Verona

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Verona

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Verona (וירונה)

Capoluogo di provincia. Sita ai piedi dei colli Lessini e non lungi dallo sbocco della valle dell’Adige, fu fondata dai Galli (105 a.C.) e divenne municipio romano dal 49 a.C. Nel secolo V  fu sede di Teodorico e, nel VI, di Alboino. Nel 1136 divenne libero Comune e fece parte della Lega lombarda, venendo in seguito dominata dalla signoria di Ezzelino da Romano (1232) e degli Scaligeri (1259). Nel 1387 fu assorbita dai Visconti e poi, nel 1405 da Venezia, sotto cui rimase sino all’ingresso delle truppe napoleoniche nel 1796.

Una presenza ebraica a V. data presumibilmente dall’alto Medioevo, se non addirittura all’epoca romana[1]. Alcuni storici ritengono che gli ebrei, in seguito a gravi contrasti con la popolazione cattolica di Ravenna, avessero abbandonato la città, rifugiandosi  a V., che, all’epoca, era  sotto il dominio di Teodorico (522). Con l’aiuto di quest’ultimo e del Maestro del Palazzo reale, Trivene, essi avrebbero ottenuto dai ravennati la ricostruzione della sinagoga: non ci resta, tuttavia, documentazione circa il ritorno di tutta la Comunità o solo di una parte a Ravenna e, pertanto, non è possibile far risalire con certezza a quest’epoca la formazione di una Comunità veronese[2]. Il nucleo ebraico cittadino è attestato con sicurezza solo nel secolo X, quando il vescovo Raterio ingaggiò un’aspra battaglia contro di esso, stigmatizzando, in particolare, la familiarità mostrata dalla popolazione cristiana, complice la connivenza dei governanti[3]. Da un’osservazione contenuta nell’opera Sefer ha-ibbur del celebre grammatico ed esegeta spagnolo Avraham ibn Ezra, risulta attestato l’autore stesso nel 1146 a V., ove compose questa e altre opere[4]

Altri documenti della fine del XII secolo e dell’inizio del XIII confermano la presenza ebraica in città, menzionando, ad esempio, tale Habram judeus nel 1194 e, nel 1203 e 1204, i fratelli Elia e Samuele, che vendevano ad un cristiano una casa con terreno, confinante con la proprietà di un altro ebreo, magister Liazarius[5], e ancora nel 1223 un certo Benedetto, che acquistava per sé e per tale Poppone  un terreno[6].

Dagli incartamenti dell’Ospitale e degli Esposti, sappiamo che gli ebrei di V. erano in contatto e in relazioni di affari con i correligionari della Germania[7].  

All’inizio del XIII secolo esisteva a V. un’accademia talmudica, capeggiata da Eleazar di Shemuel da V., presumibilmente la prima di una certa importanza nell’Italia settentrionale e legata ai rabbini tedeschi[8].

L’esistenza di un tribunale rabbinico in città è attestata, poi, da un documento del 1239[9], mentre all’inizio del secolo si trova menzionata una hora iudeorum, da identificarsi presumibilmente con la hora campsorum (su uno dei lati della attuale piazza delle Erbe), che indicava la zona dove esercitavano i prestatori o cambiatori[10].  

Nel XIV secolo è documentata la presenza di almeno un feneratore, tale Bonaventura judeus, che, nel 1382, prestava al tasso del 20% al Capitolo dei canonici della cattedrale, prendendo tra l’altro in pegno oggetti di culto[11].

Da un documento notarile del 1398 sappiamo che Abraam, residente a Mantova, ed Elias di Rimini avevano fondato una società creditizia a V. nel 1390[12], mentre i primi accenni ad un rapporto del Comune con i feneratori ebrei risale al 1408, quando fallì una trattativa sul prestito al tasso del 4% super pannis e del 5% super argento et pignori bus.Tuttavia, a partire dal primo ventennio del XV secolo, le condotte tra V. e gli ebrei  implicarono un prestito al 20 e al 30% , nonostante i tentativi degli organi di governo municipali, che miravano a far ridurre il tasso al 15% sull’esempio di Mestre[13]. Esaminando i Capitula et Pacta cum Iudeis del 1427 e del 1435, capiamoche il motivo che aveva indotto il Consiglio civico ad ammettere gli ebrei era duplice: la necessità di sopperire ai bisogni economici della popolazione, da un lato, e, dall’altro, il desiderio di preservare i cristiani dalle pene infernali previste per l’attività di prestito, secondo il principio de duobus malis eligere minus malum[14].  

In questo periodo i titolari degli svariati banchi ebrei d’origine tedesca, provenienti da Mantova, dal Veneto orientale e da Treviso, ma anche gli italiani, e soprattutto i padovani – come Salomone del fu Emanuele da Padova -  erano attivi nel prestito mentre la presenza di immigrati recenti dalla Germania sembra diventare, in seguito, meno rilevante[15].  

Nel primo trentennio del Quattrocento, inoltre, vi furono almeno due processi contro feneratori ebrei accusati di  “tosare” le monete e il fallimento del banco di Salomone del fu Musetto da Perugia di Reggio Emilia, residente a in città.

Successivamente, i banchi feneratizi diminuirono, ma si distinse per continuità quello di Manno del fu Maier, d’origine tedesca, trasferitosi in seguito a Soave[16].      

Nel 1447 il Consiglio cittadino ottenne l’espulsione dei banchieri, mediante una ducale accompagnata alla proibizione di stipulare di fatto nuove condotte, eccetto a Legnago, Soave e  Peschiera. L’antefatto di quest’espulsione va trovato nell’accentuazione, da parte di V., del controllo diretto sul distretto, dopo la ridefinizione dei rapporti tra quest’ultimo, la città, e Venezia, iniziata a partire dalla guerra veneto-viscontea del 1437-1441.  Esempio della forza acquisita da V. in questo periodo è l’ottenimento dell’espulsione dei feneratori ebrei, nonostante l’opposizione del governo centrale. Un’altra conquista della città fu l’abbassamento della quota di imposta diretta ordinaria che essa ed il distretto dovevano pagare, con conseguente abbassamento della necessità di liquido ai fini fiscali e, dunque, dell’attività creditizia ebraica[17]. Infatti, a differenza di quanto era accaduto, sia pure episodicamente, nel 1438, il Comune di V. non dovette ricorrere al prestito ebraico per far fronte alla richieste fiscali veneziane, com’è attestato, ad esempio, dalla protesta di Manno del fu Maier che, ancora quattro anni più tardi, dovette rivolgersi alle autorità veneziane per riavere il denaro prestato a V. a fini fiscali[18].

