Benevento

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Benevento (ביניבינטו, בינווינטו )

B. è situata sopra un colle presso la confluenza del fiume Sabato con il Calore, in una conca chiusa dai massicci del Matese, del Taburno e dell’Avella. I romani ne cambiarono l’antico nome  Maluentum in  Beneventum nel 268 a. C., quando vi dedussero una colonia. Nell’86 a. C. divenne municipio. Fu occupata nel 490 dai Goti, riconquistata da Belisario nel 535-36, saccheggiata da Totila nel 545. Nel 570 giunsero i longobardi, che con Zottone (590-94) costituirono il ducato che da B., suo capoluogo, prese nome. Arechi II (758-74), primo principe di B., portò la città al suo massimo splendore; nell’839 il principato si suddivise nei due principati  di Benevento e di Salerno. La città fu sede vescovile già nel secolo IV –V.

Nel 1053 l’imperatore Enrico III tolse ai principi Pandolfo III e Landolfo VI, a lui ribelli, la città di B. e la donò alla Santa Sede. Landolfo VI riuscì a riprendersela, ma quando nel 1077 morì, senza lasciare eredi diretti, essa passò definitivamente alla Chiesa, che l’amministrò per mezzo di rettori e ne difese sempre il possesso dalle rivendicazioni dei re di Napoli, per cederlo solo con l’annessione del Mezzogiorno da parte dei piemontesi nel 1860[1].

 

Quando Benevento passò alla Chiesa, la città ospitava una comunità ebraica dalle radici secolari e in pieno rigoglio. Tracce dell’antica presenza potrebbero essere due epigrafi latine databili al sec. V, dedicate a un Acholitus senior e a un Faustinus senior[2]. Infatti, senior sembra essere l’equivalente del titolo, abituale fra i giudei, di presbyteros e indicare quindi una funzione comunitaria (Cod. Iust.  XVI 8, 2). Quanto al nome Faustinus, esso era assai diffuso nei secoli V-VI presso alcune famiglie di notabili ebrei di Venosa.

A metà del IX secolo la comunità era ormai ampiamente attestata: verso l’850 essa accolse il celebre maestro di misteri Abu Aron di Bagdad, che, da Gaeta, dove era sbarcato, si stava recando in Puglia. Ebrei di Oria venivano nello stesso periodo a B. per affari, come i fratelli Shefatiah ed Eleazar b. Amittai. Oltre un secolo dopo (ca. 985), Hananel, figlio dell’oritano Paltiel, lasciò l’Africa, dove era stato deportato dai musulmani nel 925 e il congiunto Paltiel da schiavo era divenuto gran dignitario, e si stabilì qui, sposandovi  Ester, figlia di Shabbetai, suo lontano parente. Dal matrimonio nacquero quattro figli: Shemuel, Shabbetai, Papoleon e Hasadiah: il primogenito si trasferì a Capua, Shabbetai e Papoleon ad Amalfi e Hasadiah in Africa, presso il cugino Paltiel[3].

Gli stretti rapporti degli ebrei pugliesi e campani con B. erano favoriti dalla felice posizione della città,  in cui l’Appia Antica si biforcava nella Traiana e incrociava le strade provenienti dal mar Tirreno e dal Sannio. Nell’VIII secolo, inoltre, la città aveva vissuto con Arechi II una splendida stagione culturale, che non dovette lasciare indifferenti i giudei. Un tale ambiente e opere come la  Historia romana  di Paolo Diacono (756-774) e la  Historia  Longobardorum  dello stesso autore, fanno ritenere probabile l’attribuzione alla nostra comunità del Sefer Yosefon, il capolavoro della storiografia ebraica medievale  composto nel X secolo.

La serena convivenza di cristiani ed ebrei non poteva non allarmare la Chiesa, che cercò di porvi riparo. Un concilio tenuto in Campania nella prima metà del secolo IX, aveva esplicitamente vietato di giudaizzare, sostituendo la domenica con il sabato[4]. Questo concilio, sotto pena di scomunica, aveva anche proibito alle autorità di costituire i giudei giudici o esattori dei cristiani e a questi, sia ecclesiastici sia laici, d’essere ospiti  alla mensa  dei giudei o di invitarli alla propria. Con ogni sollecitudine, infine, i cristiani dovevano custodire le loro donne, a causa dei diffusi rapporti sessuali che si erano stabiliti tra le cristiane e i giudei.

Una  rottura violenta di questa convivenza si registrò con Landolfo VI, che si era riappropriato di B. nel 1054. Il principe aveva avviato un’intensa campagna di conversione violenta dei giudei al cristianesimo, ma i perseguitati ricorsero a papa Alessandro II (1061-1073). Il pontefice rimproverò Landolfo per il suo zelo disordinato e gli ricordò che Gesù Cristo non si era fatti discepoli con la violenza, ma con l’umile esortazione, lasciando  ciascuno libero di decidere secondo il proprio arbitrio[5].

