Palermo

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Palermo

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Palermo*, l’antica Panormo di origine fenicia, si affaccia sul mare nell’estremo lembo nord-orientale dell’isola, in Val di Mazara. Oggi capoluogo della Sicilia, P. fu una città demaniale. La sua storia è articolata e ricca di avvenimenti: la città fu, infatti, la base militare dei Cartaginesi nelle guerre contro i Greci, e i Romani la conquistarono nel 254 a.C. . Panormus apparve, in seguito, tra i primi vescovati siciliani e subì gli assedi e le conquiste di Genserico, Odoacre, Teodorico e Belisario, prima di tornare, nel 535, nell’alveo dell’Impero Bizantino. Nell’831 P. passò, poi, sotto il dominio degli Arabi, che ne fecero la capitale dell’emirato musulmano in Sicilia. Al nucleo più antico, racchiuso dalle vecchie mura, che i musulmani chiamarono Cassaro (al-Qasr), si aggiunsero allora altri quartieri. Durante l’epoca normanna la città visse un periodo di splendore e di fiorenti commerci con i paesi del Mediterraneo. L’avvento degli Angioini ne cambiò le sorti e la città insorse contro Carlo I con la rivoluzione dei Vespri nel 1282: P. divenne allora un comune e invocò l’intervento degli Aragonesi. Ciò diede inizio ad un lunghissimo periodo di contese, nonché alla successiva dominazione aragonese-spagnola.

 

Gli ebrei

 

I primi due documenti in cui vengono citati specificatamente gli ebrei di P. risalgono al giugno e all’ottobre 598 e si riferiscono all’iniziativa del vescovo della città, che aveva occupato illegalmente le sinagoghe, gli ospizi e le proprietà degli ebrei locali e le aveva consacrate per prevenirne la restituzione ai legittimi proprietari. Papa Gregorio I, che disapprovava tale politica, ordinò di provvedere al risarcimento degli ebrei e alla restituzione dei libri e degli ornamenti appartenenti alle sinagoghe[1].

Bisognerà, però, aspettare l’878 per trovare altri riferimenti agli israeliti: un testimone oculare racconta, infatti, che in quell’anno gli arabi conquistarono Siracusa e a Palermo furono imprigionate diverse persone, tra cui alcuni ebrei[2]. Le incursioni dei musulmani e le guerre con i cristiani bizantini si protrassero per tutto il X e XI secolo, così come infuriavano i conflitti interni tra gli Arabi. Gruppi di ebrei, che erano stati catturati sulla terraferma italiana, giunsero allora sull’isola: tra i prigionieri si trovavano anche membri della famiglia di Shabbatai Donnolo, il celebre medico del X secolo[3].

La conquista della Sicilia da parte degli Arabi cambiò la posizione politica e civile degli ebrei e influì sulla loro vita economica, sulla lingua, sulla cultura e sui rapporti con correligionari e non-ebrei, portando di fatto ad un loro assorbimento nel mondo mediterraneo musulmano: essi non faranno più riferimento all’Italia e a Bisanzio, bensì alle autorità musulmane dell’isola, al Medio Oriente e alle comunità ebraiche del Nord Africa e della Spagna[4].

La storia degli ebrei siciliani, a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, è documentata dalle lettere ritrovate nella Ghenizà del Cairo e sembra riferirsi in particolar modo a P. Le poche e frammentarie righe superstiti di una lettera di questo periodo rivelano che vi erano itinerari, utilizzati quotidianamente, che collegavano la Sicilia e la Palestina e che esisteva un trasferimento di fondi per il mantenimento della comunità ebraica a Gerusalemme, ma parlano anche di uno schiavo affrancato, del traffico ebraico della seta e della vendita di libri della sinagoga[5]. Anche in un’altra lettera, poi, antecedente al 1020, un ebreo palermitano scrive a R. Hanania Hacoen, giudice dell’accademia di Gerusalemme, che c’è stato un ritardo nella raccolta dei soldi per gli ebrei della Città Santa, dovuto al fatto che era stata imposta una tassa supplementare, che aveva impoverito la Giudecca di P.[6].

I documenti che ci sono pervenuti sono, comunque, per lo più rapporti su transazioni commerciali e spedizioni di merce tra ebrei palermitani e residenti del Nord Africa, del Medio Oriente, ed in particolare dell’egiziana Fustat. Ad essere menzionati sono, soprattutto, tessuti e capi di abbigliamento, lino e seta, miele, olio, cereali, spezie, pietre preziose e gioielli, zucchero, altri prodotti alimentari e così via[7]. Vi si citano, inoltre, le sfortunate vicende del momento, come le guerre e le azioni di pirateria, che colpivano sia i musulmani che gli ebrei[8]. I conflitti che si svolgevano in Sicilia mettevano alla prova, infatti, tutta la popolazione civile, nonostante fossero alternati a brevi intervalli di relativa calma. Le sollevazioni politiche portarono, allora, alcuni ebrei a lasciare l’isola e a cercare rifugio in Nord Africa: un caso di questo tipo è registrato in una lettera di un mercante palermitano, Joseph b. Samuel al-Dānī, che descrive il suo trasferimento da P. in Egitto e il suo successivo rimpatrio nella città siciliana. Al suo ritorno, nonostante la guerra infuriasse sull’isola, Joseph preferì rimanere[9].

 Le continue ostilità ebbero, però, un impatto negativo sull’economia nel suo complesso, e quindi anche sui traffici degli uomini d’affari ebrei: in un’altra lettera, scritta dalla comunità di P. e datata tra gli anni Quaranta e Cinquanta dell’XI secolo, sono descritte le sfortune degli ebrei in Sicilia come conseguenza della guerra[10].

Quando ebbe inizio l’invasione normanna gli ebrei si identificarono con i musulmani: molti si ritirarono nei territori controllati dagli Arabi e alcuni abbandonarono la Sicilia per sempre. Le loro peripezie sono descritte nella missiva di un mercante, costretto ad emigrare a Tiro, il quale racconta gli eventi che avevano preceduto la sua partenza dalla Sicilia. Egli parla della guerra, delle sommosse, dei saccheggi dei magazzini di P. e delle vicissitudini sue e della sua famiglia: «Camminavano sui cadaveri come se fosse un qualsiasi terreno...». Gli ultimi, turbolenti, anni della dominazione araba furono segnati anche da un’epidemia e dalla carestia: tuttavia non si deve trascurare di ricordare che le attività di commercio degli ebrei, di fatto, proseguirono[11].

A resistere ai Normanni era principalmente P.: nel 1069, in seguito a sanguinose battaglie, un uomo di nome Muhammad Ibn al-Ba‘bā‘ si impadronì della città e nominò come naghid degli ebrei siciliani Zakkār b. Ammār al-Madīnī, che apparteneva ad una prestigiosa famiglia di mercanti. Nel 1072, poi, i Normanni conquistarono P. e misero a morte Ibn al-Ba‘bā': con la sua sconfitta anche la leadership di Zakkār sulla comunità ebraica ebbe fine[12].

Se durante gli anni della guerra furono molti gli ebrei che lasciarono l’isola, dopo la conquista normanna essi tornarono a ripopolarla. Nel 1147 re Ruggero II conquistò Corfù, Cefalonia, Tebe e Corinto e il resto della costa bizantina fino a Malvasia (Monembasia) e gli ebrei di quelle terre furono deportati in Sicilia, principalmente per favorirne lo sviluppo economico[13]: circa un secolo dopo la conquista normanna, così, secondo il racconto di viaggio di Beniamino da Tutela del 1165, P. contava 1500 ebrei[14].

Sotto il dominio degli Hohenstaufen (1194-1266) non vi furono cambiamenti radicali. Quando Enrico I (l’imperatore Enrico VI) entrò a Palermo, confermò a ebrei e musulmani quanto avevano stabilito i Normanni. Ma con l’ascesa di Federico I (l’imperatore Federico II) la vita dei primi in Sicilia mutò in peggio: nel 1211 il sovrano assoggettò, infatti, gli ebrei di P. all’arcivescovo e al suo clero, garantendo alla Chiesa i diritti goduti fino a quel momento dalla Corona. Di essi facevano parte la gabella iocularia, cioè la tassa sugli intrattenimenti dei matrimoni ebraici, quella sul vino e sulla carne, nonché diversi servigi e obblighi[15].

Nel 1221 il sovrano stabilì, poi, che gli ebrei si dovessero distinguere dai cristiani per abiti ed aspetto. È bene sottolineare che il “segno” era già stato qui introdotto dagli Arabi nel 888, ma (probabilmente) tale disposizione non aveva mai trovato una reale applicazione. L’ordine di Federico, invece, si rivelò più rigido, poiché seguiva quanto stabilito dal IV Concilio Lateranense, che imponeva la presenza di un simbolo distintivo sugli abiti degli ebrei dimoranti in tutte le terre cristiane[16].

 Nel 1231 il re procedette, inoltre, ad emettere i seguenti provvedimenti: esenzione degli ebrei dalla proibizione contro la pratica dell’usura (purché gli interessi non superassero il 10% annuo), concessione ad ebrei e saraceni della protezione reale da molestie fisiche o riguardanti le loro proprietà, ammontare di 50 augustali dell’ammenda che le località, dove fosse stato commesso l’omicidio di un ebreo o di un musulmano per il quale non si fosse trovato il colpevole, dovevano pagare, contro i 100 augustali da corrispondere per la morte di un cristiano[17].

Tuttavia, il cambiamento più significativo fu l’introduzione, nella definizione che degli ebrei veniva data nella documentazione regia, dell’appellativo di servi camerae regis. In Sicilia l’espressione appare per la prima volta in un atto del 1237, che garantisce al medico Mastro Busach e ai suoi eredi, probabilmente al servizio della Corona, l’esenzione dal pagamento delle tasse. Il provvedimento sarà poi confermato, con la stessa dicitura, nel 1258 da re Manfredi e da quel momento, fino all’espulsione, tale appellativo continuerà ad identificare gli israeliti[18].