Dopo la chiusura dei banchi ebraici veronesi, i cittadini dovettero rivolgersi a quelli del territorio (Soave e Villafranca), con i conseguenti problemi che tale procedura comportava[19].

A V. anche i titolari del banco risultavano inseriti nell’estimo civico: nel 1434 Minimano di Manno e soci risultavano allibrati per una quota molto alta, mentre nella seconda metà del secolo un solo ebreo era allibrato per una quota medio-alta, mentre gli altri versavano in modeste condizioni finanziarie e vi erano anche alcuni casi di ebrei dediti al gioco o al vagabondaggio[20].

Due ducali, scritte, nel 1480, da Giovanni Mocenigo alle autorità di V., in seguito alle lagnanze contro l’eccessiva usura ebraica, stabilirono il tasso di interesse esigibile al 15%, sia per la città che per il distretto; inoltre, i feneratori avrebbero dovuto recare sugli abiti la rotella, per distinguersi dai cristiani. Cinque anni dopo, il Mocenigo tornò a ribadire il limite posto all’eccessiva usura praticata.    

Il crescente atteggiamento sfavorevole agli ebrei condusse la città a recepire sempre di più la predicazione dei Minori Osservanti, che promuovevano l’istituzione del Monte di Pietà, avvenuta nel 1490: nove anni più tardi, gli ebrei vennero espulsi da V.[21] .

Agli inizi del XVI secolo persisteva nel Consiglio cittadino la volontà di tenere lontani gli israeliti da V., ma, nel 1518, essi erano tornati in città e il Consiglio, riferendosi a tale Isach, che si diceva fenerare al 40%, commentava: La qual excessiva usura induce de li christiani ad tenir bracio et compagnia con lori: et non solum per la usura ma del conversare de dì et nocte con convivi hic et inde et clam et palam […][22].

Nella seconda metà degli anni Venti del secolo, le autorità veronesi chiesero a Venezia il permesso di proibire agli ebrei di fenerare, ricevendo un consenso teorico, da parte del doge, ma procrastinandolo allo spirare del tempo della restituzione dell’ultimo prestito fatto dagli ebrei alla Signoria.  Con l’appoggio, più o meno velato, di Venezia, gli ebrei continuavano a fenerare, mentre l’atteggiamento del ceto dirigente cittadino si fece sempre più ostile. Nel 1547, dietro ricorso dell’Università degli Ebrei ai Capi del Consiglio dei Dieci, il doge Francesco Donà, ribadendo che l’unico giudice in materia era il podestà veneziano, deprecò che i cittadini veronesi nelli soi Consigli vexano et perturbano molto li Hebrei habitanti in quella Città con prohibir ad ognuno che non li paghino case ad affittoet con haver fatto inquisitori che habbino ad inquirere quanto è sta fatto per essi Hebrei  de più et più anni in qua[23].  Tuttavia, nello stesso anno, il doge consentiva che agli ebrei venisse proibita l’attività feneratizia, cedendo alle argomentazioni degli oratori veronesi che dichiaravano che il Monte sopperiva ormai alle necessità economiche della popolazione.

Come l’erezione del Monte era stata promossa dagli Ordini mendicanti, così il divieto del prestito ebraico, fu ottenuto dopo il lungo periodo di vescovato di Giammateo Giberti (1524-1543), legato per molti versi alle istanze religiose dei frati[24].        

A partire dal 1585, iniziò il tentativo di chiudere gli israeliti in un ghetto, conclusosi nel 1599, sebbene già nel 1579 il Senato veneto si fosse dichiarato favorevole a questo provvedimento[25]. A favore della segregazione ebraica erano sia la Chiesa sia il Consiglio cittadino (il Consiglio dei Dodici e Cinquanta), cui non piaceva l’agiatezza raggiunta dagli ebrei e l’espandersi delle loro botteghe in molte contrade della città, la qual cosa causa un troppo e frequente e scandaloso commercio tra gli huomini e le donne Christiane con li predetti Hebrei[26].     

Dopo varie ricerche, nel 1599, fu trovato il luogo adatto ad essere ridotto a ghetto e l’Università degli Ebrei, rappresentata da Moisé Michel, dal rabbino Marco Bassan e da Sabadin Grego, dette il proprio assenso, acconsentendo alle spese della clausura[27].

All’inizio degli anni Novanta del secolo, diversi ebrei del Ducato di Milano, prevedendo l’espulsione, emigrarono altrove, come quello Shemuel ha-Levi, detto Bonamin, che da Cremona venne a V. Dopo la cacciata del 1597, svariati esuli si recarono nella città, incrementando la Comunità locale[28].  

Nel 1590 iniziò un processo, conclusosi due anni dopo, contro sei ebrei veronesi (Abramo de Maniani, Jacob Rappo Franzoso, Marco Bassani, rabbino, e Grassino, suo figlio, e i fratelli Donato e Viviano Sanguine), accusati di concorso nel reato di promuovere il ritorno all’ebraismo di due neofiti, facendoli poi allontanare dalla città. L’accusa era partita da Mattia o Matio Bassani, imparentato con due degli accusati e propenso a convertirsi lui stesso, che si era presentato spontaneamente all’Inquisizione e l’istruttoria si svolse nella Camera della Santa Inquisizione in Vescovado, alla presenza della Curia e del podestà di V., Giacomo Bragadin. Nonostante vi fossero evidenti indizi che avrebbero dovuto suggerire una grande cautela nel prendere per vera l’accusa (una ben nota e annosa ostilità tra l’accusatore e gli accusati, l’irreperibilità del principale di questi ultimi, Abramo de Maniani, e l’assenza dei convertiti, un quattordicenne nipote di Marco Bassani e un commerciante mantovano, trasferitosi a V., dove si era convertito), le condanne furono severe, a riprova del clima poco favorevole dell’epoca[29]. Dalle carte processuali si evince che vi erano stati sei casi di conversione, negli anni precedenti[30].   

L’anno successivo, furono processati i fratelli Vivian e Donà Grassini, originari di Sanguinetto (che faceva parte del territorio di V.), e trasferitisi in città, dove erano stati denunciati da un mercante cristiano che, dopo aver operato con loro, non era rimasto soddisfatto dei conti. Dal processo era emerso che i Grassini mimetizzavano il prestito sotto forma di merci date in cambio di oggetti, secondo una procedura che non doveva essere estranea anche ad altri mercanti ebrei veronesi[31].

All’inizio del XVII secolo, un ebreo, tale Giuseppe del fu Abramo alias Anselmo, fu processato per presunto omicidio rituale e assolto, grazie alla difesa del suo avvocato cristiano che riuscì a dimostrare, Bibbia alla mano, l’avversione ebraica per il sangue e, conseguentemente, l’incongruenza dell’accusa[32]

Nel 1630 scoppiò la peste, mietendo vittime anche tra gli ebrei: secondo uno storico ottocentesco, il ghetto in un primo tempo non sarebbe stato toccato dall’epidemia, provocando l’invidia della popolazione cristiana, che vi avrebbe propagato il contagio volutamente[33].