Dopo questo intervento, gli ebrei locali non avrebbero più avuto a che fare con principi secolari, se non saltuariamente e per periodi non lunghi, ma con la Santa Sede, perché, come si è detto, alla morte di Landolfo VI  (1077) il papa prese definitivamente possesso della città e, con essa, dei suoi ebrei. E il primo atto del governo pontificio nei confronti di questi ultimi, fu di assicurarsi la tassa sulle loro tintorie (tincta Iudeorum), un reddito fino ad allora appartenuto all’erario privato del principe[6].

La consistenza della comunità nella seconda metà del XII secolo ci è nota dal Sefer massa‘ot   (“Libro di viaggi”) di Beniamino da Tudela. Il celebre viaggiatore spagnolo, che iniziò la sua peregrinazione tra il 1159 e il 1167, registrò la presenza di circa duecento ebrei, a capo dei quali vi erano rabbi Qalonimos, rabbi Zerah e rabbi Abraham[7]. Quasi contemporanee di Beniamino da Tudela sono due epigrafi sepolcrali in lingua ebraica. La prima, datata 1 Shevat 4913 (29 dicembre 1152), è dedicata a uno Shemu’el  b. Isaq, mentre la seconda, datata  21 Kislev 4914 (= 9 dicembre 1153), ricorda un Iaqob b. rabbi Hizqiyyah il Maestro[8].

La prima lapide fu rinvenuta nel fondo detto Creta  rossa  o  Masseria  Saberini, e ciò fa supporre che in quell’area si trovasse il cimitero degli ebrei. La località è sita lungo il corso del torrente San Nicola, a poco più di due chilometri dalla sua confluenza nel Calore. A un miglio circa dall’area sepolcrale, nella sezione nord-orientale della città, c’era la Giudecca. Il suo sito è perfettamente localizzabile sulla base dell’Obituarium Sancti Spiritus, iniziato nel 1198, che registra tre chiese denominate dal quartiere ebraico, nei cui pressi o al cui interno esse sorgevano: S. Nazarius a Judeca, S. Stephanus de Judeca, S. Januarius de Judeca. La prima delle tre chiese si ergeva sull’area dell’attuale Piano di Corte, poco lontano dalla chiesa S. Iohannis de Porta Summa, detta anche de conciatoribus.  La seconda si trovava nelle vicinanze della via che oggi s’intitola a Bartolomeo Camerario e si chiamava anche  S. Stephanus in plano Curie.  La terza, infine, esistente già nel 1126, si trovava nel cortiglio dei Terosii, presso Porta Somma. Gli ebrei abitavano, dunque,  la parte alta della città, fra l’attuale Piano di Corte e il complesso di Santa Sofia[9].

Dalla seconda metà del XII secolo alla fine del XIII le fonti disponibili sono mute sugli ebrei di B.. Nel 1291, comunque, erano di spettanza della Curia pontificia della città «i pedaggi degli ebrei, dei cavalli e degli altri animali e delle merci» e inoltre, per ogni ebreo forestiero che entrasse in città, era stabilita un’esazione pro capite di dodici ducati e mezzo. Nell’ottobre dello stesso anno, poi, i giudei Sabatello e Daniele, come sindaci e procuratori della propria comunità, dichiararono di dovere ogni anno alla Chiesa Romana, e per essa alla Curia di B., due once d’oro pro aromatibus. In più, avendo la stessa Chiesa dato in appalto il diritto di tintoria al giudeo Alianello, questi s’impegnò al pagamento annuale di nove fiorini d’oro[10].

Gli ultimi decenni del XIII secolo, come è noto, furono testimoni nel regno di Napoli della tenace campagna di proselitismo di Carlo II d’Angiò (1285-1309). È probabile che anche a B. ci siano stati passaggi al cristianesimo, come attesta la denominazione di S. Stefano de Neophitis  con cui si trova menzionata in antiche carte  la chiesa già nota come  S. Stefano de Iudeca[11].

Le conversioni ottenute dagli Angioini in genere non furono sincere. Molti cristiani novelli conservarono nel segreto familiare la fede e il culto dei padri: altri sfidarono apertamente l’aggressività degli inquisitori e tornarono a professare pubblicamente la fede mosaica, protetti, in questo ritorno e nella ricostruzione delle comunità, dagli stessi sovrani angioini succeduti a Carlo II. Dinanzi  all’insuccesso, la chiesa beneventana stimò più dignitoso vietare l’uso della forza al fine di portare al battesimo i giudei e i seguaci di altre fedi. In un concilio tenuto nella città nel 1374 sotto la presidenza dell’arcivescovo Ugo Guitardi fu quindi stabilito: «Nessuno costringa tartari, slavi, o giudei o pagani ad accettare il battesimo»[12].