Durante il periodo angioino la Corona fu più presente nella gestione della Giudecca di P., come ci dimostra un documento del 1272, nel quale il re approva l’elezione di Maborach Faddalchkassem a rabbino, macellaio e notaio da parte della comunità ebraica locale e degli gli ebrei di Jerba. Diversi ebrei furono, allora, anche impegnati a corte, come traduttori al servizio di re Carlo: tra di essi figura Moses di Palermo, che conosceva il latino e l’arabo[19].

La guerra tra Angioini e Aragonesi colpì la popolazione e l’economia, ma, a differenza di quanto accadde con la conquista dei Normanni, non vi fu un esodo degli ebrei dall’isola e la transizione tra la casa di Angiò e quella di Aragona non comportò drastici cambiamenti nella situazione delle Giudecche.

Gli Aragonesi mantennero, infatti, immutata la situazione giuridica degli ebrei vigente durante il governo degli Angioini. Due documenti del 1283, nei quali si usa ancora il termine servus camere nostre, mutuato dagli statuti degli Hohenstaufen, riguardano ad esempio il rinnovo dell’esenzione dalle tasse del medico David di Palermo, già garantita al padre Busach, e la sua nomina a rabbino-giudice della comunità ebraica locale, in accordo agli usi dei precedenti governi[20]. Nel 1292 re Giacomo nominò, poi, Sabahonus Iuzeffi di Centurie protho e sichus della comunità ebraica di P. e ordinò ai suoi funzionari e agli ebrei della città di accettare Sabahonus in queste funzioni: in seguito, però, ad un ricorso di Mastro David all’Infante Federico, a Sabahonus restò il ruolo di prohto mentre a David venne affidato quello di sichus[21].

Una serie di provvedimenti, varati nel 1339 e nel 1340 da re Pietro e nel 1347 e nel 1350 da re Luigi, furono presi, inoltre, per difendere gli ebrei dalle persecuzioni e dalle angherie che li colpivano durante la Settimana Santa e per proteggerli nell’esercizio delle loro attività commerciali e da qualsiasi altra molestia. Tali disposizioni furono ribadite anche nel 1392 da re Martino d’Aragona, che confermò il ruolo della corte di giustizia interna alla comunità degli ebrei palermitani. Nell’epoca dei Martini d’Aragona (1392-1410) quest’ultima godette ancora di particolari protezioni e attenzioni, in cambio delle quali i sovrani si appoggiavano all’aiuto economico e ai servizi che il gruppo ebraico poteva fornire[22]. Nello stesso periodo venne mantenuto il divieto ai funzionari di richiedere agli ebrei servizi non dovuti e si ribadì il monito all’arcivescovo della città a non interferire nelle cause civili che li riguardavano. Inoltre, a seguito di una petizione degli ebrei palermitani, a nome di tutte le altre comunità, scaturita dall’ondata di battesimi forzati a Monte San Giuliano, si ribadì che qualsiasi funzionario, nobile o istituzione avesse battezzato a forza i giudei o li avesse costretti ad osservare la religione cristiana, sarebbe stato punito. A supporto di tali provvedimenti, vennero riconfermate le bolle papali Sicut Iudeis di Nicolò III del 1278 e di Martino IV del 1281[23]. Contemporaneamente, però, il re riconfermò il ruolo dell’Inquisizione: nel giugno del 1382 ordinò ai suoi funzionari di dare assistenza all’inquisitore Giuliano di Mileto, già arcivescovo di Cefalù, nei procedimenti contro gli ebrei anche per quanto riguardava il loro imprigionamento[24].

La violenza rituale contro gli ebrei da parte dei cristiani è documentata dagli interventi di salvaguardia regia, in particolare durante la Settimana Santa e le predicazioni e, più in generale, nei momenti di crisi dovuti a pestilenza e carestie. Nel 1321, in base alle istruzioni reali, il pretore di P. ordinò, ad esempio, al magistrato di non di molestare gli ebrei né di richiedere loro pagamenti illegali[25]. Nel 1339 re Pietro, in seguito ad una petizione della comunità ebraica palermitana, vietò agli ufficiali e alle guardie di recar danno agli ebrei durante le cerimonie degli sposalizi e, sempre dopo ulteriori lamentele, ordinò agli ufficiali di prevenire le molestie nei loro confronti, se accusati di scorrettezze commerciali, e di proteggerli[26]. Allo stesso anno risale anche il primo tumulto di cui si abbia notizia, che ebbe luogo durante il Venerdì Santo, quando, stando ai documenti regi, furono messi in atto lanci di pietre contro le case, le porte, le finestre e le tegole, che vennero sfondate, nonché saccheggi[27]. Nel 1350 re Luigi, mosso da un’altra petizione, ordinò ai propri ufficiali di proteggere gli ebrei da vessazioni e molestie, con particolare riguardo alle richieste di servizi non dovuti e alle false accuse[28]. Nel 1393 re Martino diede ordine ai propri funzionari di P., Catania e Messina di proteggere gli ebrei dalle angherie dell’arcivescovo: in base alle disposizioni impartite quest’ultimo e gli inquisitori avrebbero potuto procedere contro gli ebrei solo nel caso che vi fossero state offese alla morale, ma i prelati non avrebbero comunque potuto punirli[29].

Nel 1393 il re descrisse la Giudecca palermitana come caput et melior omnibus aliis aliamis predicti regni, così come P. stessa era la corona e la città principe della Sicilia. In svariati documenti dello stesso anno il sovrano concesse, poi, facilitazioni sulle tasse, riconobbe i poteri giudiziari negli affari interni dei 4 sapienti e 12 segretari della comunità e ordinò ai funzionari di proteggere gli ebrei dalle vessazioni e di rispettare i loro usi e costumi[30].

A queste autonomie si accompagnava spesso il controllo e l’intervento della Corona, che deliberava in numerose cause relative a debiti e pagamenti interne al gruppo o coinvolgenti ebrei e cristiani[31]. Nel 1402 re Martino ingiunse al secreto e magister procurator di P. di verificare l’operato dei prothi sulla riscossione delle tasse della comunità.[32] In altre delibere egli chiese, poi, ai propri funzionari di verificare il rispetto dell’ordinanza di portare il segno distintivo e di controllare che i servizi dovuti dagli ebrei alla Corona fossero eseguiti[33]. Non mancarono, però, le eccezioni, spesso accompagnate da polemiche: nel 1403 ai fratelli Sabeti e Samuele Cusintinu di Palermo vennero riconfermati i privilegi già accordati al loro nonno Merdoc da re Pietro e quindi da re Luigi. Merdoc e i suoi discendenti erano soggetti soltanto alla giurisdizione della Magna Curia ed erano esentati dal portare il distintivo: tali privilegi scatenarono un diverbio tra i Cusintinu e la comunità di P.[34].

Nel 1450 re Alfonso nominò come suo commissario Iacob Esarchi, o Xarch, nunzio papale e commissario della Chiesa, per mettere in atto le istruzioni di papa Nicolò V riguardanti gli ebrei. Iacob era altresì incaricato di controllare le pratiche religiose degli ebrei e far sì che questi fossero totalmente separati dai cristiani, compreso accertare che i medici ebrei non curassero i cristiani e che tutti portassero il segno distintivo della rotella. Ma già l'anno seguente re Alfonso approvò una petizione delle comunità ebraiche siciliane riguardo l’annullamento dell’inchiesta del commissario contro le giudecche[35], mentre, però, confermò a frate Enrico Lugardi, inquisitore della Sicilia, il presunto privilegio dell’imperatore Federico II del 1224, secondo il quale l’Inquisizione poteva appropriarsi di un terzo dei beni degli eretici, aveva giurisdizione sugli ebrei e possedeva una serie di diritti su entrambi[36].

La Corona dovette, in seguito, anche intervenire più volte per proteggere gli ebrei da tassazioni vessatorie e angherie: nel 1453, ad esempio, re Alfonso impedì ai neofiti e alle persone di origine ebraica di esercitare alcune funzioni, come quelle degli algoziri, dei magistri excubiari e dei porteri nei confronti degli ebrei di P., affinché questi ultimi non continuassero a subirne le vessazioni. Due anni dopo, vedendo che la disposizione non era stata seguita, dovette ripetere l’ordinanza minacciando i trasgressori con una multa di 500 once[37]. In seguito alle rimostranze degli ebrei siciliani, ordinò ripetutamente al viceré di impedire a Iacobo di Corinto di obbligare specialmente quelli di P. ad assistere ai sermoni e ribadì ai funzionari di non eccedere nella richiesta di ulteriori tasse[38].

Numerosi ebrei palermitani tentarono, però, in quel periodo di emigrare a Gerusalemme, raggirando la pesante contribuzione imposta dalle autorità a chi volesse allontanarsi. Così, nel 1455, un gruppo di essi venne arrestato mentre era in viaggio e nel 1456 multe molto salate vennero pagate da coloro che tentarono di imbarcarsi illegalmente alla volta della Terra Santa[39]. Tutto ciò non servì, comunque, ad eliminare il problema, che si ripropose per molti anni e che portò a severi controlli. Vediamo, infatti, come, in un documento del 1471, il viceré ordinasse ai funzionari e a tutti i comandanti delle navi di non molestare un gruppo di ebrei in viaggio per Gerusalemme, giunti in Sicilia dal Nord Africa, che avevano da lui stesso ottenuto il permesso di partire, o come in altri due documenti del 1480 egli ingiungesse al secreto di P. di ridare ad alcuni ebrei la merce che era stata loro confiscata al momento dell’imbarco per Gerusalemme, o ancora come nel 1485 il presidente del Regno ordinasse ai consiglieri reali di verificare se un gruppo palermitano, che aveva intenzione di partire per Gerusalemme, fosse munito di regolare permesso, pena l’arresto[40].

