella per censo e attribuendo ad ogni gruppo pari autorità.
Al vertice dell’amministrazione comunitaria il da Pisa stabilì che dovesse esservi la “congrega dei sessanta”, eletti tra i membri delle tre classi aventi diritto alle cariche pubbliche (gestori di banco, “ricchi’ e “mediocri”, in numero di venti per ogni classe), che sarebbero rimasti in carica a vita. Il conflitto tra “italiani” e “oltramontani” fu risolto dal da Pisa, stabilendo che le cariche dovevano essere assegnate in numero pari rispetto ai due gruppi. La congrega aveva il compito di decidere circa le questioni importanti dell’Università, di nominare gli addetti alle varie cariche interne, di stabilire la tassazione, di autorizzare le spese di una certa consistenza; più tardi, a questi compiti si aggiunse quello di stabilire le norme suntuarie. Ad un livello decisionale più basso vi era il “consiglio ristretto”, composto di venti persone, cui partecipavano a rotazione i membri della congrega. Il potere esecutivo era affidato a tre fattori, in carica per un anno e subordinati alla congrega stessa, coadiuvati da due camerlenghi (con l’incarico di cassiere e di contabile), eletti per un semestre. Vi erano, inoltre, i tassatori, i preposti alla raccolta e distribuzione delle elemosine e i sorveglianti della macellazione rituale. Il da Pisa stabilì, poi, che le sinagoghe (“scole”) continuassero ad essere autonome nel funzionamento e negli ordinamenti, ma che si sottoponessero alle decisioni della congrega per le questioni di carattere generale. L’assetto da lui dato continuò, sia pur con qualche variazione di poco rilievo, fino a tutto il secolo XVIII. Con il tempo, la distinzione tra “italiani” e “oltremontani” si affievolì, mentre l’inasprirsi della situazione in cui versava il ghetto portò ad un aumento dei compiti di cui erano gravati i membri della congrega. Pertanto, nel 1802, fu ridotto a 27 il numero dei membri stessi, che si avvicendavano in nove per anno in una giunta esecutiva[69].
Fino ai “Capitoli” del 1524, la comunità romana si era auto-tassata secondo il principio della colletta volontaria: dopo il 1524, ai tassatori fu affidato il compito di ricevere dai contribuenti la dichiarazione del loro valsente e negotij per la partecipazione alle tasse e, nel 1577, Gregorio XIII (1572-85) consentì una forma di tassazione interna detta “tassa sul capitale”, che gravò sui contribuenti sino alla fine del secolo XVIII.
L’Università, oltre che le spese comunitarie interne, gestiva anche la suddivisione tra i singoli delle tasse esterne, come quella di Agone e Testaccio e altre. Tuttavia, le numerose esenzioni concesse ai singoli (in particolare ai medici) dal XIV al XVI secolo rispetto al pagamento della suddetta tassa e, nel corso del tempo, il progressivo inasprirsi dell’imposta sul capitale fecero sì che l’Università avocasse a sé il pagamento delle tasse esterne, senza ripartirle tra i suoi membri. Ne seguì un progressivo indebitarsi della stessa rispetto alla Camera Apostolica, che la condusse, infine, alla bancarotta[70].
Dato l’inasprirsi delle restrizioni della vita nel ghetto, l’Università all’inizio del XVII e del XVIII secolo fu costretta ad emettere delle pragmatiche molto severe per imporre un’estrema modestia agli ebrei nelle riunioni familiari, nell’elargire doti nuziali e nel festeggiare matrimoni e nascite, così come nell’abbigliamento maschile e femminile, che doveva essere di colore nero o, comunque, non vivace e di tessuti non pregiati: anche gli ornamenti e i gioielli dovevano essere rigorosamente limitati. Le pragmatiche stabilivano che il comportamento personale (soprattutto femminile) dovesse essere improntato a estremo riserbo, nel tentativo di limitare al massimo la prostituzione e la promiscuità, condannate dal regime papalino con il rogo della donna ebrea che avesse avuto rapporti sessuali con un cristiano[71].
Dopo le spese di assistenza ai numerosi superstiti della peste del 1656, ridotti nell’indigenza, e le spese degli affitti delle abitazioni ormai vuote, l’Università era economicamente stremata, tanto che Innocenzo XII, alla fine del XVII secolo, decise di entrare nella sua gestione, introducendo soprintendenti pontifici nei principali settori comunitari, mentre, negli anni Trenta, un controllore cristiano fisso sarebe stato introdotto dal papa nell’amministrazione comunitaria. Innocenzo XII, inoltre, tolse agli appositi organi della comunità l’autorizzazione a giudicare nelle cause private tra ebrei, abolendo l’antica autonomia ebraica in materia.
Dopo la seconda metà del XVIII secolo, sotto il pontificato di Clemente XIV (1769-1774), l’Università cessò di essere sotto la giurisdizione e la sorveglianza diretta del tribunale dell’Inquisizione, mentre la risoluzione delle controversie di natura non commerciale passò al vicariato[72].
La più importante delle confraternite del ghetto era la Gemilut Hasadim, conosciuta col nome di “Compagnia della Carità e Morte”, di cui si ha notizia a partire dal XVI secolo, sebbene la fondazione risalisse molto più indietro nel tempo. Tale confraternita provvedeva alle sepolture ebraiche e all’assistenza ai malati indigenti, avendo alle proprie dipendenze due medici e due speziali (che erano, in ambo i casi, uno ebreo e uno cristiano). La seconda per importanza era la confraternita del Talmud Torah, di cui esiste documentazione dall’inizio del XVII secolo (benchè fosse sicuramente piu antica), addetta all’istruzione dei ragazzi del ghetto e, per questo, chiamata anche “Scuola de’ Putti”, cui si affiancò la midrashah de’ Rossi: la confraternita del Talmud Torah ricevette tra i vari lasciti la biblioteca ebraica di Zaccaria di Efraim di Porto, nel 1672. Generalmente, gli allievi della “Scuola de’ Putti” pagavano una modesta retta, ma una parte degli indigenti poteva studiarvi gratuitamente; l’istruzione dei bambini più piccoli, invece, era affidata a insegnanti privati.
La confraternita Ozer Dallim , fondata nel 1659, provvedeva alla distribuzione di paglioni da letto e di cibo agli indigenti di sabato e nelle festività; la confraternita Moshav Zeqenim o “Ospizio dei Vecchi”, fondata nel 1725, provvedeva alle cure dei vecchi infermi o soli. Vi erano, inoltre, confraternite secondarie, tra cui l’ Ez Chayyim (Albero di Vita), fondata nel 1745, che provvedeva all’istruzione delle bambine nella Torah ed altre che si occupavano di svariate forme di soccorso ai poveri, come il pagamento del circoncisore e l’elargizione delle doti nuziali alle ragazze[73].
Attività economiche
In epoca imperiale romana, la maggior parte degli ebrei erano attivi come negozianti e artigiani (sarti, fabbricatori di tende, macellai, fornaciai), ma vi erano anche ambulanti e mendicanti, come pure medici, attori e poeti[74].
Dall’epoca medievale in poi, gli ebrei romani furono particolarmente attivi nel commercio (e spesso anche nella produzione) di tessuti di panno e di seta, sia individualmente che in società, all’interno di botteghe o tramite la vendita ambulante: il commercio, prevalentemente a domicilio e con pagamento a rate, si estendeva dall’Urbe alla campagna romana, annoverando tra la clientela anche i nobili e la curia papale. Dagli statuti di R. del 1297 si evince che i venditori ebrei di tessuti costituivano una categoria mercantile che, pur non facendo parte delle corporazioni cristiane, era ad esse collegata e subordinata, godendo di protezione. Presumibilmente, gli ebrei parteciparono anche alle attività che si andavano sviluppando a R. in quanto sede pontificia e meta di pellegrinaggi, come la fabbricazione di stoffe pregiate e tappeti e la vendita di preziosi, di incensi e simili. Gli ebrei romani furono attivi anche come cambiavalute e prestatori.
Sin dall’ultimo quarto del secolo XIII, dediti all’attività creditizia sia individualmente che in società, si mossero dall’Urbe verso le città dell’Italia centrale e settentrionale, dove erano stati invitati dalle autorità locali ad affiancarsi o a sostituire le società creditizie toscane e lombarde, e crearono una vasta rete in Lazio, Umbria, Marche e Toscana[75]. Nella seconda metà del secolo XIV, il mercato del prestito ebriaco romano si estendeva sino a Padova.