La comunità ebraica risorse e partecipò, nella prima metà del XIV secolo, ai travagli che funestarono la città nel corso del conflitto angioino-aragonese. Alfonso d’Aragona, dopo la morte di Giovanna II nel 1435, occupò con la forza il Regno e cinque anni dopo anche B. La Santa Sede non reagì, ma nominò semplicemente Alfonso vicario apostolico a vita della città. Nel 1452 Alfonso confermò anche agli ebrei locali i privilegi che permettevano ai correligionari del Regno il prestito a interesse[13]. Il dato è importante perché mostra come gli israeliti beneventani si occupassero ormai prevalentemente di commercio e di prestito. Un documento del 1471 ricorda come prestatori in città da lunga data Guglielmo de Emmanuele, Salomone de Vitale, Sabato de Bonohomine, Servidio e Vitale del defunto Mosè[14]. Un residuo interesse per la tintoria si può scorgere in un documento che registra nel 1484 tra i beni della Camera Apostolica un vano, adibito a tale scopo, posseduto da un cristiano novello di nome Consolato[15].

Nel 1458 B. ritornò sotto diretto controllo pontificio e l’anno seguente il papa, Pio II, confermò alla città tutti i diritti e privilegi di cui aveva fino ad allora goduto. In aggiunta, il pontefice concesse anche la potestà di imporre ai giudei che vi abitavano un segno che permettesse di distinguerli più facilmente dai cristiani. Si ignora il motivo per cui egli inserì tra i diritti dei beneventani anche quello del contrassegno per i giudei. È probabile che egli abbia voluto sia ribadire i confini tra cristiani e giudei, confini che nella familiarità quotidiana si erano dissolti, sia lanciare un avvertimento ai giudei della città appena recuperata, ai quali la sovranità aragonese non era forse dispiaciuta, viste la benevolenza e il favore con cui Alfonso il Magnanimo trattava i giudei.

In realtà, non sembra che le autorità beneventane si siano servite della facoltà. La restaurazione del governo pontificio fece però sentire che qualcosa era mutato nell’atteggiamento ufficiale verso i giudei, e ciò incise anche nei rapporti tra questi e la città. Nel breve con cui nel 1469 Paolo II conferì per un anno all’arcivescovo Corrado Capece il governo temporale, il papa ordinò al presule di non accordare da quel momento agli ebrei nessun favore o concessione o remissione, come avevano invece fatto in passato i suoi predecessori[16]. Interpretando in maniera severa le disposizioni ricevute, l’arcivescovo annullò la convenzione che la città aveva fatto con alcuni giudei per l’esercizio di un banco di prestito e li costrinse con minacce a sottoscrivere certi patti e convenzioni, che erano contrari ai capitoli che essi avevano precedentemente stabilito con i priori e che erano stati confermati dai legati apostolici. Paolo II accolse il ricorso degli ebrei e scrisse al Capece di essere fortemente stupito che fossero accadute tali cose, dopo che gli aveva ordinato di non permettere che gli ebrei fossero ingiustamente molestati, perché la santa Chiesa Romana tollera i giudei e non ci torna ad onore che nelle nostre città subiscano violenza o ingiuria. Gli ordinò, quindi, di annullare le convenzioni e i patti che gli ebrei, spinti dal timore, avevano concluso e impose che venissero restituiti le scritture e i beni che fossero stati loro tolti[17].

Gli ebrei, tuttavia, per timore dell’arcivescovo non ardirono riaprire il banco, aspettando una più stabile garanzia da parte della città. E difatti i consoli, considerando che essi nel passato erano venuti in soccorso della città gratis et amore e che per l’avvenire si mostravano disposti ad essere parimenti liberali, e dovendo dare esecuzione al breve di Paolo II, il 18 giugno 1471 confermarono i capitoli altre volte fatti, impegnandosi a osservarli fedelmente e integralmente. Nel 1477, al termine di torbidi che avevano travagliato la città, che si era divisa in due fazioni,  il governatore pontificio Battista dei Giudici, vescovo di Ventimiglia, dopo matura considerazione e deliberazione, ordinò l’osservanza dei capitoli e proibì che si prendesse occasione da essi per fare ingiurie o  molestie ai giudei[18].

È da notare che questi operavano anche fuori della loro città. Nel 1478 Angelo (de Salomone) de B. era prestatore a Napoli e il suo banco era definito dalla Gran Corte della Vicaria securo et fido et tuto[19]. Persona assai influente, egli ottenne nel 1486 la restituzione degli oggetti di valore che aveva trasferito, per tumulti scoppiati nella città pontificia, a Montesarchio presso un nipote di nome Salvidio e che il locale capitano aveva sequestrato[20].