Intanto, nel 1459, il re Giovanni aveva confermato le concessioni agli ebrei di Sicilia, Malta e Gozo, ma, allo stesso tempo, aveva ordinato a tutti loro di assistere ai sermoni del predicatore domenicano fra’ Giovanni da Pistoia.[41] In un documento del 1467 il viceré impose di fare l’inventario delle proprietà di Bellomo Grecu, un ebreo che si era suicidato in prigione in seguito ad una confessione di colpevolezza estorta sotto tortura: l’inquisitore Gregorio, infatti, si era lamentato perché non gli era stato permesso condividere i beni del defunto, che erano stati confiscati da un funzionario[42]. Il 2 agosto 1474 il viceré accettò, invece, il dono di 5.000 fiorini dagli ebrei di P. in cambio del perdono di alcuni essi, sospettati di diffamazione della fede cristiana. Un altro gruppo di ebrei, infatti, era stato allora condannato per lo stesso crimine, sottoposto a tortura e giustiziato sul rogo, mentre ancora altri ebrei erano stati torturati e puniti. Ma in che modo essi avrebbero diffamato il credo cristiano? Si presumeva semplicemente che la diffamazione fosse contenuta nei libri in ebraico che venivano usati nelle sinagoghe e altrove[43].

Erano quelli anni in cui la Corona aveva, inoltre, urgente bisogno di liquidità: nel 1480 il viceré ordinò ai suoi funzionari di identificare i debitori, in particolare gli ebrei, ed un anno diede alla Giudecca il permesso di imporre una tassa speciale per finanziare i debiti della comunità[44].

Infine, nel maggio 1489 il viceré ordinò alle comunità ebraiche siciliane di inviare i propri rappresentanti alla riunione del consiglio generale degli ebrei a P.[45]  e approvò una petizione delle comunità del Regno, nella quale si chiedeva, tra l’altro, la conferma dei diritti acquisiti, il perdono generale e l’abolizione delle esenzioni dalle tasse per i membri che ancora ne godevano[46]. Si era così giunti, ormai, al 1492 e tutti gli israeliti incorsero nel decreto d'espulsione (si veda più avanti).

 

La condizione giuridica

 

Sotto la dominazione araba, gli ebrei, al pari dei cristiani, erano considerati come dimmi, una condizione giuridica che comportava il pagamento di due tributi speciali: la gisia sulle persone e il kharag sui beni immobili. La condizione di dimmi includeva, inoltre, la proibizione di portare armi, e quindi l’esclusione dalla milizia, e l’imposizione del segno, che da allora fu un marchio di infamia che da allora si mantenne per secoli. In Sicilia un’ ordinanza sul segno è stata attribuita a Ibrahīm Ibn Ahmad, governante aghlabita dell'Africa del Nord e della Sicilia (888)[47]. Gli ebrei erano a quell’epoca sottoposti alla giurisdizione ordinaria, ma per le cause religiose e le liti tra correligionari si ammetteva il giudizio del tribunale religioso ebraico [48].

Con i Normanni, gli ebrei di Sicilia tornarono sotto l’egida cristiana e dovettero confrontarsi con le leggi della Chiesa e con i suoi sforzi di conversione. Così come succedeva durante il periodo della dominazione araba, continuarono  in realtà ad essere soggetti a due giurisdizioni, quella interna ebraica e quella esterna non ebraica. In un documento del 1072, successivo alla conquista normanna, ad esempio, una Ester di Palermo nominava un procuratore per riscuotere dal fratello la somma che egli le aveva promesso per il suo fidanzamento e lo autorizzava a fargli causa presso qualsiasi corte ritenesse adeguata, ebraica e non ebraica[49]. Tuttavia, al di là dell’autonomia giudiziaria parziale che godettero sotto le leggi normanne, gli ebrei dovettero subire diverse restrizioni: continuarono, ad esempio, ad essere soggetti alla gisia e a tributi speciali[50].

Alla fine del XII secolo, gli statuti di Palermo stabilirono che i cristiani potevano testimoniare contro gli ebrei, ma non viceversa, e che gli ebrei e i musulmani non potevano appellarsi allo ius prothimiseos, che prevedeva il diritto di opzione nell’acquisto delle proprietà dei vicini. D’altro canto, gli statuti contenevano anche due clausole a favore degli ebrei e di altre minoranze: le vendite effettuate da essi, dai musulmani e dai greci in Sicilia erano valide, così come i rogiti notarili in ebraico, arabo e greco. Il re e i suoi ufficiali non potevano, inoltre, richiedere pagamenti arbitrari agli ebrei, come pure a locandieri, macellai e prostitute[51].

Con gli Svevi le disposizioni diventarono più restrittive, in coincidenza con l’aumento del potere della Chiesa nell’isola. Gli ebrei dovettero garantire una serie di prestazioni, come la fornitura degli stendardi alle galee e ai castelli reali, l’obbligo di eseguire le sentenze di morte dei cristiani o altri castighi corporali e i contributi straordinari in occasione di particolari avvenimenti. Se nei documenti normanni non si fa menzione del segno distintivo quale marchio di infamia che gli ebrei dovevano indossare, durante l’epoca sveva questo viene riconfermato.

Sotto la dominazione angioina l’influenza della Chiesa si fece sentire ancora di più[52]: gli ebrei erano nella condizione di servi camerae regis, già in auge ai tempi di Federico II, che comportava l’esclusione dei diritti politici e una limitazione di quelli civili, insieme ad una serie di obblighi speciali consistenti in prestazioni personali e imposizioni pecuniarie.

Le concessioni alla Giudecca furono allora spesso rinnovate in cambio di prestiti o donazioni in denaro. L’imposizione della rotella rossa, quale segno distintivo per gli ebrei imposto dagli arabi e ripresa dalle Costituzioni federiciane nel 1221, venne ribadita da Federico III d’Aragona, che nel 1366 creò l’ufficio del revisore del segno (o della rotella) e delle sinagoghe[53]. Nel 1441 si ordinò, inoltre, di portare una rotella della grandezza di un carlino, ben visibile sul vestito, senza coprirla con il cappotto: le contravvenzioni erano punibili con la confisca di quest’ultimo e la multa di un’oncia, da pagare al supervisore della rotella[54]. Pochi mesi dopo, in seguito alle rimostranze degli ebrei di Palermo, re Alfonso ordinò a tale supervisore e ai suoi ufficiali di desistere dal molestare gli ebrei, in particolare le donne, per la questione del segno distintivo e di non superare i limiti imposti da re Martino il Giovane[55]. Anche per la rotella, come per altre disposizioni, non mancavano le deroghe, in special modo nei confronti dei medici, che spesso godevano di particolari esenzioni[56].

La pratica della medicina era infatti permessa agli ebrei, ma non nei confronti dei cristiani: l’infrazione di tale divieto portava alla condanna del medico ad un anno di carcere a pane e acqua, e alla cessione ai poveri del compenso ricevuto, e del cristiano a tre mesi di carcere, ancora una volta a pane e acqua. Tale norma aveva numerose eccezioni, che riguardavano la salute del re e altre evenienze particolari[57].

In molti casi i medici erano anche esentati dalle tasse, ma nel 1476 la Corona informò i prothi e i maggiorenti di P. di aver abolito questi privilegi. I medici fecero allora ricorso e le polemiche con i prothi della comunità non mancarono, ma nel 1482 il provvedimento venne riconfermato. L’8 dicembre 1477 il viceré aveva informato, poi, i funzionari del reame che erano state revocate, senza alcuna eccezione, tutte le licenze, garantite dai suoi predecessori ad alcuni ebrei, di non portare la rotella[58]. Nel corso del provvedimento di espulsione, ad alcuni medici di P., in considerazione di servizi resi alla Corona, si permise, invece, di portare con sé i propri indumenti e quelli della famiglia, i libri e una schiava[59].

In Sicilia durante l'intero periodo Aragonese gli ebrei furono cittadini dei luoghi dove abitavano. Ottenevano la cittadinanza alla nascita, o in seguito al matrimonio con un cittadino, l'adozione della residenza, e così via, esattamente come i cristiani. In qualità di cittadini godevano dei diritti ed erano soggetti ai doveri di tutte le località nelle quali dimoravano, da P. a Siracusa, e da Messina a Trapani, compresi i centri minori. Le città difendevano i propri cittadini, ebrei inclusi, con fervore, in particolare in materia di giurisdizione e di tasse e gli atti notarili dimostrano che tale indirizzo ebbe un’applicazione reale. Lo stato di cittadino rimase in vigore fino all'espulsione, anche se ciò non impedì alle città di applicare dei provvedimenti restrittivi[60].

 

Le tasse

 

Sotto la dominazione musulmana le discriminazioni nei confronti degli ebrei, riguardavano prevalentemente le tasse: oltre a pagare dei tributi in più, essi dovevano contribuire economicamente alle spese di guerra.

L’imposta diretta principale era allora la gisia, mentre sappiamo poco sulle altre tasse, dirette e indirette.In particolare una di esse, l’ushr, imposta dal sultano sulle importazioni (e specialmente agli stranieri) suscitò molta opposizione da parte degli ebrei, soprattutto da quelli dediti al commercio. Secondo una lettera della Ghenizàindirizzata nel 1056 da un ebreo palermitano a Nehorai b. Nissim di Fustat, gli ebrei cercarono di evitare l’imposta: le autorità usarono spie, reclutate spesso tra le file dello stesso gruppo ebraico, per scoprire i trasgressori e imposero l'ushr anche ai residenti. La vicenda si concluse con l’arresto di numerosi ebrei palermitani, ma la lotta contro l'ushr continuò durante gli ultimi anni della dominazione musulmana[61].

Sotto i Normanni ed i loro successori furono applicate in Sicilia svariate imposte dirette. La principale fu quella sui fuochi, chiamata anchecolletta, sussidioosovvenzione, che ammontava a circa 3 tarì  per fuoco. Altri tributi furono stabiliti, poi, in occasioni speciali ed erano chiamati donativo. Per aumentare le proprie rendite, però, la Corona dovette imporre altre tasse, di solito indirette.