Nel 1447, fu vietata in città l’attività feneratizia,[76] che, in seguito, riprese con un numero di banchi lasciato ad libitum sino al 1521, quando fu limitato dal papa a venti, fissandone il tasso di interesse al 20% annuo (che rimase autorizzato sino al 1555, quando fu abbassato al 12%). Nel 1567 fu proibita la percezione di qualsiasi forma di interesse e, pertanto, venne a cadere l’attività feneratizia, che fu ripristinata sotto Gregorio XIII (1572-85) con un tasso del 24%, mentre sotto Sisto V (1585-90), il tasso di interesse consentito era del 18% e le agenzie feneratizie operanti a R. erano 64.
Nell’intento di eliminare il piccolo prestito ebraico su pegno, Clemente X, nel 1670, proibì ai feneratori di reimpegnare al Monte di Pietà gli oggetti che erano nelle loro mani e ridusse il tasso dal 18 al 12%.
Innocenzo IX, nel 1682, abolì il prestito ebraico, sebbene documenti indichino che, all’inizio del secolo XVIII, tre famiglie avrebbero continuato ad essere autorizzate a prestare a cristiani e, successivamente, vi siano cenni relativi ad episodi di attività feneratizia clandestina[77].
Un’occupazione largamente praticata dagli ebrei romani, almeno dal XVI secolo in poi, fu la sartoria e il riattamento degli abiti usati. Verso l’inizio del XVI secolo, inoltre, essi risultavano impegnati in tutta una serie di mestieri, di cui i principali erano: merciaio, ciabattino, venditore di indumenti usati, venditore di mobili e di stoffe[78].
Le gravi restrizioni economiche imposte nel 1555 da Paolo IV ridussero le attività ebraiche (oltre al prestito, di cui si è detto sopra) al solo commercio dell’usato (strazzaria). Nel 1566 (sotto Pio V), a R. erano permessi loro i seguenti mestieri: merciaio, orefice, ricamatore, sarto, setacciatore, fabbro-legnaiolo, cuoiaio e pescatore. Sisto V consentì, invece, l’esercizio di qualsiasi lavoro, esclusi il commercio di grano, frumento, vino ed olio, la soccida di animali e la semina del grano. Su impulso di Sisto V, prese piede a R. l’industria della seta, grazie all’attività dell’ebreo veneziano Meir Magino, ma, morto Sisto V, venne meno il sostegno che ne aveva favorito l’espansione.
Con Clemente VIII venne nuovamente proibito agli ebrei, nel 1592, il commercio degli oggetti nuovi, ma, in seguito, fu autorizzata la confezione di abiti[79].
Dalla seconda metà del XVI secolo in poi, la frequentazione delle fiere fu permessa a intermittenza e soggetta a limitazioni piu o meno gravi[80].
Dal 1641 al 1655, agli ebrei fu concessa una privativa di fornitura e nolo di letti per l’esercito pontificio, successivamente rinnovata, che si rivelò catastrofica per le loro finanze[81].
Nonostante alla fine degli anni Venti del XVIII secolo fosse stato ribadito il divieto agli israeliti romani di occuparsi d’altro che del commercio delle stoffe e dei ferri usati, testimonianze dell’epoca attestano che i tre quarti di essi si occupavano di sartoria, mentre gli altri erano attivi come merciai, orefici, gioiellieri, fabbricanti di setacci, basti e selle, falegnami, pescatori, rivenditori di coralli, tappeti e stoffe preziose. Alla fine degli anni Sessanta del secolo, risultavano smerciare zolfo, confezionare guanti di pelle e fabbricare bottoni (di cui erano gli unici fornitori a R. e nello stato papalino).
La maggior parte delle botteghe ebraiche erano dentro il ghetto, ma alcuni, previo pagamento di una tassa annuale, avevano botteghe di sellaio, di rigattiere e di rivendita di spezie, caffè, tè e cioccolata, anche al di fuori di esso, suscitando l’opposizione delle corporazioni cristiane, che tentarono svariate volte di eliminare la concorrenza ebraica, pur senza riuscirvi[82].
Sotto Clemente XIV (1769-74) gli israeliti cominciarono ad aprire alcune manifatture di seta, una fabbrica di cappelli ed una farmacia ed il loro giro d’affari risultava ampiamente allargato verso la fine del secolo[83]. Con la restaurazione della giurisdizione del cardinal vicario (1814), tuttavia, le botteghe fuori dal ghetto vennero chiuse e le attività economiche languirono[84].
Numerosi furono a R. gli ebrei dediti all’attività medica, in particolare dal XV secolo in poi, ma dalla metà del XVI secolo divieti e permessi di curare i pazienti cristiani si alternarono[85].
Demografia
Le fonti relative all’arrivo a R., nel 4 a.C., di una ambasceria dalla Giudea con la richiesta di abbattere la monarchia erodiana, riferiscono che essa fu accompagnata da 8000 ebrei romani. Da tali documenti e da altri si è desunto che questi ultimi, durante l’età imperiale, fossero tra i 40.000 e i 20.000 su un totale presumibile di circa 1.000.000 di abitanti[86].
Sebbene non vi siano informazioni chiare sulla popolazione ebraica, dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, si presume che diminuì di molto, secondo la drastica diminuzione di tutta la popolazione romana, ridotta a poche decine di migliaia[87].
Nella seconda metà del XII secolo, in base a quanto riporta Beniamino da Tudela, sarebbero vissuti nella città circa duecento ebrei: tuttavia, non è chiaro se tale numero sia da attribuirsi agli individui o alle famiglie ebraiche[88].
Nel 1526-27 vivevano a R. 1.750 ebrei, ma nel 1592, il loro numero era salito a 3.500.
Prima della peste del 1656 vi erano a R. 4.127 ebrei e le vittime del morbo furono 800. In assenza di dati statistici precisi, sembra verosimile ritenere che il numero degli israeliti dell’Urbe alla fine del XVII secolo oscillasse tra le 6.000 e le 7.000 unità, rappresentando un po’ più del 4% della popolazione. Verso gli anni Settanta del XVIII secolo, gli ebrei romani erano presumibilmente all’incirca 5.000. Da un censimento del 1809 risultavano vivere nel ghetto 3076 individui, dopo che svariati avevano abbandonato R. nel 1805 circa. Nel 1853 vi erano 4.186 ebrei e, nel 1868, il loro numero era salito a 4.995[89].
Quartiere ebraico e ghetto
Dalla testimonianza di Filone Alessandrino, giunto a R. alla testa di una delegazione inviata dagli ebrei di Alessandria, si apprende che quelli romani vivevano principalmente nel quartiere di Trastevere, lungo la riva destra del fiume.
Per tutta l’età imperiale e medievale la maggior parte di essi rimase nel quartiere, ma, verso il XIII secolo, molti si spostarono al di qua del Tevere, in una zona che si stendeva da ponte Elio o S. Angelo a ponte Rotto, in cui era incluso ponte Fabricio o Quattro Capi. Tale area giungeva ai margini del teatro di Marcello e comprendeva vari palazzetti, tra cui quello dei Pierleoni: il nome con cui veniva designata era contrada Iudeorum in regione Sancti Angeli, comprendente I rioni di S. Angelo e Regola. All’inizio del XV secolo vi venivano menzionate una platea Iudeorum ( in seguito, piazza Giudea), una ruga Iudeorum (in seguito, via Rua) e una platea in templo Iudeorum, presso la chiesa di S. Tommaso.
Nel 1555, in seguito all’istituzione del ghetto, venne recintato (a spesa degli ebrei) il perimetro in cui la maggior parte di essi già viveva, escludendo le sponde del Tevere prospicienti ai ponti S. Angelo e Rotto e la zona intorno al teatro di Marcello. Solo una parte della piazza Giudea fu inclusa nell’area del ghetto, mentre la restante (con lo stesso nome) ne rimase fuori. La via principale del ghetto nel senso della lunghezza, parallela al fiume, era la via Rua, mentre nel senso della larghezza si intrecciava un groviglio di vicoli e al centro si trovava la piazza delle Scole. Vi erano anche altre due piazzette, quella dei Macelli e quella delle Tre Cannelle; altre vie e numerosi vicoli e vicoletti completavano la zona ghettuale, chiusa da tre portoni[90].