All’inizio dello stesso anno, per sfuggire alla peste che aveva colpito Venezia, alcuni sefarditi emigrarono a V. e nella seconda metà del secolo, vi si stabilì, insieme alla moglie, il noto medico e filosofo Yitzhaq Cardoso, ricevendone il permesso dalla Comunità, che confidava nella sua opera di medico in favore dei poveri[34]. Oltre ai Cardoso, cominciarono ad affluire svariati mercanti marrani, guidati da Giovanni Novarra e da Mosheh Gaon. Prese domicilio a V., morendovi nel 1650, anche l’eminente giurista portoghese Antonio Dias Pinto, tornato all’ebraismo, dopo aver ricoperto a Firenze prestigiose cariche legate al diritto ecclesiastico[35]. Le famiglie marrane più note erano, oltre ai Machorro e ai Nuñes Forte, quella di Aboab Falleiro (che appena giunta in Italia si insediò a V.) e quella di Ezechiel de Castro, noto medico e autore di opere scientifiche in latino[36].  

Nel 1745 vi fu una sommossa popolare contro gli ebrei, di cui, tuttavia, non si conoscono i particolari[37].

La seconda metà del Settecento fu, del resto, particolarmente dura per la Comunità di V.: le condizioni della “Ricondotta” del 1777, impedendo agli ebrei ogni attività nell’industria, nel commercio e nelle arti, resero le condizioni economiche sempre più precarie, inducendo non pochi ad abbandonare la città. Alla riduzione numerica dei membri della Comunità faceva riscontro l’aumento delle famiglie indigenti, cui essa doveva provvedere, e a ciò si aggiunse un’epidemia, scoppiata nel ghetto nel 1785, seguita, l’anno dopo, da un incendio di vaste proporzioni, che provocò sei morti, decine di feriti e ingenti danni materiali[38].  

Nel 1786, in seguito alla rivolta del popolo veronese contro i francesi, ebbero luogo vari disordini in città, tra cui il saccheggio del ghetto[39].

Nel 1796 entrarono a V. le truppe napoleoniche e le porte del ghetto furono abbattute e bruciate sulla pubblica piazza[40].

Vita comunitaria

La prima menzione di una universitas iudeorum risale al 1434, ma non è sicuro che il  termine avesse un carattere rigorosamente istituzionale[41].

Dai documenti che ci restano, a partire dagli anni Trenta del XVI secolo, emerge che la Comunità si era organizzata inizialmente sulla base di un’assemblea generale dei capi-famiglia, che eleggeva le istituzioni e chi doveva farne parte: un Consiglio (vaad) di 11 membri con due dirigenti (parnassim), due scribi, tre addetti alle istituzioni di assistenza comunitaria, un inserviente per il consiglio della Comunità, gli addetti a stabilire le tasse e i giudici. Già in questa prima fase di sviluppo, il consiglio chiese alle autorità governative il permesso di comminare pene e multe e nominò un rabbino fisso (il primo dei quali fu Yohanan Ben Saadya). Negli anni 1540-1545, il numero dei parnassim fu portato a tre e fu nominato un responsabile dell’ostello e del ristorante della Comunità. Inoltre, fu eretta la sinagoga, venne stabilita una struttura giuridica comunitaria e furono revisionati alcuni statuti (takkanot) di rilievo. Furono nominati tre (poi quattro) addetti alle necessità degli studenti della yeshivah e ad altre esigenze interne alla vita comunitaria. Furono nominati tre rappresentanti della Comunità presso le autorità e un rappresentante a Venezia. Nella seconda metà del XVI secolo, presero un assetto stabile le strutture comunitarie e, tra l’altro, fece la propria apparizione il Piccolo Consiglio o Consiglio minore (vaad qatan), composto, nel 1572, di sette membri (portati a dieci, cinque anni dopo), di cui tre erano parnassim[42].  

Dopo l’istituzione del ghetto, comparvero addetti alla sua custodia, alla prevenzione degli incendi, al pagamento degli affitti e alla Casa di Studio (che si trovava nella Loggia di casa Tonielli); vennero istituiti, inoltre, una nuova sinagoga, un ospizio per i poveri e per i forestieri e un tribunale permanente per dirimere le controverse finanziarie, sotto la guida del rabbino Mordekhay Bassan[43].

Il gruppo sefardita, emigrato da Venezia nel 1630, si era posto sotto l’egida della Comunità ashkenazita, assimilandovisi, in cambio della piena parità di diritti e di doveri. Il gruppo sefardita sopraggiunto in seguito, capeggiato dagli Aboav (Aboaf), invece, decise di mantenere le proprie iniziative culturali e religiose e di non recidere i legami con la Comunità veneziana di provenienza. Tra le richieste dei nuovi arrivati vi fu il mantenimento del rito sefardita, corredato da una propria sinagoga e da una propria yeshivah, che la Comunità ashkenazita accettò, a patto di “neutralizzare” l’autonomia sefardita rispetto alla maggioranza ashkenazita, tramite l’estromissione della minoranza “separatista” dalla gestione del potere comunitario, cioè dal diritto di partecipazione al ballottaggio. In un tempo relativamente breve, i sefarditi che avevano optato per il mantenimento della propria identità, iniziarono a lottare per la parità dei diritti con gli ashkenaziti, dando inizio ad un conflitto, in cui si giovarono dell’intervento in loro favore dei sefarditi veneziani presso la Serenissima. L’esempio dei sefarditi non “assimilati” alla Comunità ashkenazita, spinse anche quelli che si erano integrati a riunirsi ai confratelli della “Nazione spagnola”, ottenendo anch’essi il diritto di ballottaggio, grazie all’appoggio dei sefarditi veneziani[44]. Tra le altre innovazioni, che emergono dai registri della comunità ebraica di V. sino alla metà del secolo XVII, vi sono la decisione di non far partecipare al ballottaggio i celibi, l’istituzione di un fondo assistenziale per i poveri di Gerusalemme, l’istituzione di un corpo preposto alla guardia interna del ghetto (mishmar ha- ghetto)[45], e tre funzionari (memunim) preposti agli orfani, dopo la strage compiuta dalla peste.

Un’altra decisione importante fu quella di tenere nascoste ai cristiani le date delle ricorrenze ebraiche, per evitare le reazioni sfavorevoli delle autorità, ostili alla partecipazione dei cristiani a tali ricorrenze. Interessante, circa le condizioni del ghetto, il divieto di operare cambiamenti nella struttura degli appartamenti, data la precarietà degli edifici[46].