Gli ebrei palermitani e del resto del reame pagavano le tasse generali imposte a tutti ed in più quelle speciali. Prime tra queste figuravano la gisia e l'augustale e lo ius baiulacionis. Col passare del tempo tali contribuzioni persero le caratteristiche originali e diventarono una tantum imposta a tutti gli ebrei dell'isola.

Le tasse indirette, invece, furono fatte pagare agli ebrei dal sovrano, dalle città e dalle stesse comunità. Alcune di queste rendite furono talvolta alienate come ricompensa per servizi resi o atti meritevoli, o vennero cedute in appalto. Le imposte indirette, numerosissime, furono applicate su quasi tutti gli aspetti della vita, dai generi alimentari all’abbigliamento, dalle merci ai servizi, e su tutte le transazioni commerciali[62].  

Il 9 febbraio 1325 re Pietro autorizzò la comunità ebraica di P. a punire severamente i membri che si rifiutavano di condividere il peso delle tasse, fatta eccezione del medico Gaudio: anche svariati altri documenti attestano esenzioni riservate ad alcuni personaggi di spicco, che suscitavano le proteste dell’intera comunità. Tali esenzioni, come quella già accordata a Mastro Busach, creavano malcontento e da esso scaturiva spesso la richiesta di abolire i privilegi[63]

Del resto la continua richiesta di contribuzioni supplementari metteva in crisi il gruppo ebraico. Nel 1437 re Alfonso chiese, allora, al conte Federico Ventimiglia, uno dei magistri razionali della Sicilia, di avere pazienza nei confronti degli ebrei di P. per quanto riguardava il pagamento delle tasse dei quattro mesi precedenti, in considerazione dei servizi che essi avevano reso al sovrano e della pestilenza che li aveva appena colpiti[64]. Da un documento del 1438, redatto dal tesoriere reale, abbiamo l’ammontare dei contributi delle diverse comunità dell’isola: P. spicca con 150 once, seguita da Catania con 80. Lo stesso anno il re Alfonso confermò le disposizioni che il re Pietro aveva emanato a P. nel 1325, in base alle quali si autorizzava la comunità ebraica della città a punire severamente coloro che si rifiutavano di pagare i tributi[65].

La richiesta di tasse supplementari continuò per tutto il '400, al punto che molta della documentazione risalente a quest’epoca si riferisce ai contributi dovuti dalla Giudecca alla Corona[66]. Nel 1445 il viceré ordinò, ad esempio, ai proti e ai maggiorenti della comunità di P. di pagare la tassa imposta in occasione del matrimonio del figlio di re Ferdinando[67], mentre nel 1446-7 venne stabilito l’ammontare delle tasse per i successivi sei anni: nel primo gli ebrei di P. avrebbero dovuto pagare 70 once più ulteriori 10.23.15 once[68].

Dalla metà del secolo imposte e contributi si moltiplicarono: nel 1453 il viceré, in seguito alle proteste della comunità ebraica di P. per l’eccessivo peso fiscale ed in particolare per una nuova tassa di 200.000 fiorini, deliberò che gli ebrei  pagassero un settimo delle tasse, piuttosto che un quarto, dal momento che non costituivano un quarto della popolazione, non arrivando neppure ad un decimo. La disputa tra la comunità stessa ed il comune cittadino, che non rispettava le ordinanze reali, continuò, però, anche in seguito con alterne vicende[69].

Nel 1476 gli ebrei protestarono nuovamente contro le autorità civiche di P., che li obbligavano a versare una contribuzione supplementare per le guardie della peste, che per i cristiani era, invece, già inclusa nelle tasse regolari. Per supportare le proprie richieste le autorità erano giunte ad arrestare due prothi, compiendo un’azione che contraddiceva gli ordini del viceré. Poiché il comune era deciso a proseguire su questa stessa linea, nel 1479 il presidente del Regno dovette ordinare alle autorità palermitane di aderire ai termini dell’accordo con la comunità ebraica locale[70] e garantì alla stessa una moratoria di due mesi per il pagamento dei debiti. Nello stesso anno  il presidente approvò anche la risoluzione del consiglio della comunità ebraica di imporre tasse straordinarie per saldare i debiti: per non aver pagato in tempo i funzionari vennero, allora, imprigionati[71].

Negli anni ottanta del XV secolo la richiesta di contributi straordinari alle comunità ebraiche siciliane, compresa quella di P., crebbe ulteriormente: nel 1486, ad esempio, la Corona chiese agli ebrei palermitani un’offerta di 100 once e 100 ducati per finanziare la campagna contro Granada, mentre nel 1487 venne aumentata la tassa che gli ebrei di tutta l’isola dovevano pagare per l’Inquisizione e nel 1489 il viceré impose una nuova tassa sul gruppo palermitano, i cui debiti ammontavano ormai a 15.000 fiorini: in mancanza di fondi, la tassa dovette essere pagata con vino, formaggio, bestiame, vestiti e altre mercanzie. Nel 1490 fu poi imposto a tutte le comunità del Regno di raccogliere 6.000 fiorini e quella di P., ormai in grande difficoltà, tentò varie strade per mettere insieme il dovuto e alla fine optò per una supplementare tassazione del vino. La situazione rimaneva, però,  drammatica e nello stesso anno il viceré dovette permettere agli ebrei palermitani di stabilire nuove tasse [72].

Con la partenza degli ebrei dall’isola le rendite legate alle loro contribuzioni cessarono, e con ciò inaridì una fonte importante di contanti per le varie tesorerie, sia della Corona che delle città. Un rimedio temporaneo fu trovato imponendo una tassa d'uscita, che ammontava all’enorme somma di 125.000 fiorini.

La generale prosperità economica della Sicilia negli anni che seguirono la cacciata compensò, però, di fatto, in gran parte gli ammanchi creati dall'espulsione[73].

 

La vita comunitaria

 

Le poche informazioni che abbiamo sull'organizzazione della comunità ebraica per l'epoca antica e tardo antica dimostrano che anche in Sicilia vigeva il sistema comune a tutta la diaspora, ovvero l’esistenza di organi e funzionari "semplici" raggruppati intorno alla sinagoga: vi erano allora, infatti, gerusiarchi e presbiteri e poco di più[74]. Per l’epoca araba iniziamo a conoscere alcuni particolari in più della comunità ebraica siciliana: sappiamo, ad esempio, che vi furono anziani e giudici e un tribunale accanto ad  istituzioni comunitarie più consuete come la sinagoga, il cimitero e simili[75].

La Giudecca dell’età aragonese aveva propri capitoli, concessioni, consuetudini e sistemi di tassazione, sebbene il controllo e le interferenze della Corona fossero comunque costanti. Le strutture organizzative della comunità si fondavano allora su un consiglio generale, che era formato principalmente dai capifamiglia e che costituiva la base elettiva di un consiglio di maggiorenti, e un organo esecutivo costituito dai prothi. I prothi venivano eletti trimestralmente, di solito in numero di tre per volta, esisteva un’amministrazione per le finanze della sinagoga, per i poveri e per l'ospedale, e c’erano molti impiegati. Nel 1396 venne imposta alle Giudecche la figura del dienchelele (dayyan khelali), un magistrato nominato dal re con funzioni di giudice supremo per tutta l'isola, cui era demandata la direzione delle comunità. Questa istituzione fu fortemente contestata dai gruppi ebraici, che la ritenevano lesiva della prpria autonomia, finché, dopo più di cinquant’anni di alterne vicende, essi ne ottennero la definitiva abolizione[76].

Nel 1397 il re ordinò, inoltre, alla comunità di P. di eleggere annualmente 12 uomini, che a loro volta avrebbero eletto ogni quattro mesi tre funzionari nel ruolo di prothi. Al termine del loro mandato questi ultimi avrebbero riferito al consiglio dei dodici sul proprio operato[77]. Nel 1406 re Martino nominò Maestro Ioseph Abenafia medico reale e giudice supremo dei correligionari di tutta la Sicilia.[78] Dopo la morte di Abenafia il viceré nominò giudice supremo Maestro Moyse Bonavogla (1420). Gli ebrei e i cristiani di P. e di Messina, si opposero a tale provvedimento, e nel 1421 re Alfonso revocò la carica e ristabilì i diritti giurisdizionali che vigevano precedentemente[79]. Poco tempo dopo, però, la carica venne rinnovata e la controversia riguardante la figura del giudice supremo è documentata da numerosi atti, che si riferiscono in particolare a Moyse Bonavogla, medico personale e familiare di re Alfonso il Magnanimo. Dieci anni dopo, re Alfonso accolse infine la petizione delle comunità ebraiche siciliane e, abolita nuovamente la carica promettendo di non rinnovarla più, rimosse il Bonavogla dai suoi uffici, ma chiese in cambio agli  ebrei un contributo di 660 once. Già nel 1439, però, il re procedette a ripristinare il giudice supremo degli ebrei di Sicilia, scegliendo il proprio medico. L’istituzione venne abolita definitivamente solo nel 1447, in cambio del pagamento di 600 once da raccogliere presso le singole comunità. Venne inoltre imposto un ulteriore 8% su tale somma per le spese generali, oltre a 2 tarì al giorno per le spese personali degli esattori.

Dopo la soppressione del giudice, invalse l’uso che la nomina dei successori alla carica di prothi fosse attribuita agli stessi membri uscenti, interpretando alla lettera la disposizione regia che trasmetteva ai prothi tutte le prerogative del giudice supremo[80].

All’interno della comunità non mancavano anche le contestazioni sul modo di procedere alle elezioni o sulla gestione dei fondi. In questi casi la Corona ordinava indagini e interveniva direttamente[81]: nel 1479, ad esempio, il viceré dispose che i funzionari della comunità ebraica di P. fossero rispettati dai membri della comunità e diede loro a tale scopo il potere necessario per rafforzare la disciplina[82].