Nel 1589, dato l’afflusso di ebrei che tornavano a R. dopo la revoca dell’espulsione dallo Stato della Chiesa, venne deciso l’ampliamento del ghetto, annettendovi un’ulteriore parte della via Fiumara: pertanto, vennero spostate le mura di cinta e aggiunti due portoni.
Il ghetto venne rimpicciolito dopo la seconda metà del XVII secolo, sia per volontà papale che per intervento dell’Università, costretta a pagare il fitto degli appartamenti rimasti vuoti dopo la peste del 1656. Rendendo responsabile l’Università del pagamento delle case vuote, Alessandro VII, nel 1658, equilibrava il provvedimento di Clemente VIII (1604) che vietava ai proprietari cristiani delle case del ghetto di sfrattare gli inquilini ebrei o di aumentar loro l’affitto: tale diritto perpetuo di locazione a canone fisso, sarebbe rimasto noto come jus di gazagà.
Un’appendice del ghetto era il cosiddetto “ghettarello”, in via Portaleone, chiuso da un portone: fuori dal recinto vi era una zona in cui, in maniera discontinua, gli ebrei erano autorizzati a tenere alcune botteghe.
Nel 1825 venivano incluse nel ghetto via della Reginella e parte di via della Pescheria; in seguito, vi venne incluso il palazzo Cenci, adibito a ospedale.
Il ghetto restava chiuso da una o due ore dopo il tramonto sino all’alba, l’uscita di notte era ammessa solo in casi straordinari (come la sepoltura dei morti) ed era incaricato alla chiusura dei portoni un portinaio pagato dall’Università e scelto dal cardinal vicario tra i propri protetti[91].
Svariate descrizioni del ghetto, soprattutto da parte di visitatori del XIX secolo riferiscono del sovraffollamento inimmaginabile, delle condizioni igieniche disastrose e della promiscuità che caratterizzavano il cosiddetto serraglio degli Ebrei[92].
Sinagoghe
In epoca imperiale, gli storici ritengono esservi state a R. almeno dodici sinagoghe (non necessariamente tutte esistenti contemporaneamente): alcune erano frequentate da gente proveniente dallo stesso luogo, come le sinagoghe “di Tripoli”, “di Elea”, “di Schina” e di “Arca del Libano”, altre da persone che esercitavano la stessa professione, come la sinagoga “dei Calcaresi”, cioè dei fabbricanti di calce, altre ancora erano indicate dal nome del distretto in cui erano ubicate, come la sinagoga “dei Suburresi” e quella dei “Campesi” ed altre, infine, dal nome di qualche illustre famiglia cui la congregazione era particolarmente legata, come la sinagoga “degli Augustesi”, “degli Agrippesi”, “degli Erodiani”, “dei Severi” e “dei Volumnesi”. Vi era, inoltre, la sinagoga “dei Vernacoli”, e cioè degli ebrei stanziati da lungo tempo a R. e la sinagoga “degli Ebrei”, che designava quelli immigrati più di recente. Tuttavia, non rimangono resti archeologici delle sinagoghe romane dell’epoca[93].
La scarsa documentazione rimastaci consente solo di menzionare una sinagoga ubicata in Trastevere, che fu distrutta da un incendio nel 1268. Poco dopo il Mille, sorse un oratorio sull’isola Tiberina, che assunse il nome del suo presumibile fondatore, Yosef. Con il concentrarsi delle abitazioni ebraiche nei rioni di Regola e S. Angelo, vifu costruita una sinagoga nei pressi della chiesa di S. Tommaso, che è ricordata in scritti del XIV secolo e che, in seguito, sarebbe stata conosciuta con il nome di “Scola Tempio”. Dal XII secolo in poi vi furono anche quattro oratori, di cui il più antico fu fondato da Natan di Yehiel, nel 1101[94].
Presumibilmente al XIV secolo risalgono la sinagoga dei “Quattro Capi”, presso il ponte omonimo, la sinagoga “della Porta”, forse sita nelle vicinanze di Porta Portese e la sinagoga “Portaleone”, dal nome della nota famiglia ebraico-romana[95].
Dalla fine del XV secolo, la diversità di provenienza dette origine a svariate sinagoghe o scole, in aggiunta a quellaromana: la siciliana, l’aragonese, la catalana, la francese, la tedesca, e così via, che seguivano tradizioni liturgiche proprie. In numero di dieci all’inizio del XVI secolo, esse si ridussero a sei a metà del secolo e, poco dopo, a cinque. All’inizio del Cinquecento le sinagoghe in funzione risultavano essere: la “Scola Tempio” (la più antica, che riuniva le famiglie residenti a R. da lunga data), la “Scola Nova” (in cui si riunivano gli ebrei italiani provenienti da fuori Roma), la “Scola Castigliana”, la “Scola Catalana-Aragonese”, la “Scola Siciliana”, la “Scola Francese”, la “Scola Tedesca”, la “Scola di Quattro Capi” e la “Scola Porta” e/o “Scola Portaleone”. Tutte seguivano il rito italiano (salvo la spagnola, la francese e la tedesca, che avevano i propri). Pio V, applicando la decisione contenuta nella bolla del 1555 di Paolo IV relativa all’esistenza di una sola sinagoga in ogni ghetto, fece chiudere le sinagoghe romane. In seguito, accondiscendendo alle proposte ebraiche, permise la riapertura di tutte quelle che potessero essere raggruppate in un solo edificio. All’uopo, fu scelto lo stabile che si affacciava sul “Mercatello degli Ebrei”, noto in seguito come “Piazza delle Scole”, in cui vennero ubicate la “Scola Castigliana”, la “Scola Tempio”, la “Scola Catalana” , la “Scola Siciliana” e la “Scola Nova”, rimanendovi ininterrottamente per tre secoli e mezzo[96].
Cimitero
Il più antico cimitero ebraico, menzionato come Campo Giudio e ubicato nei pressi di Porta Portese, risale al XIV secolo (ma, presumibilmente, ad un’epoca ancora più antica). Nel 1587, lo stesso cimitero era ancora in funzione e, in deroga ai divieti di possesso ebraico di beni immobili emessi da Paolo IV e Pio V, risultava proprietà della confraternita Gemilut Hasadim (Compagnia della Carità e della Morte).
Nel 1645, la Compagnia ricevette da Innocenzo X l’autorizzazione ad acquistare nuovi terreni da adibire a sepoltura. Il luogo prescelto fu un orto sull’Aventino, sopra al Circo Massimo. Nel 1728, poi, Benedetto XIII autorizzò la Compagnia a comprare un terreno contiguo, posto nei pressi della chiesa di S. Maria in Cosmedin o Bocca della Verità. Nel 1775 Pio VI concesse un’ulteriore espansione del terreno ad uso cimiteriale, attiguo a quello acquistato nel 1728: tale cimitero rimase in uso sino alla fine del XIX secolo.
L’assenza di lapidi caratterizzava i cimiteri ebraici romani, in quanto, dal 1625 erano stati applicati i divieti di Urbano VIII di contraddistinguere le sepolture ebraiche in qualsiasi modo, salvo per i rabbini e i personaggi di eccezionale levatura, che venivano sepolti in una zona separata. Era proibita anche qualsiasi forma di accompagnamento funebre nella pubblica via. Il divieto delle lapidi fu abrogato solo nel 1846[97].
Dotti, rabbini, personaggi famosi
In epoca romana, i legami culturali tra gli ebrei di R. e quelli della Palestina furono saldi: il flusso migratorio da levante a occidente, in particolare dopo la distruzione di Gerusalemme, contribuì a mantenere viva la tradizione palestinese tra i correligionari romani.
A quanto risulta, il rabbino Mattatyah di Heresh (uno dei dottori della Mishnah), inviato a R. nel II secolo d.C. , vi si stabilì, fondandovi un’accademia, che fu l’unica nel mondo ebraico dell’epoca, al di fuori di quelle di Palestina e di Babilonia.
Sebbene in svariate occasioni si fossero recati a R. dotti provenienti dalla Palestina, la cultura imperante tra gli ebrei romani era quella ellenistica, come mostrano le iscrizioni catacombali[98].
Nella seconda metà del Mille vi era a R. un’accademia di studi ebraici che raggiunse grande fama, divenendo per un periodo forse la più rinomata in Europa. Tra i suoi membri vi fu Kalonymos di Shabbetai, detto Ha-bahur (Il giovane), nato verso il 1030 a R., da dove poi emigrò per recarsi a Worms, divenendo uno dei capi della locale accademia di studi ebraici, mentre l’accademia romana era diretta da Yaaqov Gaon.