Dopo che la famiglia Aboav ebbe abbandonato la città, verso il 1650, il conflitto tra ashkenaziti e sefarditi riprese, sino a sfociare, tre anni più tardi, nella soluzione di creare tre Comunità separate: ashkenazita, sefardita e “generale”[47]. Tra le altre decisioni, riguardo ai sefarditi, vi fu quella di partecipare alle tasse per le spese comuni e, inoltre, su loro richiesta si decise che le risoluzioni comunitarie fossero scritte in ebraico (secondo l’uso ashkenazita), ma tradotte anche in italiano[48].

Ognuna delle due “nazioni” aveva un rabbino proprio, che avrebbe controllato le decisioni prese dalla propria Comunità, stabilendo quali dovessero essere attuate dalla “generale”; il vaad qatan comune avrebbe dovuto dirimere le controversie tra le due nazioni. Venne sancita la presenza della sinagoga sefardita e venne stabilito che ognuna delle due nazioni gestisse autonomamente le spese per la propria sinagoga e per il relativo rabbino. Inoltre, gli ashkenaziti decidevano circa il permesso di accogliere nel ghetto nuovi ashkenaziti o italiani, mentre i sefarditi, decidevano rispetto a ponentini e levantini e la Comunità “generale” si sarebbe occupata degli eventuali correligionari di altra origine. La convenzione stipulata tra le due nazioni aveva valore quinquennale.

Una nuova crisi, motivata dall’esazione delle tasse, scoppiò però tra le due “nazioni” all’inizio del XVIII secolo, e i sefarditi riuscirono ad ottenere l’intervento del governo veneziano a loro favore; in seguito, il prolungato soggiorno nella città e la relativa partecipazione all’atmosfera italiana comune sembrarono prevalere, eliminando i contrasti[49]

Tra la seconda metà del secolo XVII e l’inizio del XVIII, si verificarono cambiamenti nella struttura della Comunità e nel suo gruppo dirigente, dovuti alla peggiorata situazione economica e ad un nuovo sistema di tassazione. Gli aggravi fiscali misero la Comunità in serie difficoltà, aumentate dalla proibizione da parte delle autorità di far ricorso a ulteriori prestiti, ottenuti da fonti diverse, soprattutto cristiane. In seguito a tali difficoltà, venne abbassata la tassa minima necessaria per votare ed essere votati nelle varie commissioni e cariche. Fu abbassata la tassa per partecipare al vaad qatan, abbassando, al contempo, anche il numero dei suoi membri a sette, inclusi i tre parnassim. Inoltre, le autorità governative intervennero direttamente negli affari interni, come attesta la presenza del podestà alle elezioni dei parnassim del 1691, incontrando l’appoggio della Comunità stessa. Nel 1692 essa si rivolse alle autorità veneziane per ottenerne il consenso al proprio sistema di valutazione delle tasse imponibili di gestione del potere. Il modello proposto dalla Serenissima per tutte le Comunità ebraiche sottoposte era quello di Venezia: pertanto, vennero introdotte innovazioni a V., tra le elezioni dei membri del vaad gadol (Consiglio Grande) gestite dai contribuenti alle tasse e il numero dei membri del vaad gadol stabilito a trenta[50].

Nel 1693 fu iniziato il nuovo sistema di tassazione detto della “cassella” (o “casella”)[51], in cui veniva stabilita in modo segreto la somma da pagare per le  tasse, con la conseguente impossibilità di eleggere i membri dei vaadim e gli incarichi, in base alle tasse pagate. Di conseguenza, si decise di rifarsi alle cifre minimali pagate prima del 1693, mentre chi avesse voluto essere eletto, senza aver pagato a suo tempo tali cifre, avrebbe dovuto giurare in presenza del rabbino della Comunità di farlo. Tale provvedimento fu approvato dal podestà di V.[52].         

I contribuenti erano considerati non in base agli introiti, ma al capitale. Già nella seconda metà del secolo XVII la Comunità aveva assunto un direttore amministrativo con il compito di controllare il debito crescente e nel 1672 l’esazione delle tasse venne affidata a un cristiano, con l’intento di aumentare gli introiti. Le controversie legali che travagliarono, in questo periodo, la Comunità condussero poi all’assunzione in pianta stabile di un avvocato cristiano[53].

Tra gli Statuti della Comunità vi fu il divieto del 1561, in seguito rinnovato, di rivolgersi alle istanze cristiane, senza il suo permesso[54].

Verso la metà del XVIII secolo, la Comunità tentò di far fronte al carico fiscale crescente e alla resistenza dei locali al pagamento delle tasse, cercando di imporre una tassa ai mercanti ebrei forestieri, che si recavano in città in occasione delle fiere. Tale decisione provocò una lunga controversia con le Comunità di Mantova, Ferrara e Modena, cui parteciparono (negli anni 1748-1751) rabbini italiani e tedeschi, giungendo alla soluzione che si dovesse desistere dalla misura[55]

Tra le varie confraternite del ghetto, la più antica e la più importante era la Confraternita o Opera Pia di Misericordia (gemilut hasadim), fondata per aiutare i bisognosi verso la metà del XVI secolo, da quaranta “Confratelli”, che vi contribuivano con una quota fissa[56].  

Attività economiche

Nel primo trentennio del XV secolo, i banchi feneratizi ebraici risultavano essere sette, ridotti successivamente a tre o quattro[57]. Da una ducale del 1486 diretta ai Rettori di V. risulta che agli ebrei era vietato estendere l’attività alla “negoziazione”, cioè al commercio. Nel 1547, invece, in sostituzione del prestito venne concesso loro il solo commercio[58]. Tuttavia, ad onta del divieto di fenerare, si fa strada, a partire dai documenti disponibili, l’ipotesi che gli ebrei continuassero a prestare con modi subtili (cioè camuffando il prestito dietro transazioni commerciali di vario genere), sino al XVIII secolo[59].

Secondo un documento del 1657 il monopolio dei tabacchi nei territori della Serenissima era, all’epoca, nelle mani degli ebrei d’origine marrana[60].

In pieno XVII secolo alcune famiglie economicamente prominenti (i Verlengo, i Cuzzeri, i Navarra, i Grego, i Mariani, i Gaon, i Sacerdote) erano in proficui rapporti di affari con la Riviera di Salò, ricevendo refe e inviando tessuti. Inoltre, gli ebrei sembravano attivi, nel XVIII secolo, nell’intermediazione nell’esazione dei pubblici dazi[61].