 

 

 

Il quartiere ebraico, le sinagoghe ed istituzioni comunali

 

Dalla documentazione risulta che, fin dai tempi della dominazione araba, a P. gli ebrei abitavano prevalentemente nel quartiere del Cassaro: la prima descrizione del quartiere ebraico di Palermo (Qārat Al-Yahūd) risale, infatti, agli anni Settanta del X secolo[83]. Non si tratta però di un ghetto: accanto a case e botteghe ebraiche esistevano, infatti, anche famiglie e attività commerciali di cristiani e musulmani, chiese e monasteri.[84] Il Cassaro fu la zona prevalentemente abitata dagli ebrei fino al 1312, quando Federico II ordinò che essi si raccogliessero nei quartieri fuori dalle mura della città. Secondo alcuni documenti, nel quartiere rimasero allora pochi abitanti, al punto che le autorità invitarono i cristiani di altri luoghi a risiedervi, offrendo loro la cittadinanza[85]. Tuttavia, il decreto federiciano non durò a lungo e negli anni successivi troviamo numerosi ebrei che abitano ed hanno attività nel Cassaro. Nel 1453 re Alfonso descrisse quest’ultimo come ipsorum Iudeorum clausuram que vulgo dicitur lo cazaro: gli ebrei continuavamo, comunque, a risiedere anche in altri quartiere della città[86].

Tutte l'istituzioni comunitarie si trovavano nel quartiere ebraico e nelle sue vicinanze: la sinagoga, il bagno rituale, l'ospedale, il macello ed il cimitero (poi trasferito fuori delle mura). È stato possibile rintracciare la topografia della Palermo ebraica, le sue strade e vicoli ed alcune delle sue case, il sito degli edifici pubblici e l'abitazione di alcune famiglie notabili. Nonostante la legge vigente che consentiva agli ebrei la proprietà di beni immobili, la maggioranza di loro prendevano le case in affitto ed i proprietari dei terreni erano spesso le chiese e le altre istituzioni religiose cristiane, come per esempio gli cavalieri dell'ordine Teutonico della Magione. I quartieri in cui abitavano ebrei erano, ad esempio, quelli di Albergheria e Conceria, mentre il centro della loro attività fu la Piazza Marmorea. Essi avevano, poi, anche appezzamenti di terra fuori dalla città, che ospitavano vigne, massarie e così via[87].

Il fulcro comunitario fu indubbiamente rappresentato dalla sinagoga principale, un edificio imponente, del quale ci resta la descrizione fatta da R. Ovadia da Bertinoro pochi anni prima dell'espulsione. Secondo questo noto viaggiatore la sala principale della sinagoga misurava ben 500 metri quadrati e nell’edificio si trovava la sede degli uffici e delle istituzioni della comunità. Scrive ancora Ovadia:

"...Palermo è la più grande e principale città del reame di Sicilia. Vi sono 850 famiglie incirca, tutti raccolti in un solo quartiere, il migliore del paese. Sono poveri ed artigiani, fabbri in rame e ferro, facchini e lavoratori della terra. Sono disprezzati dai Gentili, perché sono vestiti in stracci e sono sporchi. Devono portare sul seno un segno di stoffa rossa, largo una moneta d'oro. I lavori forzati del re pesano su loro, perché sono costretti di fare tali lavori quantunque vengono chiamati per tirare a terra le barche, costruire dighe, e simili. Gli ebrei devono giustiziare i condannati a morte, e punire e torturare i condannati alla frusta e alla tortura. Vi sono molti informatori tra gli ebrei. Questo delitto è diventato lecito fra loro; informano l'uno sull'altro spesso, senza reticenza.... La sinagoga a Palermo è senza paragone nel paese e tra i popoli, e viene lodato da tutti. Nel cortile crescono le viti su pilastri di pietra. Non hanno pari: ho misurato una vite che aveva uno spessore di cinque palmi. Di là una scala porta alla corte di fronte alla sinagoga, circondato da tre lati     da un portico, fornito di sedie per quelli che non vogliono entrare alla sinagoga per un motivo o l'altro. V'è un pozzo, distinto e bello. Sul quarto lato v'è il portale della sinagoga. L'oratorio è quadrato, quaranta su quaranta braccia. In oriente v'è un santuario. Una struttura bella di pietra come una cappella, perché non vogliono mettere i rotoli della Legge in un Aron. Ne mettono invece nel santuario, su una piattaforma di legno, con i loro astucci e corone su di loro, ed le pome d'argento e cristallo sullecolonne. Mi hanno detto che i ricami di argento, cristallo ed oro nel santuario avessero un valore di 4,000 pezzi d'oro. Il santuario è fornito di due uscite, al sud ed al nord. Due fiduciari, membri della comunità, curano le porte. In mezzo alla sinagoga v'è una torre di legno; li i hazzanim ascendono ad un desco per recitare le preghiere. La comunità ha assunto cinque hazzanim. Recitano il sabato e le feste con voci e melodie dolci. Non ho visto cose simili tra gli ebrei da nessuna parte. I giorni feriali pochi frequentano la sinagoga, un ragazzo può contarli. Vi sono molti vani intorno alla sinagoga, come p.e. l'ospizio con letto per gli ammalati  ed i vagabondi forastieri da parti lontane; il miqweh; la grande e bella sala dei funzionari; dove amministrano giustizia e deliberano su affari pubbliche...".

 

A gestire la sinagoga e le sue rendite erano due funzionari che venivano chiamati “sacrestani”. Vi furono anche altre sinagoghe, per lo più private e, in seguito al decreto dell'espulsione degli ebrei (1492), la sinagoga fu venduta per 500 once[88].

 

 

Istruzione e vita culturale

 

Relativamente poco si sa sull'istruzione degli ebrei siciliani, in particolare su quella pubblica. L'istruzione elementare della gioventù ebraica assumeva diverse forme: vi era quella privata, di solito limitata ai ricchi e benestanti, quella delle scuole comunitarie e private e l'apprendistato artigianale, che talvolta comprendeva anche la formazione scolare elementare. L'educazione superiore fu fornita da poche istituzioni, alcune delle quali rimasero di fatto dei progetti mai realizzati, come lo studium generale ideato dalle comunità siciliane nel 1466. Nella Sicilia medievale non c'era una scuola di medicina, e chi voleva imparare l’arte medica era costretto a frequentare una delle università della terraferma, oppure ottenere l'insegnamento privato da un medico. Anche i professionisti, come rabbini, notai e scribi/copisti ricevevano la propria formazione direttamente sul posto di lavoro. Tutti gli ebrei avevano una qualche istruzione, magari solo rudimentale, e soltanto di rado incontriamo un analfabeta tra gli uomini. Pochi, però, solo i particolari sull'istruzione (come curricula e scuole esistenti) a nostra disposizione: ciò è dovuto alla perdita totale della documentazione comunitaria e privata dell'ebraismo siciliano[89].

Un'idea della cultura e dell'erudizione degli ebrei siciliani, compresi quelli palermitani, si può ottenere dalle liste di libri, per lo più manoscritti, che si sono conservate negli atti rogati dai notai frequentati da ebrei, specialmente nei testamenti. Oltre ai testi normativi di preghiere, alla Bibbia e simili, si trovano ricordati volumi sulla legge ebraica, sulla medicina, le scienze, l’astronomia, la filosofia, la mistica e così via. Tra i manoscritti ebraici copiati a Palermo, e sopravissuti fino ai giorni nostri, vi sono una miscellanea in giudeo-arabo, che contiene un trattato di medicina ed altre opere (copiata nel 1342 da David b. Elia Rophe, un medico, per Isacco di Nissim, anch’egli medico),  l'Emuna Rama di Abraham Ibn Daud (copiato nel 1475 da Isacco b. Salamone, alias Gabal, per Mose di Mattatia Qazan) ed il Canon Medicinae di Avicenna (copiato nel '300-'400 dal medico Samuele b. Iosep, in arabo). Sappiamo, inoltre, che negli ultimi anni di permanenza ebraica in Sicilia furono qui venduti alcuni incunaboli stampati a Napoli, Reggio Emilia, Mantova ed in altre località[90].

I rabbini, i dotti di spicco e gli scienziati furono in realtà pochi fra gli ebrei siciliani, e nessuno di essi si distinse particolarmente. Il più noto fra i rabbini dell'epoca araba fu MasliaÊh b. Eliah, che studiò con R. Hai Gaon, la massima autorità rabbinica dei suoi tempi, all’accademia di Bagdad. Egli ricoprì l’incarico di rabbino e giudice a P. nella prima metà dell'XI secolo, ma fu anche uomo d'affari e autore di una biografia del suo Maestro, a noi non pervenuta. I suoi responsa legali, infine, vengono citati nella letteratura della halakha[91].

Alcuni dotti e letterati in viaggio dall'Europa verso l’ Oriente o altrove si fermavano in Sicilia per un po’ di tempo, e talvolta per anni. Fra loro vi fu R. Anatoli b. Ioseph, originario della Provenza, che era in cammino per raggiungere l'Egitto. Una raccolta di poesie ebraiche, composte in parte da Anatoli (che si fermò in Sicilia negli anni Settanta e Ottanta del XII secolo[92]) ed in parte dai suoi amici, tra cui palermitani ed abitanti di altre località, ci è pervenuta grazie alla Ghenizà del Cairo. Altri dotti invece, nativi della Sicilia, fiorivano al di fuori dall'isola. Uno di essi fu Faraj b. Salem (Salamone) da Agrigento (Ferragut), interprete e traduttore, che si era trasferito a Salerno. Medico di Carlo d'Angiò, egli fu autore di un commentario sulla “Guida dei Perplessi” di Maimonide. Anche Mosè da Palermo, al servizio di Carlo d'Angiò a Napoli, fu traduttore di molti testi dall’arabo al latino, tra cui quello sulla cura dei cavalli di Ippocrate[93].