Nei secoli XV-XVI la comunità ebraica beneventana era vivacizzata anche da interessi culturali. Nel 1484-85 Shemu’el b. Shlomoh Atortos vi copiò  un  commento all’Etica di Aristotele. L’amanuense - ma nel nostro caso anche in parte autore- mise per iscritto quanto aveva appreso dal suo maestro Baruk Isaq b. Ia‘is, noto per la sua traduzione della Metafisica di Aristotele fatta dalla versione latina di Guglielmo di Moerbeke, per un commento a un trattato medico di Avicenna (Cardiaca) e per altri lavori[21].

Nel 1492 Abba Mari Chalfon riprodusse a B. il compendio dell’Almagesto di Tolomeo. Nel 1497, infine, Shemu’el Pinhas copiò per Abraham di B. la traduzione ebraica anonima, forse eseguita su quella latina, del Commento Grande di Averroè al De Anima  di Aristotele[22].

Più copiosi dei manoscritti erano i libri a stampa, il cui commercio nel regno di Napoli per volontà sovrana era esente da tasse. I gabellieri tendevano però ad ignorare tale esenzione, e da qui infiniti ricorsi dei danneggiati presso la Camera della Sommaria. Nell’attesa della risposta, i libri potevano essere dissequestrati sotto cauzione. È ciò che fece il 30 settembre 1475 Angelo de Salamone di B., il quale si fece mallevadore del concittadino Vitale presso i doganieri di Gaudello (Aversa) per diversi libri rilegati e non rilegati spediti da Napoli e da loro sequestrati. Lo stesso Angelo vendette poi nel 1486 allo spagnolo Mosè Avennamyas tre libri a stampa in ebraico[23].

Passato nel 1503 il regno di Napoli sotto il dominio di Ferdinando il Cattolico e salito nello stesso anno sul soglio pontificio Giulio II, l’aria si fece nel Mezzogiorno per gli ebrei più pesante. A B., dove essi in forza di un precedente breve pontificio portavano le proprie cause e controversie dinanzi ai giudici secolari, il papa restituì nel 1504 la piena giurisdizione alla sede  episcopale. La sottomissione all’autorità vescovile sarebbe stata ribadita nel 1531, su richiesta del vescovo Francesco della Rovere a Clemente VII, e nel 1554 da Giulio III[24].

Pur ridotti sotto la stretta giurisdizione ecclesiastica, gli ebrei godevano di una tolleranza, che non era invece ammessa per i neofiti giudaizzanti. Due di essi, Cesare Capuano di Manfredonia e suo fratello Giovanni, artium et medicine doctor, furono rinchiusi nel castello per essere indagati, in vista di una loro pubblica e sincera professione di fede cristiana. Nel corso dell’inquisizione, Cesare Capuano riuscì ad evadere: mentre si procedeva nella sua abitazione al sequestro dei beni, si rinvennero pani azzimi e ceste di carne di castrato salata. La perquisizione si estese allora ad altre abitazioni di neofiti sospetti, i quali ben presto furono riconosciuti «eretici e nemici di Cristo nostro redentore». Il processo, secondo quanto registrò nel suo protocollo (1504-1507)  il notaio benventano Marinus de Maurellis, rivelò «molte e inaudite cose contro la legge di Cristo, e in particolare conto la sacra Eucarestia». L’eco della vicenda  giunse sino a Giulio II, che inviò in città come commissario speciale il suo prelato domestico Giovanni Ruffo di Forlì. Riaperto il processo e annullata la precedente sentenza che aveva inflitto pene miti, il Ruffo condannò i neofiti Francesco Fontanarosa e Benedetto da Gaeta al carcere perpetuo. Furono invece affidati al braccio secolare Matteo Fontanarosa, sua madre Dulcimbene, i tre fratelli Cesare, Teodorico e Giovanni Capuano - il primo già fuggiasco- e la loro madre Speranza. Con essi c’erano altri due relapsi, Giovanni de Sisto e Rosella, vedova di un Sansonetto da Lucera. Gli otto condannati furono condotti fuori della città, nei pressi della chiesa della Santa Croce, dove subirono sulla forca l’estremo supplizio. I loro corpi furono quindi  posti su legna resinosa e dati alle fiamme. Allo spettacolo, riferisce il devoto notaio, assistettero pressoché tutti i cittadini d’entrambi i sessi, sia nobili che popolari[25].