Nella poesia ebraica si distinse Shlomoh di Yehudah, detto “Il Babilonese”, di cui svariate composizioni furono incluse nella liturgia sabbatica e festiva.
La tradizione liturgica seguita dagli ebrei romani, largamente influenzata dalle tradizioni ebraiche della Palestina, venne chiamata originariamente minhag Romi e, in seguito, “rito italiano”, divenendo predominante in Italia con lo svilupparsi della comunità romana.
Tra i membri dell’accademia romana vi furono anche svariati appartenenti alla famiglia Anav (o Min ha-Anavim , italianizzato in dei Mansi o dei Piattelli), che per un paio di secoli diede le maggiori guide spirituali alla comunità. Tra i più noti della famiglia Anav vi fu Yehiel di Abramo (morto all’incirca nel 1070), capo dell’accademia, talmudista e poeta liturgico, il cui figlio Natan compose l’Arukh (L’ordinato), un‘opera lessicografica che abbracciava la letteratura postbiblica riportandone i termini in svariate lingue e che formò la base dei lessici talmudici successivi, dando al suo autore larga fama.
Insegnarono nell’accademia altri due figli di Yehiel, Avraham e Daniel: quest’ultimo, oltre che rabbino capo, fu anche poeta liturgico e commentatore della Mishnah.
Intorno alla metà del XII secolo,Yehiel, nipote di Natan di Yehiel, rivestiva l’incarico prestigioso di amministratore della casa del papa Alessandro III, godendo del libero accesso al palazzo pontificio. Il celebre esegeta biblico, grammatico, filosofo e poeta Avraham Ibn Ezra soggiornò a R. nel 1140 e negli anni Sessanta, lasciando versi piuttosto critici nei confronti degli esponenti della cultura ebraica trovati in Italia.
Tra i molti autori del XIII secolo, si trova un altro membro della famiglia Anav, Zidqiyah di Abramo, si acquistò fama col suo componimento di argomento halakhico Shibbole’ ha-leqet (Spigolature), che è stato considerato essere forse il primo tentativo italiano di codificazione legale ebraica. Il fratello di Zidqiyah, Beniamino, fu uno dei maggiori dotti romani del suo tempo (con conoscenze che, oltre il campo religioso ebraico, abracciavano quello filosofico, matematico e astronomico), autore, tra l’altro, di poesia liturgica e di preghiere penitenziali di rito romano. Un altro Anav, Yequtiel, fu scriba e autore, la cui opera piu importante sull’etica fu pubblicata prima con il titolo Bet Middot e poi con quello di Maalot ha-Middot (Costantinopoli, 1511; Costantinopoli 1763)[99].
Uno dei più noti esponenti della cultura poliedrica dei medici e filosofi ebrei del XIII secolo e acuto propugnatore del pensiero maimonideo, Hillel di Shemuel da Verona (1220 circa-1295 circa), fu a R. per un periodo. Autore dell’opera Tagmule’ ha-nefeh (Ricompense spirituali), dedicata al destino dell’anima dopo la morte, e traduttore di opere filosofiche e mediche, Hillel fu in contatto con due medici e filosofi di spicco in città: l’archiatra pontificio Magister Gaio, anch’egli dedito alle traduzioni, e l’esegeta biblico e filosofo Zerahyah di Yitzhaq di Shealtiel Hen (Gracian), vissuto per un periodo a R., che tradusse opere filosofiche e mediche e si distinse nel pensiero maimonideo.
Nacque a R. il più celebre poeta ebreo italiano, Yimmanuel di Shelomoh di Yequtiel Zifroni, noto come Manoello Giudeo o Yimmanuel Romano ( 1261 circa- 1328 circa), che viaggiò per diverse località dell’Italia centrale, in qualità di precettore privato, come, poi, fecero vari altri dotti e rabbini. Manoello fu anche a Verona, dove compose un poemetto in italiano sulla vita alla corte di Cangrande della Scala. Manoello non si limitò all’attività poetica, ma, tra l’altro, si dedicò anche all’esegesi biblica, alla filosofia e alle scienze naturali. Ammiratore del suo contemporaneo Dante Alighieri, scambiò sonetti con Bosone da Gubbio e Cino da Pistoia. La sua opera più importante è la collezione di ventotto componimenti in versi o in prosa rimata, Mahbarot (Composizioni), scritti principalmentesecondo il modello arabo (maqama), con un linguaggio ricco di immagini che echeggia quello della poesia ebraico-spagnola medievale e del “dolce stil novo”, mentre i contenuti sono molto vari e spesso licenziosi. Le Mahbarot si chiudono con una composizione che, ricalcando la Divina Commedia dantesca, rappresenta la visita del poeta nell’aldilà e il suo intrattenersi con le anime dei defunti nell’inferno e nel paradiso.
Tra gli altri poeti vissuti a R. all’epoca, va menzionato Yehudah Siciliano. Il più ragguardevole esponente della speculazione filosofica maimonidea a R. fu un cugino di Manoello Giudeo, Yehudah di Mosè, noto come Giuda Romano il filosofo. Giuda Romano tradusse anche svariate opere filosofiche dall’arabo e dal latino, seguendo quel rinascere degli studi classici e l’interesse per il pensiero arabo (soprattutto di Avicenna e di Averroè), che aveva portato gli ebrei, date le loro conoscenze linguistiche, a distinguersi particolarmente come traduttori.
Anche nel campo della trascrizione di opere gli Ebrei romani acquistarono fama.
La famiglia ha-Meati (“da Cento”), menzionata a R. dalla fine del XIII secolo, per tre generazioni contò tra i suoi membri copisti e traduttori [100].
Tra i molti medici eruditi che caratterizzarono la comunità romana sino al XVI secolo, vi fu anche il figlio di Magister Gajo, Mosè di Isacco da Rieti (1388-dopo 1460), che, oltre ad occuparsi della comunità ebraica, promosse gli studi talmudici (fondando una scuola a Narni) e si dedicò alla poesia. La sua opera più importante fu il Miqdah Meat (Piccolo santuario), che, ispirandosi al modello dantesco, descrive un viaggio nell’oltretomba ebraico[101].
All’inizio del secolo XVI si trovarono a R., per la prima volta, musicisti ebrei, tra cui Giovanni Maria e Giacomo Sansecondo[102].
Durante il primo ventennio del XVI secolo giunse a R. Elia ha-Levi o Levita o Bahur, studioso di grammatica ebraica che divenne maestro di ebraico e di Qabbalah del cardinale Egidio da Viterbo, cultore di studi ebraici[103]. La Qabbalah non solo interessò svariati uomini di cultura rinascimentali, ma fu ritenuta ausilio potenziale della Chiesa per la conversione degli ebrei anche quando venne istituita la censura sui libri ebraici. Tuttavia, già alla fine del ‘500, la Chiesa smise di considerarla con indulgenza, depauperando anche nel campo delle opere cabbalistiche la cultura degli ebrei romani.
Un personaggio che fece scalpore a R. fu l’avventuriero di aspirazioni messianiche David ha-Reuveni, sedicente fratello e inviato di Yosef, re della tribù ebraica di Reuven (una delle dieci tribù ebraiche di cui si erano perse le tracce da ventitrè secoli), che progettava di liberare Gerusalemme dai musulmani alla testa di un esercito ebraico da mettere insieme per l’impresa. Il Reuveni, accolto a R. con grandi onori nel 1524, oltre al sostegno dei maggiorenti della comunità romana, godette di quello di Egidio da Viterbo e del papa Clemente VII, che, in seguito, elargì protezione anche a Shlomoh Molkho (o Diego Pires, portoghese d’origine marrana). Quest’ultimo fu prima ardente seguace del Reuveni per poi atteggiarsi egli stesso a figura messianica, venendo smascherato come impostore da Yaaqov Mantino, il medico personale di Paolo III (successore di Clemente VII), che nel 1539 avrebbe ricevuto, eccezionalmente per un ebreo, la nomina a docente di medicina alla Sapienza di R.[104].
Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, la produzione poetica nel ghetto si limitò a tre traduzioni in italiano di una parte del Piccolo santuario di Mosè da Rieti, all’epoca ancora molto in auge, ad opera dei rabbini Lazzaro di Viterbo e Samuele di Castelnuovo e di Debora Ascarelli, che, oltre all’opera del da Rieti, tradusse anche inni liturgici. In seguito, il medico Yaaqov Zahalon, che si prodigò al momento della peste del 1656, compose preghiere raccolte nel libro Margaliot tovot (Perle preziose).