Abramo Abulafia, qabbalista e sognatore del Messia, faceva parte di un altro gruppo di passaggio in Sicilia. Nativo della Spagna, arrivò a Messina durante l'epoca degli Angioini, per poi trasferirsi a P., e immediatamente raccolse intorno a sé dei discepoli della sua dottrina mistica, per lo più medici. Già contestato altrove perché fautore di pensieri pericolosi, in Sicilia egli fu denunciato dalla massima autorità rabbinica del dominio aragonese, R. Salomone b. Adreth. I capi delle comunità di P. e Messina furono avvertiti della pericolosità dell'uomo e delle sue idee e Abulafia fu costretto a ritirarsi sulla minuscola isola di Comino (fra Malta e Gozo), nella casa di un suo allievo. Dopo il 1291 si persero le sue tracce, ma le sue opere sopravvissero in Sicilia. Il monito appena ricordato di b. Adreth era stato indirizzato a R. Ahituv b. Isacco, rabbino di P., del quale si sa soltanto che fu autore della traduzione della Logica di Maimonide e di una poesia ebraica[94].

Anche durante l'epoca Aragonese vi furono dei rabbini a P. ed in altre località dell’isola. Essi svolgevano anche l’attività di medici e, ovviamente, di giudici dei tribunali delle comunità. Tra loro si ricordano Moyse Bonavogla, medico e dienchelele, noto come Mose Hefez esperto di legge ebraica, Iona de Usueli, rabbino e maestro a P. ed a Trapani, nonché molti altri. Di nessuno di loro sono rimaste delle opere (sempre ammesso che ne avessero composte). Alcuni dotti siciliani, inoltre, facevano carriera all'estero, nella terraferma italiana e in Oriente, mentre alcuni dotti forestieri facevano lunghe o brevi soste in Sicilia. In generale tra di essi vi furono astronomi, matematici e in particolar modo medici: per gli ultimi due secoli della presenza ebraica sull’isola, infatti, si ha menzione di oltre 200 medici ebrei[95]

 

Le attività economiche

 

Le lettere della Ghenizà riflettono l’immagine di un’attività commerciale intensa, specialmente con l'estero, che coinvolgeva tutta l'aerea mediterranea, ma interessava soprattutto il Nord Africa e l'Egitto. Gli ebrei siciliani erano coinvolti nel commercio di tutti i beni disponibili allora sui mercati, e specialmente di quelli preziosi, come spezie, perle, argento, oro, metalli, ma anche di tele, stoffe, lino, seta, prodotti alimentari e così via. Alcune transazioni riguardavano ingenti somme di denaro e fra i mercanti vi furono dei cambiatori[96].

Gli avvenimenti bellici, in particolare la conquista normanna, ebbero effetti negativi sul commercio internazionale dell’isola, e a risentirne fu anche l’attività degli ebrei: sebbene gli affari non cessassero del tutto, risultarono comunque ridimensionati.

I Normanni governarono la Sicilia fino al 1194, quando gli Hohenstaufen s'impadronirono dell’isola, restando al potere ininterrottamente fino al 1266, e, dopo un breve intervallo, fino al 1282, anno in cui a seguito dei “vespri siciliani” il controllo passò agli aragonesi/spagnoli. Già nel 1170 Beniamino da Tudela contava a P. 1.500 ebrei ed a Messina 200, e i nuovi governanti della Sicilia cercarono d'incoraggiare ulteriormente l'immigrazione ebraica per motivi economici: nel 1147, quando Ruggero inviò la propria flotta contro Bisanzio e conquistò Corfù, Cefalonia e Corinto e la costa adiacente, aveva al proprio fianco una nutrita schiera di persone, nella quale figuravano anche degli ebrei[97].

Il movimento di questi ultimi nel triangolo costituito da Sicilia, Africa del Nord e Oriente continuò nel XII e XIII secolo, sempre sull’onda del commercio internazionale. Tra le merci scambiate figuravano di nuovo spezie e altri prodotti che erano stati protagonisti dei flussi commerciali in epoca araba. Tale situazione rimase immutata almeno fino alla prima metà del '200. Anche allora, come già nell'età della dominazione araba, inoltre, il commercio marittimo, che restò pericoloso ed esposto agli atti di pirateria ed altri rischi, si avvalse dei prestiti operati dagli israeliti[98].

Nel 1239 alcuni ebrei si trasferirono dal Nord Africa, forse da Jerba, a P. per dedicarsi alla coltivazioni reali delle palme da dattero, di cui erano esperti: il diritto di curare la piantagione reale venne loro accordato per un periodo di 5-10 anni, con l’intesa che il raccolto sarebbe stato equamente diviso tra i coltivatori e la Corona. Non riuscendo ad integrarsi con gli ebrei palermitani, i nuovi immigranti chiesero al re Federico un terreno per la costruzione di una propria sinagoga, la possibilità di prendere in affitto delle case situate nel Cassaro e il permesso di avere un proprio rabbino. Il re accolse alcune di queste richieste, tranne quelle relative alla sinagoga (avrebbero dovuto limitarsi a restaurarne una già esistente, ma fatiscente) e alle abitazioni, che avrebbero dovuto essere poste fuori dal Cassaro.

Nelle sue istruzioni al secreto di P., inoltre, il re ordinò di prelevare dai nuovi arrivati la gisia annuale di 400 tarì, oltre alle tasse sul vino e sulla carne. L’ufficiale avrebbe dovuto, in più, incoraggiare l’immigrazione di altri ebrei in città, perché coltivassero henna, indigo e altre piante “che crescono a Jerba e che non sono coltivate in Sicilia”[99].

Le prime notizie sull’attività economica degli ebrei di P. sotto gli Aragonesi si riferiscono in gran parte al commercio minuto: essi acquistavano formaggi, caciocavallo, olio, tonno salato, datteri, fichi secchi, castagne, mele, ed altri alimenti, per rivenderli al dettaglio. In particolare, le necessità legate ai consumi rituali prescritti dalla tradizione contribuirono a consolidare la posizione degli ebrei in alcuni settori, come ad esempio quello del formaggio e del vino. La comunità aveva, inoltre, garantita l’osservanza delle norme alimentari prescritte dalla tradizione ebraica: i macelli rituali erano autorizzati, così come si controllava che la produzione del vino e del formaggio si svolgesse secondo il rito.

I rapporti d’affari tra ebrei e cittadini cristiani erano frequenti e regolari. Ne è un chiaro esempio un atto del 27 agosto 1287, che consiste nel conteggio finale di una società contratta poco meno di due anni prima per l’esercizio dell’arte della seta: i soci erano Leone di Iannacio, un cristiano cittadino di Palermo, e l’ebreo Symanto[100].

Da numerosi documenti risulta, infatti, che gli ebrei siciliani si occupassero del commercio di stoffe e di colori per tessuti: non stupisce dunque che tra i loro proventi, garantiti all’arcivescovo di P. da re Federico, vi fossero quelli derivati dall’industria della colorazione, che lì ed in altre località dell’isola era sotto il controllo reale e la cui la gestione il re stesso aveva affidato agli ebrei [101].

Le famiglie ebraiche più antiche e rispettate di P., inoltre, rafforzarono la propria fortuna grazie alla gestione di grandi magazzini generali: ne sono un esempio i Chetibi (Musa nel 1358, Samuel nel 1394, Mauel nel 1394), i Marmaymono (Farjono nel 1337, Mardocco nel 1394), i Medico (Leon nel 1360 e nel 1397), i Millac (Jusufo nel 1339), i Mizoc (Brachono, Nissim nel 1360), i Taguil (Busac nel 1349), i Xunina/Xonin (Sabet nel 1425, Ysach verso il 1450).

Il commercio funzionava allora a credito a tutti i livelli, attraverso taglie e dichiarazioni di debito, ed era utilizzata la tecnica dello scambio, con pagamenti in uva e grano. I documenti testimoniano, poi, un’ampia attività artigiana e di piccolo commercio, nonché legata  al settore dell'agricoltura[102].

Dallo spoglio degli atti risulta che le attività più diffuse, anche tra gli ebrei, erano le seguenti: il commercio e la raffinazione dello zucchero, la tintura, la lavorazione e la vendita della seta, la produzione di uva e cereali (cui sono connessi l’allevamento del bestiame e la vinificazione), la gestione di botteghe, il lavoro nella tonnara e la coltivazione di oliveti[103].

Tra gli ebrei si contavano anche numerosi artigiani: in un documento del 1450, che riporta i pagamenti della secrezia di Palermo, tra gli artigiani e i fornitori del comando del secreto e dei suoi ufficiali, compaiono numerosi ebrei nel ruolo di carpentieri, fabbri, costruttori, guidatori, operai/padroni, impegnati in riparazioni e opere di manutenzione della residenza reale[104]

Tramite svariati documenti, risalenti al 1471-1474, il secreto di P. inviò ai secreti di altri centri la lista della merce importata ed esportata dalla città, completa delle autorizzazioni concesse agli ebrei: ne risulta che questi ultimi commerciavano all’ingrosso soprattutto in abiti, tessuti pregiati provenienti da Firenze, Genova, Maiorca e altrove, nonché in sete e coralli[105].

 

L'espulsione

 

Il 31 marzo del 1492 i vittoriosi Ferdinando ed Isabella di Spagna firmavano nella conquistata Granada l'editto d'espulsione degli ebrei da tutti i loro domini, compresa la Sicilia, ponendo fine ad una presenza millenaria nell'isola. L’ 80% circa degli ebrei, su un totale che si aggirava intorno a 25.000, lasciò la Sicilia entro gli inizi del 1493. Di questi gli ebrei di P. furono 2.500-3.000 circa. Gli altri si convertirono al cattolicesimo e restarono sull’isola. Al momento dell’espulsione, la comunità di P. era la più grande non solo della Sicilia, ma di tutta l’Italia e talvolta essa è stata stimata ancor più grande come nel caso di di Obadia da Bertinoro (1487)[106]. Contemporaneamente all'editto d'espulsione il re dette istruzioni al viceré in merito alla gestione dei beni degli ebrei in partenza, dai quali si sarebbero dovuti sottrarre tutti i debiti. Il sovrano ordinò, inoltre, di pubblicare un editto per proteggere gli ebrei fino alla partenza[107] e il 18 maggio dichiarò che quanti si fossero convertiti al cristianesimo avrebbero goduto dei diritti dei cristiani[108]. Per gli ebrei di P., in particolare, vennero emessi una serie di proclami, sollecitati anche dalla comunità locale, allo scopo di proteggersi da angherie e vessazioni verso loro stessi e le loro proprietà, in vista della partenza. I beni degli ebrei furono intanto messi sotto sequestro dalle autorità[109].