Nel novembre 1505 un’inquisizione pontificia riguardò anche gli ebrei di B., ma per una materia assai diversa, che però il papa, Giulio II, definì «perniciosa per lo stato e per tutta l’umana società», ossia la fabbricazione e lo spaccio di moneta falsa[26]. Non sappiamo cosa appurò l’indagine. Nel 1544, tuttavia, alcuni israeliti locali, in complicità questa volta con cristiani, furono di nuovo accusati dello stesso crimine. Il vicario episcopale iniziò le indagini e incarcerò alcuni sospetti. Ma la materia era troppo importante e il papa, Paolo III, avocò a sé la causa e incaricò, l’8 maggio, Bartolomeo Capobianco, vescovo di Lettere e collettore delle entrate pontificie nel regno di Napoli, di proseguire le indagini e di castigare severamente i rei, suggerendogli comunque di arrivare ad una composizione in denaro, da riscuotere a nome della Camera Apostolica. In una seconda lettera inviata al Capobianco il 7 giugno, il papa gli ordinò di non procedere contro i giudei, che sappiamo ora rispondere ai nomi di Isacco Usiglio e dei suoi figli Raffaele e Vitale, essendo stati essi già indagati dal vicario episcopale della città. Tutti e tre avevano patteggiato con il vicario una composizione pecunaria. La vicenda non sembra che abbia pregiudicato molto la famiglia Usiglio, perché nel 1552 Isac Usiglio, i figli Raffaele e Vitale e il nipote Vito Anuba ebbero la licenza triennale  per un banco di prestito nella città[27].

Esaminando più da vicino i numerosi interventi della Santa Sede nella vita della comunità ebraica di B. fino al 1555, è notevole che dopo l’intervento del 1459, con cui Pio II dava facoltà di imporre ai giudei il contrassegno, non si conoscano altri interventi pontifici che interessino direttamente l’aspetto religioso della vita ebraica, se si eccettua quello di Paolo III nel 1547 con cui vietava ai giudei di vendere nei macelli carne ai cristiani e imponeva loro di avere un proprio macello distinto da quello dei cristiani. Gli interventi pontifici riguardarono per lo più licenze per i banchi di prestito, che numerosi furono aperti nella città dopo l’espulsione dei giudei dal regno di Napoli nel 1541, e materie fiscali. Alcuni ebbero per oggetto medici. Nel 1507 Giulio II riconobbe a Leone Toledano e alla sua famiglia il diritto di fruire di tutte le grazie e i privilegi concessi agli ebrei di B.. Il medico aveva fissato da quattordici anni il suo domicilio nella città e vi aveva  anche esercitato per un certo tempo la sua arte con pubblico salario. Nel 1548 Paolo III concesse al beneventano Raffaele, figlio del chirurgo Mosè di Sora, che si era laureato a Padova in filosofia e medicina, la facoltà di curare sia ebrei che cristiani e di  fregiarsi delle insegne proprie dei medici laureati[28].

Le licenze, o tolleranze, per prestare a interesse, limitate sempre a un periodo di due, di tre o di cinque anni, furono concesse nel 1543 sia a Rafael Jaier (Yayr) e a sua suocera Sara, sia ai fratelli Mosè e Abramo Mansanello; nel 1546 alla compagnia composta da Rafael, Emanuele, Isaia e Abramo Yayr, Mosè Finzi e Iosef Sacerdote; nel 1548 a Emanuele  Yayer (Yayr); nel 1549 a Sara, figlia di Leo, e a sua figlia Benedetta,  vedova di Rafael Yajer (Yayr). La famiglia Yayr era a metà del XVI secolo una delle più eminenti della B. ebraica: nel 1551 era attestata una «sinagoga di Madama Sara», in cui Mosè Yayr aveva radunato tutti i giudei della città per comminare una scomunica da parte dei  fattori  della comunità di Roma[29]. Un breve di Giulio III del 4 marzo 1552 esentò i fratelli Mosè e Abramo Iayr di Ancona ed Emanuele, Isacco e Salomone Iayr di B. da qualsiasi giurisdizione ecclesiastica e civile cittadina e li sottopose alla sola giurisdizione del locale arcivescovo.

Dove la Curia romana faceva sentire di più la propria presenza era nella riscossione della  vigesima, ossia la tassa ordinaria del cinque per cento sui beni mobili e immobili, e nell’esazione di altri contributi straordinari. La vigesima ammontò sino al 1549 a 55 scudi l’anno. Nel 1549 i giudei dei domini pontifici furono però accusati di pagare una cifra assai al di sotto di quella corrispondente alle ricchezze che possedevano. A quelli beneventani fu imputato di pagare una vigesima piuttosto esigua, mentre in realtà i loro beni superavano il valore di 30.000 scudi e grandi erano i lucri che essi traevano dal commercio e dal prestito a interesse. Un prima inchiesta fu ordinata da Paolo III nel 1549 e una seconda da Giulio III nel 1551; il risultato fu l’elevazione della tassa annua da 55 a 600 scudi. In compenso dei minori pagamenti fatti nel passato, gli ebrei beneventani furono obbligati a versare, divisa in tre rate, la somma di 3000 scudi. L’incarico per la raccolta del denaro fu conferito ad Angelo di Troia, Emanuele Yair, Abramo Manzanello e Isac Abina. Per mettere insieme la somma, fu concesso nel 1552 agli ebrei di accettare grano in pagamento dei debiti e di rivenderlo, mentre due anni prima era stato fatto loro assoluto divieto di commerciare in frumento o altre granaglie, o di tenerne nelle abitazioni e nei magazzini in quantità superiore a quella necessaria alla loro alimentazione. Il completamento del pagamento dei 3000 ducati, avvenuto nel 1553, guadagnò agli ebrei beneventani il perdono generale delle trasgressioni commesse e la conferma delle grazie e dei privilegi[30]. Essi dovevano, però, contribuire anche alle tasse straordinarie che la Santa Sede imponeva di tanto in tanto. Così nel 1464 furono sottoposti ad un’altra igesima per finanziare la crociata contro i turchi proclamata da Pio II, a una speciale tassa nel 1542 per la difesa contro gli stessi turchi e nel 1546 al tributo per finanziare le guerre in Germania contro i protestanti[31].