Tra il 1620 e il 1650 troviamo tra i rabbini Ezechia Tranquillo il Vecchio della agiata famiglia Corcos, apprezzato talmudista, cui seguirono il figlio Raffaele e il nipote Tranquillo Vita Corcos. Quest’ultimo (1660 circa-1730) fu medico, rinomato predicatore e, nella sua attività rabbinica, si adoperò variamente presso le autorità ecclesiastiche in favore della comunità romana (e degli ebrei dello stato pontificio) . Capo dell’ accademia rabbinica, coltivò anche le lettere italiane e latine.
Tra il 1660 e il 1694 era stato alla testa del rabbinato romano Salvator Sonatore, celebrato talmudista. All’inizio del XVIII secolo, Sabato Ambron scrisse in latino la Pancosmosophia, in cui si opponeva alle concezioni cosmogoniche e astronomiche di Tolomeo, Copernico e Galileo, proponendo una concezione d’ispirazione cabbalistica che venne vietata dal tribunale dell’Inquisizione. L’Ambron tentò invano anche di pubblicare un’altra opera che intendeva correggere gli errori della Bibliotheca magna rabbinica pubblicata (tra il 1675 e il 1693) da due monaci, Giulio Bartolocci e Carlo Giuseppe Imbonati[105].
Il decadimento culturale iniziato con il ghetto, si fece ancora più manifesto nel secolo XVIII, di cui si ricordano solo svariati rabbini ( ma non, tuttavia, dotti): Sabato e Michele di Segni, Sabato Fiano, Abramo Anau, Emanuele Modigliano e Prospero di Castro.
Nel XIX secolo la situazione di penuria culturale era tale che la carica di rabbino maggiore fu ricoperta da forestieri : Yehudah Leon (o Leon di Leone), emissario della Terrasanta, Mosè Sabato Beer, di provenienza anconetana e Mosè Israel Hazan (anch’egli originario della Terrasanta). Si distinse allora per le sue attività in favore della comunità e per la posizione raggiunta Samuele Alatri, che fu consigliere della banca dello Stato pontificio[106].
Stampa ebraica
Secondo la maggior parte degli studiosi, circa una decina di incunaboli ebraici, stampati presumibilmente prima del 1480 (senza data e senza luogo di edizione), sono da considerarsi stampati a R.. Tra essi vi sono: il Mishneh Torah e la Guida dei perplessi di Maimonide, il Commento al Pentateuco di Rashi e quello di Nahmanide, il Commento di Gersonide al libro biblico di Daniele, l’Arukh di Natan di Yehiel, il Sefer Mitzvot Gadol (o “Semagh”) di Mosheh di Yaaqov da Coucy e altri[107].
Dopo svariati anni, venne aperta a R. nel 1518, sotto l’egida del Cardinale Egidio da Viterbo, una tipografia, in casa di Gian Giacomo Fagiot (Facciotto) da Montecchio, che fu coadiuvato da Yitzhaq, Yom Tov e Yaaqov di Avigdor ha-Levi Qatzav di Padova, dando alle stampe tre opere grammaticali di Elia Levita[108].
Le altre opere ebraiche stampate nel XVI secolo provenivano da tipografie cristiane, dato che agli ebrei non era permesso averne una propria a R.: all’inizio del XVI secolo, veniva stampata da Jacopo Mazzochi una raccolta di preghiere e la Qinat ha-galut (Lamentazione dell’esilio), composta nel 1508 da Ahron della Candela di Viterbo[109]. Tra il 1513 e il 1521 vedeva la luce una grammatica ebraica, di cui non si conosce lo stampatore[110].
Dal 1516 al 1567 operava a R. la tipografia del cristiano Antonio Blado (Anton Bladau), continuata dai suoi eredi sino al 1593, dove stampavano gli ebrei Samuele Zarfati, Yitzhaq Yoshua de Lattes, Benyamin da Rignano (Arignano) e Shlomoh di Yitzhaq da Lisbona. Dal 1578 al 1581 operava a R.. la tipografia dello stampatore cristiano Francesco Zanetti, che, con l’assistenza di Vittorio Eliano, il nipote di Elia Levita convertitosi al cristianesimo, stampò la Genesi, i Cinque Rotoli e i Salmi. Un secolo più tardi la Congregatio de Propaganda Fide fondava a R. una stamperia ebraica che produceva solo opere a scopo conversionistico[111].
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[1] Nel 161 a. C., è attestata la presenza a R. di un’ambasceria di ebrei dalla Palestina, capeggiata da Giasone di Eleazar ed Eupolemus di Yohanan, inviati di Giuda Maccabeo della famiglia degli Asmonei, per stringere un patto di amicizia tra Ebrei e Romani. Verso il 151a.C. e il 139 a.C. nuove ambascerie giunsero a R.: al tempo dell’ultima risultava stanziato nella città un piccolo nucleo ebraico (Vogelstein, H.-Rieger, P., Geschichte der Juden in Rom, I, p. 4; Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 13).
[2] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., p. 24; ulteriori fonti, meno credibili, sono citate da altre famiglie ebraiche, come i del Vecchio o, ad esempio, i de Synagoga per accreditare la vetusta origine romana (Ivi, p. 25. Cfr. Roth, C. The History of the Jews of Italy, p. 13). Sulle origini dei nomi delle principali famiglie ebraico-romane, si veda anche Berliner, A., Geschichte der Juden in Rom, pp. 22-25.
[3] Con Vespasiano (9d.C.- 79 d.C.) l’obolo di mezzo siclo inviato dagli ebrei della diaspora per il mantenimento del tempio, decaduto dopo la distruzione di Gerusalemme, venne sostituito col tributo di due dracme per il tempio di Giove Capitolino a R., chiamato fiscus judaicus , che doveva essere versato da tutti gli ebrei e, sembra, anche dai numerosi simpatizzanti dell’ebraismo. Il fiscus judaicus è stato visto come la prima tassa imposta agli ebrei con l’intento di discriminarli.Tale tributo fu eliminato da Giuliano l’Apostata (331-363) (Milano,A., Il ghetto di Roma, p. 19; Id., Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, p. 19).
[4] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit.,I, p. 10.
[5] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 21-22; Roth, C., op. cit.,p. 26.
[6] La nuova legislazione che li riguardava venne formulata sotto Costantino, venendo, in seguito, ritoccata dagli imperatori del IV e V secolo; sotto il profilo teologico fu particolarmente importante la posizione presa rispetto agli ebrei da S. Agostino (354-430), nel IV-V secolo (Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 29-30; Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, History, pp. 4-6. Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, p. 117-131).
[7] Per il periodo dalle invasioni barbariche sino all’avvento di papa Gregorio I, si veda Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 30-31.
[8] Le espressioni usate da Gelasio per indicare gli ebrei nelle due missive in cui li menziona sono relativamente neutrali: nel primo documento viene usato Judaica credulitas, nel secondo Judaica professio. Il primo documento tratta di una raccomandazione per un parente di un vir clarissimus che sembrava essere ebreo; il secondo documento è un’esortazione ad appurare se fosse stata vera l’affermazione di uno schiavo che il suo padrone ebreo lo aveva fatto circoncidere, sebbene egli fosse stato, sin dall’infanzia, cristiano (Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, doc. 1 e 2).
[9] Simonsohn, S., op. cit., doc. 19. Tale bolla costituì la base per una successiva rielaborazione (sec. XII) e venne confermata da svariati papi (Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 31). Gregorio I ribadì che gli ebrei partecipavano dei diritti della legge comune romana, incluso il diritto di proprietà (salvo il posesso di schiavi cristiani) e auspicò la loro conversione ottenuta non con la forza, ma con la persuasione e, eventualmente, con l’allettante prospettiva delle facilitazioni economiche (Simonsohn, S., op. cit., doc. 5, 12, 14, 20, 22, 24, 25).
[10] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit.,I, pp. 212-213.