Su richiesta dei prothi, il viceré ordinò ai propri funzionari palermitani di non procedere con la riscossione forzata dei crediti che riguardavano ebrei e cristiani, ma ai primi venne comunque vietato di lasciare la città ed esportare i propri averi fino a nuova notifica, per non pregiudicare i diritti dei cristiani. A questi ultimi fu vietato, però, di molestare gli ebrei, impossessarsi delle loro proprietà ed entrare nel loro quartiere, mentre ai creditori furono dati quindici giorni per presentare le proprie richieste. Una serie di proclami della città di P., poi, vietò agli ebrei di nascondere i beni, di trasferirli da una casa all’altra o di venderli e ai cristiani, di contro, fu vietato di acquistarli senza una licenza[110].

Il 20 giugno 1492 gli ufficiali e i principali banchieri del Regno presentarono un memoriale a re Ferdinando, enumerando i danni all’economia siciliana, che la cacciata degli ebrei portava. Essi, pur dichiarando fedeltà al re, ritenevano loro dovere avvisarlo al tempo stesso delle gravi conseguenze che la partenza di un così importante elemento della popolazione dal punto di vista economico avrebbe potuto comportare. Secondo i loro calcoli la perdita per il giro d’affari della Sicilia sarebbe stata di addirittura un milione di fiorini all'anno, considerando anche che gli ebrei avevano un ruolo come artigiani, commercianti, professionisti e così via e che ci sarebbe stata altresì la perdita di tasse ed altre entrate di loro spettanza. Gli ufficiali chiedevano, dunque, almeno una proroga della data fissata per la partenza e il memoriale fu firmato da undici persone, tra cui il secreto ed il mastro portulano di P. ed il mastro racionale della Sicilia, che compirono così un atto eccezionale e molto coraggioso, se contestualizzato nell’ “assolutismo” della Spagna medievale[111].

Il 25 giugno il viceré procedette con l’ordine ai funzionari di P. di trasferire al banchiere Battista di Lombardo le proprietà degli ebrei e delle loro sinagoghe, dopo averne fatto l’inventario. Gli ebrei poterono allora vendere beni e proprietà, compresa la sinagoga, in presenza di Federico di Diana e Gilberto di Bologna[112].

L’11 luglio i cristiani della città fecero presenti al viceré i danni che l’espulsione provocava a P. e alla Sicilia nel suo complesso, e chiesero chiarimenti per quanto riguardava il pagamento dei debiti degli ebrei nei loro confronti e viceversa. In seguito lo stesso secreto di P. avrebbe fatto rapporto al viceré sulle perdite pecuniarie e affaristiche della Corona connesse all’allontanamento degli ebrei della città[113]. Le petizioni della comunità ebraica in quel frangente furono molte: il 30 luglio il viceré approvò la richiesta di permettere alla Giudecca cittadina di pagare per due coppie di rotoli della Torah, che si volevano portare via, e di aumentare di 5.000 fiorini la tassa sui propri membri per poter pagare i debiti, dal momento che il tributo precedente, di 10.000 fiorini, non era stato sufficiente a tal fine[114]. Lo stesso giorno, inoltre, il viceré concesse agli ebrei palermitani il permesso di inviare le famiglie fuori dall’isola, dopo che fosse stato verificato che possedevano beni sufficienti a pagare i propri debiti. Si stabilì, dunque, che coloro i quali avessero saldato i creditori sarebbero potuti partire, ma il giorno successivo giunse rapido il contrordine: gli ufficiali del viceré avrebbero dovuto sequestrare tutte le proprietà degli ebrei di P. ed evitare che essi risarcissero i creditori o esportassero i beni. Agli ebrei fu permesso di conservare soltanto gli averi necessari alla sopravvivenza quotidiana. Il 6 agosto un proclama emesso a P. proibì a chiunque di acquistare dagli ebrei e successivamente si ordinò di pattugliare le coste per impedire le esportazioni delle loro proprietà. I documenti che si susseguono nel giro di pochi giorni, se non di poche ore, sono contraddittori[115]. Il 29 agosto il viceré dispose di indagare sull’accusa di corruzione, rivolta ai funzionari della Corona e ad altri, da parte dagli ebrei[116] ed in seguito ordinò al secreto palermitano di lasciare partire coloro che rinunciavano alle proprietà. Il 6 novembre successivo, poi, su richiesta del rappresentante della Giudecca di P., egli ingiunse ai propri ufficiali di assistere gli ebrei all’atto della riscossione dei debiti da parte dei cristiani, in modo che gli stessi fossero poi in grado di pagare 125.000 fiorini alla Corona: una sorta di “riscatto” che le Giudecche erano tenute a corrispondere per poter partire. Al pagamento erano costretti anche gli ebrei convertiti perché la tassa si riferiva al periodo in cui essi vivevano ut Iudei[117].  L’11 dicembre 1492, dopo che gli ebrei di P. avevamo mostrato di aver pagato la loro parte dei suddetti  125.000 fiorini, il viceré comunicò ai propri funzionari che la partenza non poteva più essere rinviata e concesse loro di accettare il dono di 40 once offerto dalla comunità come compenso per i loro servizi[118].

Il 17 dicembre, in seguito a una serie di rapporti che denunciavano gli intenti dei capitani delle navi di defraudare gli ebrei dei loro beni, il viceré ordinò un’indagine su tutte le barche in partenza dal porto di P.[119]. Gli ebrei poveri furono imbarcati a spese della comunità e a tutti fu permesso di esportare 3 tarì per le spese di viaggio, un paio di lenzuola, una coperta, un cambio di biancheria personale e un vestito usato, che non fosse dei migliori. Nessuno poteva esportare oro, argento e oggetti preziosi. Da P., così come da Marsala, Catania e Messina, gli ebrei partirono[120].

Dopo il gennaio 1493 venne pubblicata a P. la lista delle proprietà ebraiche acquistate dai cristiani: case, negozi, vigneti e molto altro. Nella stessa occasione venne riportata la somma parziale delle vendite, ammontante a 3.061,9,10 once, e le tasse pagate per ogni transazione[121]. Dagli ebrei in partenza il viceré riceveva un donativo di 5.000 fiorini (compresi nei 125.000) per aver svolto in modo corretto i propri compiti, mentre, ai delatori degli ebrei che avevano occultato dei beni, venne riconosciuta la metà di quanto denunciato[122].

Nel maggio 1493 il viceré ordinò, infine, che tutti i convertiti fossero per un anno istruiti nella dottrina cristiana da Giacomo Fava: i cognomi assunti al momento del battesimo sarebbero stati quelli dei padrini cristiani[123].

 


* Questa voce contiene dei particolari che riguardano gli ebrei di tutta la Sicilia, che non vengono ripetuti in quelle sulle circa cento località siciliane con presenze ebraiche riportate in quest'opera.

[1] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 19 e 20. Sono queste due delle dieci lettere del papa, su un totale di ventisei, che riguardano gli ebrei siciliani. Pur essendo la Sicilia governata a quel tempo dai bizantini, la Sede Apostolica esercitava una grande influenza in campo religioso, politico ed economico sull’isola. L’argomento di cinque di queste lettere è la conversione degli ebrei al cristianesimo: il papa esplicitava allora la propria politica, tesa a utilizzare degli incentivipiuttosto che la forza, persino a costo di modificare alcune norme ecclesiastiche. Secondo quanto contenuto nelle stesse lettere, tale politica dovrebbe aver portato i suoi frutti.

[2] Ivi, Doc. 24.

[3] Ivi, Doc. 25.

[4] Ivi, pp. XI e XII. Sembra che nella prima metà dell’XI secolo, periodo a cui si riferisce anche gran parte dei documenti della Ghenizà, la maggioranza degli ebrei siciliani, se non tutti, parlassero l’arabo.

[5]Ivi, p. XII. I legami tra la diaspora ebraica e la Terra Santa, in particolare Gerusalemme, erano antichi e coinvolgevano gli ebrei che vivevano nei territori cristiani e musulmani.

[6] Ivi, Doc. 39.

[7] Ivi, Doc. 31-32, 34., 45, 46, 48, 60, 68, 92, 96, 143 e segg.

[8] Bresc, Arabi, p. 27; Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 29-30.

[9] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 42.

[10] Ivi, Doc. 50.

[11] Ivi, p. XX.

[12] Ivi, pp. XXI e XXII e Doc. 163-164.  Il termine naghid è usato per indicare una posizione di leadership e non come un ruolo ufficiale. Si suppone che Ibn al-Ba‘bā' fosse di origine ebraica: il nonno sarebbe stato un ebreo spagnolo che aveva abbracciato l’Islam. Ibn al-Ba‘bāba' era un mercante, proprietario di navi, frequentemente menzionato nella corrispondenza della Genizà, al quale i mercanti ebrei affidavano grandi quantità di denaro che riguardavano i traffici tra Sicilia, Egitto e Nord Africa, specialmente sui percorsi che toccavano Palermo e Mazara.

[13] Ivi, Doc. 174.

[14] Ivi, Doc. 186.

[15] Ivi, Doc. 206, 207 e 209.

[16] Ivi, Doc. 210.

[17] Ivi, Doc. 211.

[18]Ivi, Doc. 214 e 224. L’uso del termine servus camerae regi comportava indubbiamente un deterioramento nello status degli ebrei, anche se non si trattava di un riferimento alla stato di servitù, quanto ad una condizione particolare e distinta che comprendeva diverse restrizioni e alcuni privilegi.

[19] Ivi, pp. LII e LVI. L’eredità della lingua araba venne conservata dagli ebrei siciliani anche grazie al continuo afflusso di immigrati dal Nord Africa.

[20] Ivi, Doc. 248 e 252

[21] Ivi, Doc. 269-273.

[22] Ivi, Doc. 1729, 1748 e altri.