Per tutto il primo trentennio del secolo, inoltre, essi detennero l’appalto degli alloggi della fanteria (milizia pedestre)[62].

Demografia

All’epoca della segregazione nel ghetto, la popolazione ebraica era intorno alle 400 persone[63], ma la peste del 1629-1630 le dimezzò[64].    

Nel 1751 risultavano abitare nel ghetto 933 ebrei[65], mentre nel 1756 era attestata la presenza di 914, ridotti a 881 nel 1766 e a 872 nel 1783[66].

Quartiere ebraico e ghetto

Da un documento della fine del XVI secolo sappiamo che gli ebrei si erano originariamente insediati a V., prendendo dimora nella cosiddetta bina degli hebrei, una stretta via chiamata in seguito vicolo Crocioni, vicino alla centrale piazza delle Erbe. Il ghetto invece avrebbe dovuto essere eretto in un luogo adiacente alla piazza delle Erbe, chiamato “sotto i tetti”, da cui era possibile attingere acqua dalla fontana della piazza, alimentata dal rio di Avesa[67].   

Dopo che l’istituzione del ghetto era stata decisa e si era giunti ad un accordo circa il luogo, il Consiglio generale della Comunità ebraica nominò, nel 1599, un comitato di 18 membri, incaricato di condurre le trattative con i proprietari delle case dell’area in cui esso sarebbe stato costruito, di effettuare la ripartizione degli spazi abitativi e delle botteghe fra i membri della Comunità e di stendere lo Statuto. L’anno successivo, il comitato terminò il proprio lavoro, dopo aver nominato tre “Conservatori” dello Statuto del ghetto, ai quali erano anche affidati l‘ordine e la pulizia delle strade. La Comunità istituì, inoltre, la guardia notturna, autorizzata ad essere armata, e riuscì ad ottenere il controllo delle guardie municipali, addette alla custodia delle porte, ottenendo le chiavi della sede di queste  guardie[68]. Gli ebrei entrarono, pertanto, nel recinto del ghetto nel 1600[69]. Il Roth, sulla base di documenti incompleti, riteneva che l’ingresso fosse stato festeggiato dagli ebrei veronesi, con una reazione apparentemente paradossale, ma consona all’ostilità anti-ebraica di quel tempo, “con una celebrazione annuale a imitazione dell’antico Purim, in commemorazione di ogni speciale manifestazione del favore Divino”[70], suggellata da un inno speciale, Hallel gadol naassa. Da una documentazione più attendibile si evince, tuttavia, che i festeggiamenti furono fatti per il “miracoloso” scampato pericolo di rimanere chiusi nel ghetto dal di fuori del 1607. Fu tale “miracolo” a dare occasione al medico e rabbino Shemuel Meldola di comporre l’inno Hallel gadol nel 1615[71].

Con l’incremento della popolazione ebraica e con la prospettiva di altre famiglie di ponentini, che desideravano stabilirsi a V., sorse il problema di ingrandire il ghetto, per cui il Consiglio civico decise l’acquisto di nuove case, con l’approvazione del doge Carlo Contarini. Ai nuovi arrivati fu destinata l’area tra via Pellicciai e via Mazzini, estendendosi sino a via S. Rocchetto; due nuove porte furono costruite, una verso via Mazzini, l’altra verso via Pellicciai e il nucleo abitativo così ottenuto fu chiamato “Ghetto nuovo”, unito al “vecchio” da un corridoio interno. Nel “Ghetto nuovo” si trovava la cosiddetta “Corte spagnola” (demolita, in seguito, come tutto il resto)[72].         

Sinagoghe

Nel 1601 venne inaugurata la sinagoga ashkenazita[73].

Dopo l’insediamento del gruppo sefardita, capeggiato da Shemuel Aboab, venne costruita nella cosiddetta “Corte spagnola” una sinagoga, al quinto piano di un edificio che si affacciava sulla piazza delle Erbe. Demolito il ghetto (inclusa la “Corte spagnola”), gli oggetti e gli arredi sacri della sinagoga sefardita furono trasferiti nell’attuale[74].   

Cimitero

Nei Capitula del 1427 veniva menzionato il cimitero ebraico che avrebbe dovuto essere ubicato in Campomarzo, un vasto appezzamento di terra, sito sulla riva sinistra dell’Adige, al di là del Ponte delle Navi[75]. Questo cimitero, detto di Campomarzo o Campo Fiore, fu in uso sino al 1780 circa. Dopo la peste del 1630, mancando lo spazio per tumulare l’esorbitante numero di salme, si dovette sovapporre un nuovo strato di terra per seppellirvi i morti.

Nel 1644 gli ebrei chiesero ed ottennero, non senza difficoltà, un piccolo terreno adiacente per ingrandire il cimitero ed in seguito fu utilizzato un nuovo luogo, sito in Porta Nuova[76].

Nell’antico cimitero di V. si trovavano le tombe di maggiorenti ebrei d’origine marrana, come il presidente Salomone Machorro (1734), l’officiante o Hazan Abraham Nuñes Forte, con un’insegna raffigurante Sansone che squarcia il leone, (1714) e David Mendes Lopez (1671)[77].

Rabbini, dotti, personaggi famosi.

Visse qui, all’inizio del XIII secolo, il tossafista Eliexer ben Shemuel da V. (nonno del filosofo e medico Hillel di Shemuel da V.), in rapporto con i rabbini tedeschi. Scrisse tossafot al Talmud (in particolare al trattato Bava Batra) ed i suoi responsi rabbinici a Yitzhaq di Mosheh di Vienna (detto Or Zarua) sono citati nel Shibbolet ha-Leqet (nn. 13, 237, 247, ediz. Buber, 1866) e nel Sefer Yissur ve-hetter (n. 9, pubblicato in Ha-Segullah, I, 1934), ambedue di Tzedeqyah ben Avraham.  

Eliezer e Yeshayahu ben Mali da Trani (il Vecchio) vennero definiti dall’Or Zarua “i due re d’Israele”. Yeshayahu il Vecchio (morto prima del 1260), di illustre famiglia rabbinica e in contatto con i rabbini tedeschi, fu autore di rinomati commenti talmudici e pesaqim (o decisioni halakhiche). 

Soggiornò a V. alla corte di Cangrande della Scala, nel 1311, Manoello giudeo o Immanuel di Shelomoh da Roma, che descrisse la corte scaligera in un sonetto (o “frottola”), dal titolo: Bisbio di Manoello giudeo a magnificenza di Ms. Cane della Scala[78].

