Todi

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Todi

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Todi (טודי)

Provincia di Perugia. Di fondazione umbra, T. ottenne la cittadinanza romana nel I secolo a.C. e fece in seguito parte dei domini bizantini. Costituitasi in libero Comune nel XII secolo, a partire dalla seconda  metà del XIII secolo fu sottoposta all’autorità papale, pagando una tassa annuale e contributi di altro tipo. 

 

Nel 1289 il consigliere Rambaldo di Bonaventura riferiva al Consiglio Generale di aver preso contatti con alcuni ebrei, invitandoli a svolgere l’attività feneratizia nella città. Essi si erano dichiarati disposti ad accettare l’invito, purché si giungesse ad un accordo soddisfacente per loro quanto per il Comune: quest’ultimo decise di nominare una commissione che si occupasse delle trattative, affidando, in seguito, a dodici Anziani l’incarico di esaminare i termini della condotta. Vennero, infine, approvati i patti proposti dalla società dei feneratori (composta da Vitale di Genatano, Sabato di Matassia, Manuele di Elia e Manuele di Abramo), letti dal consigliere Rambaldo, nei quali venivano accordati agli ebrei gli stessi diritti dei cittadini di T.,  assicurando loro protezione, sicurezza personale, difesa contro le rappresaglie  e permesso di portare armi da difesa e da offesa. Inoltre, veniva loro assicurata protezione contro l’interferenza dei tribunali ecclesiastici ed il Comune si impegnava ad intervenire in loro difesa di fronte ai vescovi e ai loro vicari. Agli ebrei era poi garantita libertà di culto, mentre si faceva divieto di molestarli in qualsiasi modo a motivo delle loro pratiche religiose. Qualora il Comune di T. avesse infranto i patti, avrebbe dovuto pagare una penale di 1.000 fiorini, di cui metà da consegnare agli ebrei e l’altra metà alla Curia di Roma[1].               

Tre anni dopo, il Comune accordò una condotta ad un’altra società, composta da Bonaventura di Beniamino, Dattilo di Magister Mosè, Leone di Sabato, Fosco di Beniamino e Manuele di Beniamino. I termini erano simili a quelli della precedente, salvo per il fatto che si fissava al 10% l’interesse feneratizio per i prestiti concessi  al Comune, e al 14% per  quelli concessi a privati[2].   

Cinque anni più tardi (1297), Dattilo di Beniamino, anche a nome dei suoi soci (i  fratelli Beniamino, Dattilo e Abramo di Mosè, Bonaventura di Beniamino, i fratelli Salomone e  Beniamino di Bonaventura, i fratelli Manuele, Consiglio e Sabato di Leone e i fratelli Beniamino e Bonaventura, figli di Manuele),  presentò  richiesta al Comune perché concedesse loro la cittadinanza e rinnovasse la condotta del 1292, ricevendo una risposta positiva. Pochi giorni dopo, Dattilo di Beniamino chiese ed ottenne che venissero estesi i privilegi della condotta anche ai suoi nuovi soci (Dattilo di Angelo, Benedetto di Mosè, col figlio Abramo, i fratelli Manuele e Angelo di Bonaventura, Dattilo di Vitale, Vitale di Bonaventura, Musetto di Beniamino e Bonaventura di Angelo) e l’anno successivo, con solenne cerimonia nella Piazza del Comune alla presenza delle autorità cittadine, fu concessa a tutti la cittadinanza, con i connessi diritti, e fu estesa la condotta del 1292[3].   

Nel 1313 il Comune costrinse gli ebrei ad un prestito forzato di 1.500 fiorini d’oro, all’interesse del 14%: dal canto loro, i prestatori avrebbero potuto scegliere alcuni cittadini di T. e del contado che ne garantissero con i propri beni la restituzione. Di contro, se gli ebrei si fossero rifiutati di concedere il prestito, al podestà veniva conferito il potere di raddoppiare la somma. Del resto, il contratto avrebbe dovuto essere stilato secondo le richieste dei feneratori, mentre il Comune nominò un funzionario preposto ad assicurare l’indennità dei garanti. Data l’entità della richiesta, le decisioni prese avrebbero dovuto essere sottoposte al Consiglio dei Cento[4], che  approvò le istanze di Bonaventura di Manuele e dei correligionari residenti a T. - che avevano stipulato un contratto de duplo per 3.000 fiorini - di ripartire la cifra tra le tasse doganali e le altre imposte che le località soggette a T. dovevano  pagare annualmente.  

Alcuni anni dopo (1319), gli ebrei di T. avevano già prestato al Comune 2.724 fiorini d’oro, rifiutandosi di considerare il debito interamente ripagato e di rescindere il contratto feneratizio. Dopo svariate discussioni tra le autorità competenti, si decise che i banchieri non erano più tenuti ad alcun prestito forzato e, dato che, nel frattempo, avevano accettato di rescindere il contratto per la cifra precedentemente elargita (i 2.724 fiorini d’oro) il Consiglio dei Cento decise di reintegrarli nello status di cittadini, sospeso nel novembre dell’anno precedente[5].

Nel 1322, dato che mancava un medico a T. , si decise di concedere la condotta all’ebreo Leone, residente nella città, che aveva dato ottima prova di  sé nell’esercizio della medicina[6].