[11] Anacleto II discendeva dall’ebreo Barukh, che, poco dopo il Mille, aveva messo le sue ingenti ricchezze al servizio della Chiesa, si era convertito col nome di Benedetto e aveva dato origine al casato chiamato Petrus Leonis (volgarizzato in Pierleoni), che si mantenne fedele al papato. L’ascesa al soglio pontificio di un papa d’origine ebraica fu, presumibilmente, all’origine di leggende ebraico-italiane medievali sul tema (Roth, C., op. cit., p. 73-74). Va notato che Pietro di Leone, nipote di Barukh, e padre di Anacleto II, appoggiò la nomina a pontefice di Callisto II, che emise una bolla in cui prendeva gli ebrei sotto la protezione papale, ribadendo la Sicut Iudaeis di Gregorio Magno. In particolare, Callisto II si dichiarò contrario ai battesimi forzati, alle molestie all’attività ebraica di culto e alle offese agli ebrei nella persona e nei beni, senza regolare processo. Tra il secolo XII e il XV ventitré papi (probabilmente dietro iniziativa e a spese della comunità ebraica romana) confermarono la costituzione protettiva formulata da Callisto II, senza, tuttavia, impegnarsi di fatto ad applicarla scrupolosamente (Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 33 -36). Il testo originale della bolla di protezione di Callisto II non è rimasto ed è conosciuto grazie alla sua citazione nelle edizioni successive (Simonsohn, S., op. cit., doc. 44).
[12] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, p. 263; p. 266; p. 280. Per il resoconto romano di Beniamino da Tudela, si veda Beniamino da Tudela, The Itinerary of Benjamin of Tudela. Critical Text, Translation and Commentary, a cura di Adler, M.A., New York (prima edizione London 1907), pp. 5-6; originale ebraico, ivi, pp. 6-7. Sulla famiglia Anav, si veda più sotto il paragrafo “Rabbini, dotti, personaggi famosi” della presente trattazione.
[13] Innocenzo III, ritenendo gli ebrei perfidi, impiegò il massimo sforzo per imprimere loro la consapevolezza che il deicidio perpetrato li condannava alla schiavitù eterna. Si veda Simonsohn, S., op. cit., doc. 82.
[14] Simonsohn, S., op. cit., doc. 94; Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 36-37; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit.,I,p. 231.
[15] Dopo che Gregorio IX ebbe posto a difesa della fede cristiana, minacciata dalle eresie, l’Inquisizione, affidandola ai domenicani, nel 1235 un ebreo convertito francese, Nicola Donin, lo convinse che allusioni ingiuriose contro Gesù e Maria sarebbero state contenute nel Talmud: il pontefice, pertanto, nel 1239 ordinò di bruciare le copie dei libri ebraici dove fossero state trovate espressioni contrarie alla fede cristiana. Anche a Roma vi fu il sequestro del Talmud, accompagnatoda qualche rogo (Simonsohn, S., op. cit., doc. 165; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., p. 237; Milano, A., op. cit., p. 38; Roth, C., op. cit., p. 138).
[16] Vogelstein, H.,-Rieger, P., op. cit., p. 240.
[17] Simonsohn, S., op. cit., doc. 230. Sembra che in seguito a questa bolla, che dava mano libera all’Inquisizione anche a R. e fomentava l’ostilità contro gli Ebrei, il cimitero ebraico fosse stato profanato (Vogelstein, H. –Rieger, P., op. cit., pp. 243-244). Sull’attitudine di Clemente IV nei confronti della religione ebraica e degli ebrei, si veda Simonsohn, S., op. cit., History, pp. 24-25.
[18] Simonsohn, S., op.cit., doc. 256, 266, 270; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, p. 252.
[19] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, pp. 255-257.
[20] Ibidem ; Simonsohn, S., op. cit., doc. 279.
[21] Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 44; JE, si veda“Badge, Jewish (Italy)”.
[22] Tra il XIV e il XVI secolo, l’Università suddivise la tassa tra i singoli in proporzione delle sostanze, ma dovette concedere numerose esenzioni, in genere proprio tra i più abbienti, ad esempio tra i medici più prestigiosi che curavano i membri della corte papale (Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 130-131).
[23] Tra il popolo romano che veniva ad accogliere Enrico IV vi furono anche i rappresentanti della comunità ebraica recanti, come d’uso, i rotoli della Legge: sulla sola comunità ebraica, tuttavia, ricadde l’onere dell’occasione (Vogelstein, H. -Rieger, P., op. cit., I, pp. 303-304; Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 44).
[24] Si veda Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 43.
[25] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 44-45; Simonsohn, S., op. cit., doc. 309; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, pp. 305-308.
[26] Angelo di Manuele, medico pontificio, fu gratificato, nel 1392, delle prerogative dei familiari dellacorte papale e nel 1399 gli vennero confermati tali privilegi, ivi compresa la riduzione della sua quota di tasse per i giochi di Agone e Testaccio e l’esenzione dal segno distintivo. Nel 1404, Angelo ed i figli Leuccio e Manuele, chirurghi , ricevettero la dispensa dal comparire di fronte a qualsiasi tribunale ecclesiastico e civile, divenendo, invece, soggetti alla sola curia papale (Simonsohn, S., op. cit., doc. 481, 487, 503). Nel 1392 anche Salomone di Sabatuccio da Perugia era stato familiare del papa, godendo della protezione papale (Ivi, doc. 482).
[27] Nella conferma dei privilegi vi era anche la partecipazioni degli ebrei delle altre comunità degli stati della Chiesa alle tasse della comunità romana (Simonsohn, S., op. cit., doc. 499; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, p. 303; p. 318).
[28] A quest’ultimo Innocenzo VII confermò la cittadinanza, mentre Martino V lo nominò archiatra pontificio nel 1417. Anche Eugenio IV gli rinnovò tale incarico nel 1433 (Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 66-67; Simonsohn, op. cit., doc., 560. Su Elia di Sabbato, si veda anche, ivi, doc. 563, 587, 634, 699). Anche a Elia veniva ridotta la quota per il finanziamento dei giochi di Agone e Testaccio (Vogelstein, H.-Riger, P., op. cit., I, p. 320; Roth, C., op. cit., p.158).
[29] Milano, A., op. cit., pp. 48-49 e p. 130; Roth, C., op. cit., p. 158; Simonsohn, S., op. cit., doc. 596, 601, 614, 639, 658, 670.
[30] Simonsohn, S., op. cit., doc. 719, 740, 745; Id., History , pp. 33-34; cfr. Vogelstein, H. –Rieger, P., op. cit., II, pp. 11-12; Milano, A., op. cit., pp. 49-50.
[31] Simonsohn, S., op. cit., doc. 765; Berliner, A., op. cit., II, p. 73; Milano, A., op. cit., p. 51; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit. , II, pp. 13-14; Roth, C., op. cit., p. 165.
[32] L’inizio del pontificato di Callisto III fu contrassegnato da un incidente su cui si soffermano vari storici: secondo la consuetudine introdotta, all’inizio del XV secolo, da Gregorio XII, i rappresentanti della comunità romana non solo presentavano, ma anche donavano il rotolo della Torah riccamente rivestito ad ogni nuovo papa che si insediava al Laterano: quando fu la volta di Callisto III, i preziosi ornamenti della Torah che gli veniva offerta risvegliarono la cupidigia del popolino, provocando un violento tafferuglio (Berliner, A., op. cit., p. 75; Milano, A. Storia degli ebrei in Italia, cit., p. 150; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, pp. 15-16; Simonsohn, S., op. cit., doc. 837).
[33] Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 52; Vogelstein, H. –Rieger, P., op. cit., II, pp. 16-17; Roth, C., op. cit., pp. 386-387; Simonsohn, S., op. cit., doc. 926.
[34] Simonsohn,S., op. cit., doc. 946, 948, 952, 1013, 1015.
[35] Sull’atteggiamento tenuto da Sisto IV rispetto a Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia e all’Inquisizione in Spagna si veda Simonsohn, S., op. cit., doc. 1000, 1019, 1021, 1038, 1040, 1048. Per l’intervento di Sisto IV presso il re Ferdinando I di Napoli per promuovere una campagna contro il Talmud nel 1478 si veda ivi, doc. 998. Per il processo di Trento, avvenuto sotto il pontificato di Sisto IV, si veda la voce “Trento” della presente opera. Sull’accoglienza dei profughi spagnoli a R., si veda Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 53. Sisto IV, come la maggior parte dei pontefici dell’epoca, si giovò delle cure di un medico ebreo (Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, p. 19).
[36] Simonsohn, S., op. cit., doc. 1139; Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 55-56; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II,pp. 24-26. Quanto ai rapporti personali con gli ebrei, Alessandro VI ebbe come medico Bonet de Lattes e concesse ampi privilegi al medico romano Samuele Sarfati e famiglia, confermati , poi, da Giulio II e da Clemente VII (Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, p. 25; Simonsohn, S., op. cit., doc. 1170, 1256, 1313, 1513).