Tra i rabbini del XVI secolo, vanno menzionati Yohanan ben Saadyah e Yoetz ben Yaaqov. Shemuel Aboab (1616-1694), originario di Amburgo, giunse in giovanissima età a Venezia, dove studiò con il rabbino David Franco, sposandone, in seguito, la figlia. Dopo essere stato rabbino a V., esercitò a Venezia: rinomato per le sue conoscenze talmudiche e per la sua vasta cultura generale, si adoperò a favore degli ebrei di Palestina, raccolse fondi per riscattare gli ebrei di Kremsier, fatti prigionieri dagli svedesi e fu tra gli oppositori del sabbatianesimo[79].

Tra i medici, vanno menzionati Shemuel Meldola (che fu anche rabbino), e, più di un secolo dopo, Leon Basilea, protomedico della città, che pubblicò nel 1790 lo scritto Dell’inoculazione del vaiuolo in tempo di epidemia del morbo stesso[80]

 Menahem Mordekhay Bassani (c. 1632-1703), dal 1666 predicatore alla sinagoga ashkenazita di V. e, in seguito, rabbino della Comunità veronese, scrisse opere di preghiera e di ritualistica e una serie di sermoni morali. Fu in relazione con il polemista cattolico romano, Fra Luigi Maria Benetelli[81].

Nel XVIII secolo, degno di nota è Menahem (Mandolin) Navarra[82], che scrisse l’opera Penei Yitzhaq (Verona 1743), in cui incluse il trattato sul divorzio e quello sullo scalzamento (Halitzah), scritto dall’avo Mordekhay Bassani, e vari poemi d’occasione.

Tra le famiglie che si distinsero per rabbini e studiosi, oltre alla famiglia Bassani, vanno menzionate anche le famiglie Hefetz (Gentile), Marini e Pincherle.

Nel XVIII secolo troviamo a V. anche un artista, tale Yaaqov Carpi, che sarebbe emigrato, poi, ad Amsterdam facendosi[83] una ricca clientela.

Stampa ebraica

Nell’ultimo decennio del XVI secolo vennero stampati alcuni libri in ebraico nella tipografia di Francesco delle Donne, tra cui il libro in yiddish Pariz und Viena (1594). Il più importante tra i testi ebraici fu il Tanhumah (1595), raccolta di omelie intorno intorno alle lezioni sabbatiche del Pentateuco, opera di Yaaqov di Gershon Bak di Praga e di Avraham di Shabbetay Bat-Shevah (o Basevi). Cinquant’anni più tardi, la stampa ebraica riprese ad opera di Francesco de’ Rossi (1645-52), su iniziativa del rabbino Shemuel Aboab (e dei suoi figli, Yaaqov e Yosef) e di Yaaqov Hagiz, con la pubblicazione della prima parte dell’ultima edizione della Mishnah, con il commento Etz Chayyim (il resto dell’opera venne pubblicato a Livorno nel 1650). Era attivo qui quale compositore di caratteri ebraici Avraham Ortona ed altri testi vi furono stampati alla fine del XVII secolo e nell’ultimo trentennio del XVIII, come un libro di orazioni ed un poema enigmatico del Navarra[84].

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[1] Simonsohn, S., Pinkassei ha-qehillah be-Verona (“I  registri della comunità di Verona” in ebr.), p. 127; per le fonti che confermano questa notizia, ibidem nota 1.

[2] Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona, p. 7.

[3] Colorni, V., Gli ebrei nell’alto Medioevo, pp. 74-75. La notizia dell’espulsione degli ebrei da V., provocata da Raterio, è da ritenersi errata, secondo il Colorni, sebbene sia stata seguita dalla maggior parte degli studiosi. Cfr. ivi, p. 75,  n. 30. Secondo il Colorni,  gli Ebrei,  dopo il loro insediamrento, abitarono ininterrottamente nella città. Ibidem.

[4] L’osservazione in questione è “Tra Gerusalemme e questa città, chiamata Verona, ci sono due ore di differenza” ibn Ezra, A., Sefer ha-ibbur, Ediz. Lyck, 1874, f. 8b, citatoivi, p. 87, nota 82. Per ulteriori dettagli sulle opere scritte da ibn  Ezra, durante il  soggiorno veronese, cfr. il paragrafo Rabbini, dotti, personaggi famosi.

[5] Sull’identificazione di costui col talmudista Eleazar di Shemuel da Verona, cfr. ivi, p. 87.  A proposito di  tale identificazione, basata su un nome molto frequente nella onomastica locale dell’epoca, esprime i suoi dubbi  il Varanini, G.M., Credito ebraico e documentazione locale :riflessioni ed esempi, p. 93.

[6] Ivi,, note 83, 84, 85 e 90, p. 87. Figurano menzionti con l’appellativo di  judeus  anche altri  nominativi che, tuttavia,  tralasciamo di menzionare, perché la loro appartenenza all’ebraismo appare, da un lato, controversa, mentre, dall’altro,  risulta che il termine judeus sia stato usato con una certa frequenza,  nei secoli in questione,  per denotare anche cristiani. Cfr. Varanini, G.M., op.cit.,  pp. 92-94.  Sulla presenza degli ebrei Elia e Samuele, cfr. anche Biscaro, G.,  Attraverso le carte di S. Giorgio in Braida di Verona, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze lettere ed arti 94 (1934-35), pp. 672-676, p. 674. Il Biscaro menziona anche tale Ubertus judeus filius quondam Adee, che non è stato citato, in ragione delle summenzionate obiezioni del Varanini. Riguardo a Ubertus judeus, cfr. Varanini, ivi, p. 92.

[7] Perg. 7971; Perg. 11813; Perg. 8281; Perg. 8282; Perg. 8385, citate in Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona, p. 8,  nota 4.  Il Pavoncello non menziona le date relative alla notizia riportata, ma dal contesto si evince che dovrebbe trattarsi del XIII secolo.

[8] Colorni, V., op. cit.,  pp. 87-89.

[9] Roth, C., The History of the Jews of Italy, p. 76.

[10] Varanini,  G.M., Credito ebraico e documentazione locale,  p. 93. Il Varanini ritiene che non vi sono, secondo lo stato presente delle fonti, indicazioni sufficienti per stabilire con esattezza se tali prestatori o cambiatori fossero ebrei o cristiani. Cfr. ivi, pp. 93-94.

[11] Archivio Capitolare di Verona, Masserie, 1382, c. 1r-v (comodavit mihi XXXII ducatos supra mitram d. episcopi vicentini ad IIII denarios pro quaque libra), citato in Varanini, G.M., Appunti per la storia del prestito ebraico a Verrona nel Quattrocento. Problemi e linee di ricerca, p. 625,  nota 7; cfr. anche ivi, p. 617.

[12] Simonsohn, S., History of the Jews in the Duchy of Mantua, p. 747 e segg.

[13] Varanini, G.M., Appunti per la storia del prestito e dell’insediamento  ebraico a Verona,  p. 617.