Anche il Comune intratteneva rapporti finanziari con gli israeliti: tra quelli che prestarono al Comune ci furono  Azaria (1546),  Raffaele Yayr (1546), Bonaventura (1548), Madama Sara, Zaccaria Israel e Abramo Camillo (1549), Lazariano (1550), Raffaele Usiglio ed Emanuele Yayr (1550). Nel 1541 il Comune prese in mutuo da Mosè di Sora anche un cavallo per D. Garcia de Toledo, figlio del Viceré, venuto nella città. Ma la bestia, durante una rissa del Garcia con fuorusciti napoletani, fu ucciso, e le autorità s’impegnarono a pagarne il prezzo, 25 scudi d’oro, al proprietario[32].

L’editto Cum nimis absurdum  emanato da Paolo IV il 14 luglio 1555 avviò l’estinzione anche della comunità giudaica di B.. Gli ebrei furono ridotti in un sol luogo, o serraglio, e coartati nelle loro attività e industrie. Per parecchi l’unica soluzione sembrò quella del battesimo. Così Raffaele Usiglio, il ricco banchiere originario di Spagna, si fece cristiano. Il 2 agosto 1559 la nobile Eleonora Sanseverino informava i consoli che l’Usiglio era stato battezzato a Napoli con molte cerimonie et debite solemnitate ecclesiastiche. La moglie Perna e i figli, che il neofita sperava di portare alla nuova fede, abitavano ancora a B. e la nobildonna ne affidava ai consoli la protezione contro la reazione di eventuali invidi e malevoli[33]. Nello stesso anno i consoli ordinarono al tesoriere della città di consegnare a madonna Camilla hebrea, figlia di Gioel, cathecumina, carlini trenta per sovventione sua et elemosima. Ancora nel 1559 il cardinale Gioanmichele Saraceno, protettore della città, informava i consoli che un altro ebreo beneventano, di nome Alessandro, da essi raccomandato, era stato graziato dalla pena di morte per suo diretto intervento presso il Santo Padre e si era quindi sottoposto al battesimo, assumendo il suo nome. Il cardinale avrebbe fatto di tutto perché il neofita si recasse a Benevento per convertire anche la madre, ma tale andata, egli scrisse, doveva essere spontanea, non forzata[34].

Pio IV Medici (1559-65), mitigò alquanto le prescrizioni del suo predecessore Paolo IV, restituendo agli ebrei il diritto di acquistare e di possedere beni immobili, abolendo le limitazioni nel commercio e concedendo nuovamente l’esercizio del piccolo prestito. Ma passata la tiara sul capo di Pio V Ghislieri (1566-72), già grande inquisitore, tutto ritornò come prima. Nell’aprile del 1566 egli richiamò in vigore le disposizioni di Paolo IV del 1555 e nel gennaio del 1567 impose agli ebrei dei suoi domini di rivendere gli immobili che avevano acquistato grazie alla liberalità del suo predecessore.

L’arcivescovo di B. Giacomo Savelli non perse tempo e nello stesso anno nel sinodo diocesano sancì per i suoi ebrei drastiche disposizioni. Proibì loro di uscire dal luogo in cui erano stati concentrati, o serraglio,[35] nei tre giorni precedenti la Pasqua: se fossero stati scoperti al di fuori di esso, sarebbero stati puniti ad arbitrio dell’arcivescovo. Durante il triduo pasquale, le porte del  serraglio dovevano restare chiuse di giorno e di notte, affinché gli ebrei non potessero andare tra i cristiani. Vietò loro di entrare nelle chiese mentre si celebravano i divini uffici: sarebbero potuti entrare solo per ascoltare la predica. In caso di violazione, sarebbero stati puniti ad arbitrio del prelato. Per tutto il resto, dovevano osservare inviolabilmente la bolla di Paolo IV, confermata da Pio V[36].

Due anni dopo, il 26 febbraio 1569, la bolla Hebraeorum gens con cui Pio V ordinava a tutti gli israeliti ebrei, eccettuati quelli di Roma e di Ancona, di uscire dalle terre della Chiesa mise fine alla plurisecolare presenza ebraica a B.. Non tutti però se la sentirono di andarsene. La prima domenica di luglio dello stesso anno, infatti, 26 ebrei ricevettero solennemente il battesimo[37].