[37] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 57-58; Vogelstein, H.- Rieger, P., op. cit., II, p. 83; Simonsohn, S., op. cit., doc. 1238, 1292. Il privilegio ai feneratori sarebbe stato riconfermato, nel 1534, da Clemente VII (Ivi, doc. 1656).
[38] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 58-59; cfr. Vogelstein, H. –Rieger, P., op. cit., II, p. 47 e segg.
[39] Sotto il pontificato di Paolo III venne, inoltre, convocato il concilio di Trento (1542) che iniziò le proprie sessioni tre anni dopo, prosendo per lungo tempo.
[40] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 62-63; Simonsohn, S., op. cit., docc. 1792, 1939, 1983, 2119, 2121.
[41] Vogelsein, H.-Rieger, P.,op. cit., II, pp. 145-146; Simonsohn,S., op. cit., doc. 3165, 3215, 3226, 3235, 3244; Id., History, p. 341; Zunz, L., Die synagogale Poesie des Mittelalters, Frankfurt a. M. 1920, pp. 335-336. Per le ulteriori vicende della comunità romana in connessione con il pagamento della tassa per il mantenimento della Casa dei Catecumeni e per la tassa per mantenere tale Francesco Massarano, convertito, e altri tributi imposti agli Ebrei romani, si veda Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 133-138.
[42] I principali articoli della bolla, oltre all’istituzione del ghetto, al segno e al divieto di personale cristiano, già emessi in passato, trattavano di limitazioni, come il divieto di possedere immobili, cui de facto se non de jure si erano sottratti in passato gli ebrei romani, e di serie di ulteriori restrizioni come il divieto di commerciare in generi commestibili di prima necessità e svariate altre. Si veda Milano, A.. Ricerche sulle condizioni economiche degli Ebrei a Roma durante la clausura nel Ghetto (1555-1848), in RMI V( 1930-31), pp. 449-450; Id., Il ghetto di Roma, pp. 71-74.
[43] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 75-76; Bullarum collactio IV, Parte II, pp. 105-107, cit. in ivi, p. 125, n. 6; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, pp. 161-163.
[44] Bullarum collactio, IV, parte II, pp. 286-287; parte III, pp. 57-59, cit. in Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 125, n. 7.
[45] Ivi, pp. 78-79; Vogelstein, H.,-Rieger, P., op.cit., II, pp. 169-175.
[46] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 79-80.
[47] Clemente VIII colpì economicamente gli Ebrei, vietò loro ogni rapporto con i neofiti e l’ingresso nelle case cristiane (salvo quelle di giudici, notai o avvocati), nonché l’impiego di servitù cristiana. Inoltre, vietò alla popolazione cristiana di entrare nelle sinagoghe e, dopo il tramonto, nelle case del ghetto, secondo il principio di limitare al massimo i rapporti sociali ebraico-cristiani. Per questi e ulteriori divieti concernenti i rapporti ebraico-cristiani,si veda ivi, pp. 82- 83.
[48] Ivi, pp. 82-84; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit.,II, pp. 183-186; pp. 189-194; Stern, M., Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, I, p. 176. A partire dall’inizio del secolo XVII sono attestate a R. le giudiate, farse popolaresche che prendevano in giro gli ebrei, rappresentate durante il Carnevale. Nonostante l’opposizione della comunità ebraica ed i divieti delle autorità, le giudiate continuarono ad essere molto in voga presso il pubblico cristiano ancora nel 1871 (Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 322-327).
[49] Per ulteriori particolari si veda Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 86.
[50] I reati di natura penale tra ebrei e tra ebrei e cristiani erano sottoposti al giudizio del governatore generale, le vertenze finanziarie erano sottoposte al giudizio della Camera Apostolica, le cause civili tra ebrei e cristiani erano, invece, suscettibili di essere sottoposte ai tribunali ecclesiastici o civili (sebbene, de facto, la Chiesa tendesse a sostituirsi a questi ultimi), mentre le cause di natura amministrativa e di diritto familiare tra ebrei rimanevano di competenza dei tribunali rabbinici (Ivi, p. 87). Un esempio della differenza tra la teoria giuridica e la sua applicazione all’epoca è dato dalla normativa sui debiti, che, nel 1621, sanciva eguaglianza di trattamento tra debitori ebrei e cristiani (in quanto sottoposti, come cittadini romani, allo stesso diritto civile romano), ma, nel 1635, complice la difficile situazione economica dei creditori cristiani, veniva sottoposta a revisione - a tutto sfavore degli ebrei - da Urbano VIII (Ivi, p. 88; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, pp. 198-199; p. 204).
[51] Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 89.
[52] Ivi, p. 91.
[53] Ivi, p. 92.
[54] Ivi, p. 93; pp. 319-322.
[55] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II,pp. 227-228.
[56] Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 103.
[57] Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, p. 237.
[58] Tra le altre proibizioni, vi fu quella di stampa e possesso di qualsiasi libro senza previa autorizzazione del S.Uffizio; la proibizione di occuparsi di scienze occulte e la pratica di arti magiche; la costruzione di nuove sinagoghe e il restauro delle vecchie; la proibizione di avere qualsiasi contatto coi convertiti e di tentare di dissuadere un Ebreo dalla conversione; la proibizione di rivendere ai cristiani cibi destinati al consumo ebraico e di comprare dai cristiani libri e oggetti di culto cristiano. Veniva proibito agli Ebrei di ricevere prestazioni d’opera da balie e servitori cristiani; di avere rapporti sociali coi cristiani ; di pernottare fuori del ghetto, salvo che per andare alle fiere, previe relative autorizzazioni. Inoltre, i rabbini stessi vennero ritenuti direttamente responsabili della presenza del numero stabilito di Ebrei alle prediche conversionistiche (ivi, pp. 107-108; cfr. Vogelstein-Rieger, op. cit., II, p. 251).
[59] Milano, Il ghetto di Roma, pp. 108-109; Vogelstein-Rieger, op. cit., II, pp. 252-254.
[60] Milano, Il ghetto di Roma, p. 110. Per ulteriori particolari sull’episodio, si veda Sereni, E., L’assedio del ghetto di Roma nel 1793 nelle memorie di un contemporaneo, in RMI X (1935-36), pp. 100-125.
[61] Milano, Il ghetto di Roma, pp. 111-114.
[62] Gli Ebrei furono nuovamente sottoposti alla giurisdizione del cardinale vicario e fu loro interdetto l’ingresso a ogni carica statale o civica; fu loro preclusa la carriera universitaria; venne intimata la vendita entro cinque anni delle proprietà immobiliari acquistate di recente; fu sollecitato il pagamento delle tasse per il Carnevale e furono nuovamente sottoposti al tribunale dell’Inquisizione. Oppressa dai debiti e incalzata dai creditori ( tra cui le pie istituzioni cristiane), la comunità ebraica era sull’orlo della bancarotta (Milano, Il ghetto di Roma, pp. 114-115).
[63] Fu applicato nuovamente il divieto agli ebrei di impiegare personale cristiano e ripresero le prediche forzate; fu rimesso, inoltre, in vigore l’Editto sopra gli Ebrei del 1775. Ai venditori ambulanti non venne concesso di fermarsi fuori R. per esercitarvi I loro commerci (ivi, p. 115).
[64] Ivi, p. 116.
[65] Ivi, pp. 114-117; Vogelstein-Rieger, op. cit., II, p. 364.
[66] Pio IX abolì sia l’omaggio dell’Università ebraica a Carnevale che le prediche forzate e concesse a svariati ebrei di abitare fuori dal ghetto, in particolare dopo un pernicioso straripamento del Tevere. Milano, Il ghetto di Roma, p. 119.
[67] Ivi, pp. 119-120.
[68] In effetti, solo tre famiglie vivevano, nel 1862, fuori del ghetto. Agli ebrei veniva negato l’accesso agli ospedali pubblici e la fruizione della pubblica beneficenza, mentre rimanevano i balzelli per la Casa dei Catecumeni e il Monastero delle convertite.L’Università, come ente, era sottoposta alla giurisdizione del S. Uffizio, mentre i privati a quella (inappellabile) del cardinal vicario; esclusi dalla scuola pubblica, gli ebrei potevano studiare all’Università solo medicina, a patto di curare solo correligionari (ivi, pp. 121-122).