[14] ASVr, Antico Archivio del Comune, Processi, b. 209, n. 2451, citato in Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona tra Cinquecento e Settecento, p. 283 e p. 298,  nota 4.

[15] Varanini, G.M., Appunti per la storia del prestito e dell’insediamento ebraico a Verona,  p. 618.  Sulla presenza di ebrei tedeschi a V., cfr. anche Toaff, A., Convergenza sul Veneto di banchieri romani e tedeschi nel tardo Medioevo, p. 595 e pp. 607-608, nota 5.  

[16] Ivi, pp. 618-619.

[17] Ivi, pp. 619-620.

[18] Cfr. ivi, p. 627,  nota 29.

[19] Il Varanini menziona il problema del trasporto dei pegni fuori città, della decorrenza dell’interesse (dal momento del deposito del banco extra-urbano, o dalla consegna in città del pegno al respondens) ecc. Parte di questi problemi vennero risolti nel 1468 con una convenzione tra il Comune di V. e i titolari dei banchi. Cfr. ivi, pp. 620-621.

[20] Ivi, p.  622.

[21] Borelli, G., Momenti  della presenza ebraica a Verona, pp. 285-286. Il ruolo decisivo svolto dalla predicazione anti-ebraica dei frati, sull’onda dei processi contro gli ebrei, dopo il presunto omicidio rituale del 1475 a Trento,  veniva sottolineato dal Disegni,  D., Gli ebrei in Verona, p. 161. 

[22] ASVr, Antico Archivio del Comune, Processi, b 209,  n. 2451, citato in  Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona, p. 299, nota 13; p. 286.

[23] ASVr, Ducali,  reg. 20,  c. 170r, citato ivi, p. 29,  nota 19; p. 288.

[24] Ivi, p. 289.

[25] Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona,  p. 290.  Il Sonne sostiene che l’iniziativa per l’istituzione del ghetto fosse stata promossa dalla Curia romana, dopo l’espulsione degli ebrei dallo Stato della Chiesa nel 1569 e, dunque, vada anticipa la data al 1570 circa. Cfr. Sonne, I., Avnei binyan le-toledot ha-yehudim be-Verona” (Materiali per la storia degli Ebrei in Italia), p. 126. Il Borelli, invece, evidenzia il ruolo decisivo del Cardinal vescovo di V., Agostino Valerio(o Valier), nell’ unificare i pareri discordi delle autorità civiche circa l’istituzione del ghetto, nel 1597. Cfr. Borelli, G., Momenti della presenza ebraica, p. 291.

[26] ASVr, Antico Archivio del Comune, Atti del Consiglio, reg. 95, c. 188v., citato in Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona,  p. 299, nota 27; p. 290.

[27] Ivi, p. 292.

[28] Simonsohn,  S., Pinkassei ha-qehillah be-Verona, p. 132; si veda,  in particolare la  nota 33.  

[29] La sentenza condannava Abramo (contumace) al bando perpetuo da V. e dai territori veneziani o, se trovato entro i confini della Repubblica, a dodici anni di remo in galea con ferri ai piedi o, se inabile, alla decapitazione; Jacob, invece, veniva bandito dai terrritori della Repubblica per dieci anni, mentre gli altri quattro dovevano pagare una penale di 100 ducati per essere rilasciati dal carcere. Cfr. Boccato, C., Un processo contro gli ebrei di Verona, alla fine del Cinquecento, p. 345. Tale processo, rimasto non chiaro nei suoi veri moventi, viene menzionato anche da Ioly Zorattini, P.C., Processi del S. Uffizio di Vernezia contro ebrei e giudaizzanti (1587-1598), VIII, Introduzione, p. 16, nota 44.

[30] Si tratta di tale Giovanni de Salvis da Pitiliano, stimatore al Monte di  Pietà, e cinque membri della famiglia dell’accusatore, Mattia Bassani. Cfr. Boccato, C., op. cit.,  p. 351;  p. 353.

[31] Borelli, G., Momenti della prtesenza ebraica a Verona, pp. 292-293; sul  prestito mimetizzato, cfr. anche  ivi,  p. 294.

[32] Manzini, V., La superstizione omicida e i sacrifici umani, pp. 126-128.L’episodio in questione risale al 1603.

[33] Fortis, D., Gli ebrei di Verona,  pp. 303-304; cfr. anche Simonsohn, S., Pinkassei ha-qehillah be-Verona (“I registri della comunità di Verona”, in ebr.), p. 133.

[34] Ivi, doc. XXIV, p. 153. Cardoso rimase sino alla morte, avvenuta nel 1683, a V., come attesta il doc. XXV, p. 153.

[35] Roth, C., I Marrani in Italia. Nuovi documenti,  p. 425; cfr. anche Idem, I Marrami a Venezia,  p. 313.

[36] Roth, C., I  Marrani a Venezia, p. 313. 

[37] Roth, C., The History of the Jews in Italy, p. 413.

[38] “Informazione rassegnata all’Eccell. Inquisitorato sopra i Ebrei dall’Eccell. Sign.  Capitanio vice podestà di Verona, 21 agosto 1783, p. 24, Archivio di Stato di Verona, vol. XX, citato in Carpi, D., L’incendio del ghetto di Verona nella descrizione, p. 7,  nota 5 e  cfr. la lettera datata 1 novembre 1786, riportata ivi,pp. 7-8.

[39] Giudici, P., La storia d’Italia, Firenze 1931, vol. III, p. 709,  citato in Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona,  p. 46,  nota 44.

[40] Volli, G., I Ghetti d’Italia, p. 30.

[41] Varanini, G.M., Prestito e insediamento ebraico a Verona,  p. 621; p. 628,  nota  33.

[42] Simonsohn, S., Pinkassei ha-Qehillah be-Verona, pp. 131-132.

[43] Ivi,p. 132.

[44] Sonne, I., op. cit., pp. 141-148; sui particolari della prima controversia tra i sefarditi e la Comunità veronese (che si estende lungo l’arco degli anni Quaranta del XVII secolo), cfr. ivi, pp. 148-152. La seconda controversia tra sefarditi e askenaziti  verté sull’accessibilità  o meno della sinagoga sefardita agli ashkenaziti e si concluse, nel 1653, con il permesso esclusivo per Ponentini (Spagnoli) e Levantini di fruire della sinagoga sefardita. Cfr. ivi, doc. XXVI, p. 154.

[45] Simonsohn, S., Pinqassei ha-qehillah be-Verona, p. 133,  nota 42.

[47] Ivi, p. 135. La “Comunità generale” rappresentava gli ebrei presso le autorità e procedeva all’esazione delle tasse governative: ivi p. 128.