La città avvertì d’avere perso parecchio con la partenza dei giudei, il cui dinamismo i neofiti non riuscirono a eguagliare. E il 22 maggio 1617, durante il pontificato di Paolo V (1605-21), i consoli di B. proposero al Consiglio d’invocare dal papa il loro ritorno. Il parere del Consiglio fu positivo, ma di quel ritorno non è nota al momento alcuna  traccia, salvo la denuncia, il 13 agosto 1630, al Vice Governatore di B. da parte del preside della vicina Montefusco, di due ebrei che andavano in giro infettando le acquasantiere delle chiese, fonti, pozzi e cisterne con certe ballotte che infestano di male contagioso a chi ne tocca e beve dell’acque. E poiché facilmente i due potevano capitare a B., il buon preside pregava il Vice Governatore di fare una diligente indagine e di arrestare i perniciosi figuri. Il male contagioso era la peste che, scoppiata nel Milanese, serpeggiava nella Penisola, avvicinandosi anche a B. Allarmati dalla grave comunicazione, i consoli la riferirono ai notabili della città, chiedendo loro se non era il caso di differire la prossima frequentatissima fiera di S. Bartolomeo[38].

Al di là del pregiudizio sugli untori - che le autorità mostrarono di non temere eccessivamente, perché decisero a stragrande maggioranza di tenere la fiera - la notizia fa pensare che, ad onta di bandi e divieti, solitari merciaioli e piccoli mercanti di fiera ebrei fossero tornati ad aggirarsi, nei primi decenni del XVII secolo, nel cuore del Sannio.

 

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 Zazo, A.,  Appunti di «haeretica pravitas» in Benevento e nella sua provincia nel XVI secolo, in Samnium 50 (1977), pp. 1- 15.

 

 

 

 

 


[1]Musi, A., Benevento e Pontecorvo, in Storia del Mezzogiorno, VI, pp. 269-328; Bencardino, F., Benevento. Funzioni urbane e trasformazioni territoriali tra XI e XX secolo, pp. 18-42.

[2] Inscriptiones Christiane Italiae. Regio II. Hirpini. Introduzione, edizione e commento a cura di Felle, A. E.,  pp. 46-47, 51-52, nn. 16, 21.

[3]Ahima‘az ben Paltiel, Sefer Yuhasin. Libro delle discendenze. Vicende di una famiglia di Oria nei secoli IX-XI, a cura di Colafemmina, C., Cassano Murge 2001, pp. 66-79, 114-116, 170-179.

[4]Cfr. Morin, D.G., Un concile inédit tenu dans l’Italie méridionale à la fin du IXe  siècle, pp. 146-47, can. IX. Il Morin ritiene che questo concilio sia stato tenuto proprio a Benevento. Altri pensano a Capua o a Napoli.

[5]Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews. Documents, I, p. 37, doc. 39 (an. 1065).

[6]Borgia, S., Memorie  istoriche della pontificia città di  Benevento dal sec. VIII al sec. XVIII, II, p. 265.

[7]Adler, M.N. (a cura di), The Itinerary of Benjamin of Tudela, Critical text, translation and commentary, p. 10 ( testo ebraico), p. 9 (testo inglese).

[8] Meomartini, A.,  Benevento. Iscrizione ebraica scoperta nell’abitato, pp. 78-79; Ascoli, G.I., Iscrizioni inedite o mal note greche, latine, ebraiche di antichi sepolcri giudaici del Napolitano, Torino, 1880, pp. 81-82, n. 37; Castiglione, V., Di alcune importanti iscrizioni ebraiche, pp. 75-82.

[9]Zazo, A., Le chiese parrocchiali di Benevento del XII-XIV secolo (Appunti sul loro sito e la loro toponomastica), pp. 74, 79; Galasso,  E., Saggi di storia beneventana, Benevento 1963, pp. 85-86.

[10]Zazo, A., Il  Liber Registri Iurium  della Curia pontificia di Benevento (1291-2), pp. 138-139, 177, 186, 189.

[11]Borgia, S. Memorie  istoriche cit., II, pp. 178-179; Zazo, A., Le chiese parrocchiali di Benevento, p. 74.

[12]Lonardo, P.M., Gli ebrei a Benevento,  p. 12; Borgia, Memorie  istoriche cit., II, p. 178.

[13]Mazzoleni, J. (a cura di), Il  «Codice Chigi». Un registro  della cancelleria di Alfonso I d’Aragona re di Napoli per gli anni 1451-1453, pp. 332-33, n. 333.

 

[15] Zazo, A., Le «regalie» della Camera Apostolica in Benevento nella seconda metà del sec. XV, p. 13.

[16] Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, II, p. 1057, doc. 860 III, p. 1159, doc. 929.

[17]Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews cit., II, pp. 1171-1172, doc. 936b (3 luglio 1470).