[69] Ivi, pp. 175-183; per il testo integrale dei Capitoli formulati dal da Pisa, si veda Milano, A., I ‘Capitoli’ di Daniel da Pisa e la comunità di Roma, in RMI, X (1935-36), pp. 324-338; 409-426. Per il documento in cui Clemente VII conferma gli statuti di Daniele, si veda Simonsohn, S., op. cit., doc. 1327.
[70] Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 131; pp. 139-142. Per ulteriori particolari relativi ai sistemi di tassazione della comunità romana e per le sue finanze, si veda ivi, pp. 143-152. Per le informazioni relative all’intrusione di Clemente VIII (1592-1605) e dei papi successivi nella vita interna della comunità romana, complice la difficile situazione economica che era venuta a crearsi, si veda ivi, p. 85 e segg. e p. 125, n.16.
[71] Ivi, pp. 332-344.
[72] Ivi, pp. 92-94; pp. 102-105. A proposito di Clemente IX va ricordato che, quando era ancora cardinale, aveva scagionato gli ebrei dall’accusa di omicidio rituale in una serie di casi, salvo il “famoso” omicidio rituale di Trento e quello che sarebbe stato perpetrato a Rinnense (villaggio della diocesi di Bressanone) nel 1462 (Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 104-5. Roth, C. ( a cura di), Il Rapporto del Cardinale Lorenzo Ganganelli sul preteso omicidio rituale degli Ebrei, in RMI IX (1934-35), pp. 483-510).
[73] Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 241-249; per ulteriori informazioni sulle confraternite minori, si veda ivi, pp. 250-255.
[74] Roth, C., op. cit., pp. 23-24.
[75] Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, cit., pp. 80-81; pp.119-122; Vogelstein, H.- Rieger, P., op. cit., I, pp. 239-40; p. 257; p, 274. Per ulteriori particolari sull’attività creditizia degli ebrei romani verso la fine del XIII secolo, si veda Toaff, A. Gli ebrei romani e il commercio del denaro nei comuni dell’Italia centrale alla fine del Duecento, in Italia JudaicaII, Roma 1983, pp. 183-196.
[76] Vedi supra, “Profilo storico”.
[77] Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 72; p. 76; p. 78; pp. 80-81; pp. 93-94; Simonsohn, S., op. cit., doc. 1292. Nel XVII secolo i proprietari di banco più ricchi di R. erano i Toscano, di origine fiorentina: su di loro si veda Milano, A., Il ghetto di Roma, pp. 345-368.
[78] Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, p. 244; Rodocanachi, E., La communauté juive à Rome au temps de Jules II et de Léon X, p. 80; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, pp. 321-322.
[79] Milano, Il ghetto di Roma, p. 74, p. 77, p. 79, p. 82, p. 84; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, p. 181.
[80] Milano, Il ghetto di Roma, p. 78, p. 84, p. 93, p. 99.
[81] Ivi, pp. 89-90; pp. 95-96.
[82] Ivi, pp. 100-101.
[83] Ivi, p. 105; p. 110. Per i dettagli sul giro di affari durante il biennio 1798-1800 (Repubblica Romana), comprendenti le forniture militari all’esercito francese e l’acquisto dei beni ecclesiatici venduti dal governo rivoluzionario, si veda ivi, pp. 409-412.
[84] Ivi, p. 114 e segg.
[85] Il divieto per i medici ebrei di curare pazienti cristiani fu abrogato da Martino V, venendo poi ripristinato da Paolo IV. Seguì un alternarsi di divieti e permessi di curare pazienti cristiani e preparare loro medicinali (Milano, A., Il ghetto di Roma, p. 72 e segg.; Roth, C., op. cit., p. 158). Per un elenco dei medici ebrei dal XV secolo in poi, si veda Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, p. 111 e segg.
[86] Milano, A., op. cit., p. 15; cfr. Roth, C., op. cit., p. 23.
[87] Milano, A., op. cit., pp. 31-32.
[88] Beniamino da Tudela riferisce solo che vivevano a R. circa 200 ebrei (Beniamino da Tudela, op. cit., p. 5; originale ebraico, ivi, p. 6).
[89] Milano, A., op. cit., p. 80; p. 92; p. 97; p. 105; p. 114; p. 121.
[90] Milano, A. op. cit. , pp. 187-189.
[91] Milano, A., op. cit., pp. 190-199.
[92] A titolo di esempio, si veda Milano, A., op. cit.,pp. 200-205.
[93] Ivi, p. 210; Roth, C., op. cit., pp. 24-25.
[94] Per i particolari relativi a Natan di Yehiel, si veda il paragrafo “Dotti, rabbini, personaggi famosi”.
[95] Non è del tutto chiaro se si trattasse di due sinagoghe o di un’unica, menzionata sotto i due nomi (Milano, A., op. cit., pp. 213-214).
[96] Per questi e ulteriori particolari, si veda Milano, A., op. cit.,pp. 212-218; per le trasformazioni architettoniche di tali scole, si vedano le pp. 218-220.
[97] Milano, A., op. cit., pp. 260-263.
[98] Berliner, A. op. cit., p. 31; Milano, Storia degli ebrei in Italia, p. 32; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., I, pp. 110-112. Prima che venisse a R. il dotto Mattatyah capeggiava la comunità romana il rabbino Theudas, cui si attribuisce l’usanza adottata dagli ebrei romani di mangiare durante il Seder pasquale l’agnello arrosto in ricordo dell’agnello sacrificato a Gerusalemme e l’uso di versare alle scuole locali l’obolo che non poteva più essere inviato in Palestina (Milano, A., ibidem).
[99] Bernfeld, S., EJ., sotto la voce “Ibn Esra, Abraham ben Meir”; Cassuto, U. , E.J., sotto la voce “Kalonymos ben Sabbatai”; “Anau”; “Anau, Benjamin ben Abraham”; “Anau, Jechiel ben Jekutiel”; “Anau, Zidkija ben Abraham”; Beniamino da Tudela, op. cit., p. 5; originale ebraico, p. 6; Milano, A., op. cit., pp. 34-35; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit.,I, p. 220.
[100] Milano, A. Storia degli ebrei in Italia, p. 627; pp. 653-654; pp. 649-651; Cassuto, U., EJ, s.v. “Immanuel , ben Salomo ben Jekutiel ha-Romi”; Id./Ed., JE, sotto la voce“Gracian (hen), Zerahiah ben Isaac ben Shealtiel”; Sermoneta, J.S., JE, sotto la voce. “Hillel, ben Samuel”.
[101] Per Mosè da Rieti e per molti dei medici eruditi che furono a R. tra XV e XVI secolo, si veda Milano, A., op. cit., pp. 67-70.
[102] Vogelstein, H.,-Rieger, P, op. cit., II, p. 119.
[103] Ivi, pp. 70-71.
[104] Ivi, pp. 59-60.
[105] Milano, A., op. cit., pp. 389-394; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., pp. 278-281.
[106] Dopo che R. divenne capitale d’Italia, l’Alatri divenne dirigente del Monte di Pietà e fu eletto consigliere comunale e deputato al parlamento italiano (Berliner, A., op. cit., pp. 209-212; Milano, A., op. cit., pp. 394-395; Vogelstein, H,-Rieger, P., op. cit., p. 356; p. 359; pp. 400-401).
[107] Per l’elenco completo degli incunaboli in questione e per i particolari relativi, si veda Freimann, A., Die hebraischen Drucke in Rom im 16, Jahrhundert, p. 53; Friedberg, H.D., Toledot ha-Defus ha-Ivri be-Italyah, pp. 1-3; Pavoncello, N., La tipografia ebraica a Roma, pp. 369-374.
[108] Freimann, A., op. cit., p. 57-59; Friedberg, H.D., op. cit., p. 4 ; Piattelli, op. cit., pp. 375-376.
[109] Freimann, A. op. cit., pp. 54-55.
[110] Ivi,pp. 56-57.
[111] Freimann, A., op. cit., pp. 60-67; cfr. Friedberg, H.D., op. cit.,pp. 4-6; Vogelstein, H.-Rieger, P., op. cit., II, p. 116. Per l’elenco delle opere stampate a R. dal 1518 al 1581, si veda Pavoncello, N., op. cit., pp. 375-376; per le opere stampate dalla Propaganda Fide, si veda Morpurgo, E., Raccolta Morpurgo, Catalogo generale, 1913, p. XXI, cit. in ivi, p. 375, n. 20.