[48] Ivi, p. 136.

[49] Ibidem .

[50] Ivi,p. 250,  per i particolari relativi alle innovazioni in questione.

[52] Ivi,  p. 251.

[53] Ivi,  p. 251. Per il contributo in tasse che la Comunità di V. doveva dare, come le altre della Terra Ferma, a quella di Venezia per far fronte alle tasse governative per i banchi feneratizi della città e del territorio, cfr. ivi, p. 253. La Comunità di V. partecipò anche alle spese per i libri, promosse dalla Comunità di Roma, nel 1581, e alle spese per la stampa del Talmud, nel 1585. Per questi e ulteriori rapporti tra la comunità di V. e le altre, cfr. ivi, p. 254 e segg.  

[54] Ibidem.

[55] Simonsohn, S., History of the Jews in the Duchy of Mantua, pp. 455-456.

[56] Per l’elenco delle confraternite più importanti, cfr. Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona,  p. 88 e segg. 

[57] Varanini, G.M., Appunti per la storia del prestito ebraico a Verona, p. 618.  Per ulteriori particvolari sulla regolamentazione dell’attività feneratizia del 1427, cfr. Borelli,  G., Un estimo settecentesco sugli ebrei,  pp. 222-223.

[58] Borelli, G., Un estimo settecentesco,  p. 222.

[59] Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona, pp. 292-296 e Idem,  Un estimo settecentesco sugli ebrei,  pp. 224-225. 

[60] Cfr. la deposizione di Jacob da Zarabara contro fra’ Raimondo Tusca sospetto d’eresia,  negli Archivi di Stato di Venezia, Sant’Uffizio,  fil. 106, citata in Roth,  C., I Marrani a Venezia, p. 313, nota 6.

[61] Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona, pp. 296-297.

[62] Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona,  p. 44.

[63] Simonsohn, S., Pinqassei ha-qehillah be-Verona, p. 132, nota 33; cfr. anche Boksenboim, Y. ( a cura di) Minutes Book of the Jewish Community of Verona, I., 1539–1584, p. 44.

[64] Disegni, D., Gli ebrei in Verona, p. 162. Nel 1664 risultavano iscritti al pagamento delle tasse comunitarie 109 capi-famiglia, senza, tuttavia, specificazione di quanti fossero i componenti di ciascuna di esse. Cfr. Sonne, I., op. cit., pp. 154-158. 

[65] Roth, C., The History of the Jews of Italy, p. 352.

[66] “Informazione rassegnata all’Eccell. Inquisitorato sopra i Ebrei dall’Eccell. Sign. Capitanio vice Podestà di Verona, 21 agosto 1783, pp. 24-25, Archivio di Stato di Verona, Vol. XX, citato in Carpi, D., L’incendio del ghetto di Verona nella descrizione di un contemporaneo, p. 7,  note 2, 4 e  5; cfr. anche Fortis, D.,  Gli ebrei in Verona, p. 393. 

[67] Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona, p. 290; p. 292. La denominazione di una strada del quartiere ebraico, la “via dei Crocioni”, è stata ritenuta derivare dalle croci tracciate con intento anti-ebraico, dopo l’espulsione del 1499; tuttavia, è stata avanzata anche l’ipotesi che derivasse dall’alterazione del cognome dei conti Clusoni, insediatisi nel XV secolo a V., in prossimità della Piazza Maggiore. Cfr. Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona,  p. 12 e p. 13, nota 16.   

[68] Sonne, I., op. cit., doc. V-VII, pp. 130-133. 

[69] Ivi, doc. V, p. 130. A partire dai documenti della Comunità, pubblicati dal Sonne, va rettificata la notizia data dal Roth, che il ghetto fosse stato istituito nel 1599, secondo il testo delle lapidi poste ai due ingressi del ghetto (distrutte durante la Rivoluzione Francese), ma trascritte dal viaggiatore inglese Coryat, che visitò la città nel 1608-9. Cfr. Roth, C., La festa per l’istituzione del Ghetto a Verona, p. 33; sulla base del testo delle lapidi pubblicato dal Roth, anche Colorni riteneva il 1599 la data dell’istituzione del ghetto. Cfr. Colorni, V., Gli ebrei nel sistema del diritto comune fino alla prima emancipazione, Milano 1956, p. 58, nota 361.      

[70] Roth,  C., La festa per l’istituzione del ghetto,  p. 36.

[71] Sonne, I., op. cit., doc. X,  pp. 136- 139, in cui viene riportato tutto il testo dell’inno, compreso l’autore, che è il Meldola e non il rabbino Mordechai Bassani, indicato dal Roth (op. cit., p. 36). Per lo scampato pericolo dell’essere chiusi dal di fuori, cfr. Sonne, I., op. cit..,doc. VI, p. 131.

[72] Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona,  pp. 36-37.

[73] Sonne, I., op, cit.,doc. IX,  p. 136.

[74] Piattelli, C., Gli ebrei in Verona, p. 74; cfr. anche Morpurgo, E., Inchiesta, p. 14,  note 35 e 36.

[75] Borelli, G., Momenti della presenza ebraica a Verona, p. 284.

[76] Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona,  pp. 84 –85. Per le epigrafi dell’antico cimitero, cfr. ivi,pp. 103-106. Secondo il Morpurgo, il cimitero di Porta Nuova fu inaugurato nel 1755; Idem, Inchiesta,  p. 8,  nota 27.

[77] Roth,  C., Marrani a Venezia, p. 313.

[78] Modona, L., La vita e le opere di Immanuel romano, Firenze, 1904, pp. 242-245; cfr. anche Pavoncello, N., Un poeta ebreo alla corte di Cangrande della Scala, in Vita veronese6 (1957)  pp.  226-231.

[79] Vedi la voce “Venezia” della presente opera.

[80] Ioly Zorattini, P.C., Gli ebrei nel Veneto durante il Settecento,  p. 476.

[81] Per ulteriori particolari, cfr. Sonne, I., op. cit., p. 160 e segg.;  cfr. anche Simonsohn, S., op. cit.,p. 253,  nota 109 e Roth,  C., Gleanings, p. 203,  pp. 206-207; p. 213.

[82] Per approfondire la figura del Navarra, cfr. Roth, C., Menachem Navarra: his Life and Times (1711-1777). A Chapter in History of the Jews of Verona, in JQR 15 (1925), pp. 427-465.

[83] Roth, C., The Jews of Italy,  p. 391.

[84] Per ulteriori dettagli, cfr. Pavoncello, N., Gli ebrei in Verona, pp.  97-100. Cfr. anche Amram. D.W., The Makers of Hebrew Books in Italy, London 1963, pp. 388-390.

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