[18]Lonardo, P.M, Gli ebrei a Benevento cit., pp. 25-29, doc. I.

[19]Silvestri, A., Gli ebrei nel regno di Napoli durante la dominazione aragonese, p. 43.

[20] ASNa, Sommaria, Partium, 27, c. 140r-v; 35, cc. 78v-79r (31 agosto 1492). Tumulti, con faide feroci, segnarono la storia di Benevento nei secoli XV-XVI. La città era divisa nelle due fazioni “di sopra” e “di basso”. Quelli di sopra, erano nobili e filoaragonesi, e quelli di basso popolari e filofrancesi. Gli ebrei seguivano la parte di sopra, dove c’era, d’altronde, la giudecca. In uno scontro avvenuto il 22 luglio 1502, secondo quanto racconta un cronista del tempo, quelli di sopra restarono «come vittoriosi nella Città, non essendo della gente loro morta se non un giodeo». Cfr. A. Zazo, A., Le guerre civili in Benevento in una inedita cronaca del XVI secolo, p. 164.

[21]Sirat, C. - Beit-Arie, M. - Glatzer, M., Manuscrits médiévaux en caractères hébraïques portant des indications de date jusqu’à 1540, III, 30.

[22]Steindler, G.M., I manoscritti ebraici della Biblioteca Nazionale di Napoli,  pp.327-335.

[23]Fava, M. - Bresciano, G., I librai di Napoli nel Rinascimento,  pp. 340-41.

[24] Simonsohn, S., The Apostoli See and the Jews., III, pp. 1470-1471, doc. 1169; Ib., IV, pp. 1822-1823, doc. 1530; VI,  p. 2912, doc. 3198.

[25]Zazo, A., Appunti di «haeretica pravitas» in Benevento e nella sua provincia nel XVI secolo, pp. 1-5; 12-14.

[26]Simonsohn, S., The Apostoli See and the Jews, III, pp. 1484-1485, doc. 1182.

[27]Simonsohn, S., The Apostoli See and the Jews, V, p. 2423, doc. 2397;  pp. 2426-2427, doc. 2406; p. 2816, doc. 3065.

[28]Simonsohn, S.,  The Apostoli See and the Jews, III, pp. 1503-1504, doc. 1199;VI, pp. 2570-71, doc. 2672; pp. 2639-2740, doc. 2640.

[29] Stow, K.R.,  The Jews in Rome, vol. II, p. 489, doc. 1174.

[30]Simonsohn, S., The Apostoli See and the Jews,  VI, p. 2900, doc. 3178. Il perdono e la conferma delle grazie e dei privilegi erano sempre subordinate al pagamento, o  alla promessa di pagamento, della vigesima  o di altra tassa.

[31]Simonsohn, S.,  The Apostoli See and the Jews,  II, pp. 1126-1127, doc. 908; V, p. 2315, doc. 2183; VI, p. 2551, doc. 2634; p. 2552, doc. 2637.

[32] Zazo, A., Giulio del Sindico e i suoi tempi, Samnium 40 (1967), pp. 15-16; Id., I primi e gli ultimi ebrei di Benevento, ib. 48 (1975), pp. 5-6, 9-11.

[33] Zazo, A.,  I primi e gli ultimi ebrei cit., pp. 7-8; 12. Nel 1531 si era fatto cristiano Iohannes Benedictus, laicus Beneventanus, con tutta la sua famiglia. A motivo dell’estrema miseria in cui versava dopo la conversione, Paolo III concesse sette anni e sette quarantene di indulgenza a chi gli avesse dato una qualche elemosina per il vitto, il vestito e le altre necessità: Simonsohn, S., The Apostoli See and the Jews,  IV, p. 2071, doc. 1835.

[34]Zazo, A.,Giulio del Sindico cit., pp. 15-16; Id., i primi e gli ultimi ebrei cit., pp. 6-8, 13.

[35]Lonardo, (Gli ebrei a Benevento, p. 6, nota 2) riferisce che, secondo la tradizione, il luogo occupato dagli Ebrei era situato nel vicolo «che oggi è detto la Madonnella».  È probabile che questa ubicazione, così diversa dagli spazi occupati storicamente dagli ebrei nella topografia cittadina, corrisponda al “serraglio” in cui furono confinati gli ebrei beneventani in forza della bolla di Paolo IV del 1555.

[36] Costitutiones editae in diocesana synodo beneventana anno Domini MDLXVII ab illustrissimo et reverendissimo D. Iacobo Sabello S.R.E. et Sanctae Mariae in Cosmedin presbytero cardinali archiepiscopo beneventano,  Romae MDLVII, pp. 77-78.

[37] Segre, R.,  La Controriforma: espulsioni, conversioni, isolamento, p. 727.

[38]Isernia, U., Echi del mondo dei “Promessi sposi” nella peste di Benevento del 1630, pp. 59-61.

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