[23] Ivi, Doc. 1322,1330-1339 e 1341.

[24] Ivi, Doc. 1328a.

[25] Simonsohn, Jews in Sicily vol. 2, Doc. 349.

[26]  Ivi, Doc. 528-529.

[27] Ivi, Doc. 531; Bresc, Arabi per lingua, ebrei per religione, pp. 90-92.

[28] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 629.

[29] Ivi, Doc. 528-529; 3, Doc. 1366.  Altri interventi del re a difesa degli ebrei dalle angherie di ecclesiastici, funzionari civili o Inquisizione sono riportati nei documenti 1372, 1377, 1378.

[30] Ivi, Doc. 1370-1378.

[31] Ivi, Doc. 1360, 1554-1557, 1559-1560, 1570, 1611-1617 e numerosi altri.

[32] Ivi, Doc. 1656.

[33] Ivi, Doc. 1457, 1507, 1527.

[34] Ivi, Doc. 1671 e 1673.

[35] Ivi, Doc. 2933, 2970.

[36] Ivi, Doc. 2982. Il privilegio di Federico è un falso.

[37] Ivi, Doc. 3001, 3007, 3049 e 3154.

[38] Ivi, Doc. 3026, 3044, 3051, 3078

[39] Ivi, Doc. 3115, 3165, 3172, 3223, 3226, 3229.

[40] Ivi, Doc. 3924; vol. 7 4530, 4532, 4801.

[41] Ivi, Doc. 3495, 3497, 3713.

[42] Ivi , Doc. 3737.

[43] Ivi, Doc. 4049.  Nel 1475 il vicerè dichiara che il perdono include crimini di vario genere, e nel 1476 ordina di mettere in atto le sue disposizioni (Doc. 4139 e 4208)

[44] Ivi 7, Doc. 4542 e 4610.

[45] Ivi, Doc. 5177.

[46] Ivi, Doc. 5194 e 5217; vol. 8, Doc. 5238.

[47] Ivi, Doc. 24a. La data esatta dell’imposizione del segno distintivo non è mai stata stabilita con certezza, ma alcuni la fanno risalire ai califfi Abbasidi. 

[48] Senigaglia, La condizione giuridica degli ebrei in Sicilia, pp. 76-78.  

[49] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 165.

[50] Senigaglia, La condizione giuridica degli ebrei in Sicilia, pp. 77-79.

[51] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 196.

[52] Senigaglia, La condizione giuridica degli ebrei in Sicilia, p. 80 e segg.

[53] Senigaglia, La condizione giuridica degli ebrei in Sicilia., pp. 93s.

[54] Simonsohn, Jews in Sicily cit., Doc. 2627.

[55] Ivi, Doc. 2654.

[56] Alcuni esempi: Ivi, Doc. 214, 248, 262, 492, 2915, 3529 e 3537.

[57] Senigaglia, La condizione giuridica degli ebrei in Sicilia, p. 87.

[58] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 4339.

[59] Per esempio, Ivi, Doc. 5720.

[60] La cittadinanza a Palermo risale almeno al XII secolo, ma probabilmente esisteva già prima. Si veda Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 196; Colorni, Ebrei nel sistema del diritto commune, p. 1 e segg.

[61] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 108, 109, 135 e p. 97 e segg; Gil, Sicily 827-1072, p. 142 e segg.

[62] Simonsohn, Jews in Sicily, vol. 18, cap. 4.

[63] Ivi, Doc. 355°,  356, 1355-6, 2485, 2497, 2833.

[64] Ivi, Doc. 2478.

[65] Ivi, Doc. 2514, 2525 e 2528.

[66] Ivi 5, Doc. 2611a e 2612.

[67] Ivi, Doc. 2802.

[68] Ivi, Doc. 2808.

[69] Ivi, Doc. 3013, 3050, 3059, 3063, 3072, 3098.

[70] Ivi, Doc. 4233 e 4507.

[71] Ivi 7, Doc. 4490 e 4502.

[72] Ivi, Doc. 4962, 5073, 5196, 5212, 239, 5248, 5259-5260, 5321

[73] Ivi, vol. 18, cap. 4.

[74] Ivi , Doc. 5, 6, 10, 11.

[75] Ivi, Doc. 29, 40, 57

[76] Ivi, vol. 18, cap. 10.

[77] Simonsohn, Jews in Sicily 3, Doc. 1505.

[78] Ivi, Doc. 1463.

[79] Ivi vol. 4, Doc. 2066, 2068, 2077 e 2080.

[80] Ivi, Doc. 2066, 2068, 2077, 2080, 2850, 2857, 2860 e 2862.

[81] Ivi., Doc. 4180, 4230, 4238, 4239, 4296, 4365.

[82] Ivi.,  Doc. 4458. Dieci anni dopo il decreto dovrà essere riconfermato (Doc. 5226).

[83] Ivi, Doc. 27. Bresc, Arabi, p. 114 e segg.; Curti, La giudecca di Palermo, p. 132 e segg.; Di Giovanni, La topografia antica di Palermo, passim; Di Matteo, La Giudecca di Palermo, p. 61 e segg.; Giuffrida, Lu quarteri di lu Cassaru, p. 439 e segg.; Graditi, Fonti notarili inedite, p. 55 e segg.

[84] Bresc, Arabi, p. 26.

[85] Di Giovanni, Sul porto antico e su le mura, p. 93; Simonsohn, Jews of Sicily, Doc. 340-341.

[86] Simonsohn, Jews in Sicily., Doc. 3034.

[87] Ivi, vol. 18, passim; Di Giovanni, Sul porto antico e su le mura, p. 93 e segg.

[88] Ovadia da Bertinoro, Lettere, p. 37 e segg.; Simonsohn, Jews in Sicily, p. 8414 (vendita).

[89] Simonsohn, Jews in Sicily, vol, 18, cap. 11 e Doc. 3676 (studium).

[90] Ivi, vol. 18, cap. 11; Bresc, Livre et société en Sicilie, passim.

[91] Ivi, vol. 1, Introduction e passim; Gil, Sicily, p. 94 e segg.; Id., Sicily 827-1072, p. 161 e segg.

[92] Simonsohn, Jews in Sicily, p. XLIX e segg.; Stern, Un circolo di poeti siciliani ebrei, passim. Seri dubbi su alcune conclusioni di Stern ha espresso però Trasselli, Sugli ebrei in Sicilia, p. 42 e segg.  

[93] Simonsohn, Jews in Sicily, p. LII; Arieti, Mosè da Palermo, p. 55 e segg.; Cohn, Jüdische Übersetzer am Hofe Karls I, p. 50 e segg.

[94] Simonsohn, Jews in Sicily, p.LIII; Idel, The Ecstatic Kabbalah of Abraham Abulafia in Sicily, p. 330 e segg.; Chamizer, R. Achitubs aus Palermo, p. 423 e segg.

[95] Simonsohn, Jews in Sicily, vol. 18, cap. 11, 12.

[96] Ivi, vol. 1, Introduction; Gil, Jews in Sicily under Muslim Rule, p. 87 e segg.; Id., Kingdom of Ismael, vol. 1, passim; Simonsohn, Maritime Trade in the Eastern Mediterranean in the Eleventh Century, p. 65 e segg.

[97] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 174.

[98] Ivi,Doc. 138, 184, 193, 204, 205, 208, 217, 219; Zeldes-Frankel, Trade with Sicily, passim.

[99] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 215 e 216.

[100] Ivi, Doc, 266; Bresc, Arabi, p. 198.   

[101] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 206, 258 e 266.

[102] Bresc, Arabi, pp. 218s.

[103] Per esempio, Simonsohn, Jews in Sicily, pp. 6076, 6094,6095 6106, 6123, 6367, 6168, 6294,6350, 6500, 6543-6550, 6373-6382.

[104] Ivi, Doc. 2956.

[105] Ivi, Doc. 3895,  3899,  3906, 3930, 3945, 3761, 3766, 3793, 3884, 3890, 4012.

[106] Ivi,vol. 18, cap. 7. Giordano, Comunità e famiglie ebraiche a Palermo, p. 1353 e segg.;Giuffrida, Lu quartieri di lu Cassare, p. 449 e segg.; Ovadia da Bertinoro, Letters, p. 37 e segg, 41 e segg.

[107] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 5439, 5430, 5442, 5443, 5478.

[108] Ivi, Doc. 5454. Il 17 luglio il vicerè ribadisce questa posizione agli ebrei e alle autorità locali (Doc. 5559). Vi furono diversi casi di mariti che si convertirono e di mogli che rifiutarono di farsi cristiane.

[109] Ivi, Doc. 5456-5460, 5462, 5464.

[110] Ivi, Doc. 5465, 5472-5474, 5480, 5485-5486.

[111] Ivi,Doc. 5497; Ashtor, Fin du Judaïsme sicilien, p. 324; Peri, Restaurazione e pacifico stato, p. 97 e segg., 106; Precopi Lombardo, Bufera dell’espulsione, p. 176; Renda, Fine del giudaismo siciliano, pp. 25, 35 e segg., 102 e segg.; Trasselli, Sull’espulsione, pp. 5 e 8.

[112] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 5506, 5538; vol. 11, pag. 8897.

[113] Ivi, Doc. 5548, 5628.

[114] Ivi, Doc. 5573.

[115] Ivi, Doc. 5576-5577, 5586, 5593.

[116] Ivi, Doc. 5633.

[117] Ivi, Doc. 5652, 5655, 5763; Precopi Lombardo, Bufera dell’espulsione, p. 181 e segg.

[118] Ivi, Doc. 5850. Il pagamento venne realizzato in tre parti, una prima subito, in contanti, una seconda dilazionata e una terza in beni immobili.

[119] Ivi, Doc. 5865

[120] Precopi Lombardo, Bufera dell’espulsione, p. 181.

[121] Simonsohn, Jews in Sicily, Doc. 5876.

[122] Precopi Lombardo, Bufera dell’espulsione, p. 185.

[123] Precopi Lombardo, Bufera dell’espulsione, p. 184 e segg.

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