Due anni più tardi, i dodici “Conservatoridel pacifico stato della città”affidarono alla custodia di due cittadini, nominati all’uopo, Bonaventura di Manuele che era caduto in disgrazia presso il Comune, per ragioni che ci restano ignote. Passati ulteriori tre anni, i Conservatori nominarono altri cittadini come “custodi” di Bonaventura, sino a che quest’ultimo non avesse saldato il debito (1.986 lire, 19 soldi e 8 denari) che aveva con il Comune. Qualora Bonaventura non avesse pagato entro sei mesi, il podestà avrebbe avuto facoltà di condannarlo a corrispondere il doppio della cifra, in aggiunta alle spese per le guardie incaricate di tenerlo in custodia[7].

Dopo un silenzio di cinquant’anni, si trovano nuovamente riferimenti documentari alla presenza ebraica attraverso il riferimento ad un ebreo di T., Daniele di Salomone, nominato procuratore per la vendita di una casa che Salomone di Matassia da Perugia possedeva  in città[8].

La testimonianze riprendono poi anche nel 1399, quando il gabelliere del Comune dichiarò al Consiglio Generale di dover ancora esigere la gabella judeorum, che ammontava  a 37 lire e 10 soldi[9] e nel 1405, quando alcuni feneratori  ( Dattilo di Salomone di Bevagna, Abramo di Daniele di Foligno con i suoi due figli e Gaio di Giacobbe de Catalonia)si rivolsero ai Priori, lamentando i frequenti furti dei pegni dai loro banchi e minacciando di sospendere l’attività creditizia sino a che le autorità non avessero preso provvedimenti per porre fine all’increscioso stato di cose. I Priori convennero, pertanto, di emettere nuove disposizioni sui pegni, che fossero in favore degli ebrei, e, al tempo stesso, confermarono la norma per cui i prestatori non potevano vendere o esportare i pegni depositati presso di loro, prima dello spirare dei diciotto mesi dalla data di deposito presso il banco[10].

Nel 1413 il Comune concesse una condotta feneratizia a Guglielmo di Abramo da Foligno e alla sorella, nei capitoli della quale, venivano loro assicurati la difesa e  l’immunità nei confronti dei tribunali  ecclesiastici ed inquisitoriali, l’esenzione dall’obbligo del segno distintivo e la libertà di culto, nonché l’approvvigionamento presso i macellai cittadini di carne macellata ritualmente. Per dieci anni a partire dall’inizio della condotta, Guglielmo e la sua famiglia sarebbero stati esentati dal pagamento delle tasse cittadine e, per quattro anni, nessun altro ebreo avrebbe potuto ricevere l’autorizzazione a fenerare a T., se non previo assenso di Guglielmo. Per l’intera durata della condotta gli ebrei avrebbero potuto circolare liberamente per la città, di giorno come di notte, portando armi da difesa[11]

Sette anni più tardi (1420), il Comune diede la condotta a Consiglio di Abramo da Gubbio, residente a Perugia, ed a Salomone di Consiglio da Viterbo, consentendo loro di percepire un interesse annuo del 48% per somme superiori ad 1 fiorino e fino al 50% per importi superiori. Anche in questi capitoli furono assicurate la difesa nei confronti dei tribunali ecclesiastici ed inquisitoriali e la  libertà di culto, comprese le disposizioni relative all’approvvigionamento di carne macellata ritualmente. Per quindici anni a partire dalla stipula, nessun altro ebreo sarebbe stato autorizzato ad esercitare il prestito, senza il consenso di Consiglio di Salomone.

Nel 1436, però, le autorità di T. proibirono agli ebrei cittadini di macellare ritualmente la carne e ai macellai di venderla, pena una multa di 10 lire e, durante la stagione della vendemmia, la stessa multa sarebbe stata comminata anche agli ebrei che avessero voluto preparare il vino secondo i loro riti.

Nello stesso anno, fu imposto, pena una multa, l’uso del segno distintivo per gli individui di ambo i sessi di età superiore ai dieci anni (la “rotella” gialla per i maschi e un cerchio d’oro alle orecchie per le femmine): nel documento erano esplicitamente menzionati come ebrei di T. Magister  Manuele di Magister  Sabato di T., Magister Angelo di Magister Aleuccio da Vetralla  e Salomone di Consiglio da Viterbo.

Due anni dopo, un frate francescano, avendo rilevato che le disposizioni in merito al segno erano in realtà disattese, fece pressioni per farle osservare sulle autorità e queste ultime, data l’esenzione assicurata nei  capitoli, mandarono un emissario a Francesco Sforza, chiedendogli l’autorizzazione a modificare il punto in questione e sottolineando che in tutte le città circostanti gli ebrei portavano il segno. Lo Sforza, tuttavia, rifiutò di accordare ai Priori tale autorizzazione e confermò in toto i termini della condotta. Pochi mesi dopo, i Priori ribadirono le proibizioni già espresse a suo tempo sulla carne macellata ritualmente, ma Salomone di Consiglio e gli altri correligionari di T. presero posizione contro il provvedimento, sostenendo che era contrario ai capitoli della condotta del 1420, e minacciarono di sospendere il prestito, abbandonando T. I Priori, pertanto, decisero di concedere ai macellai di vendere la carne macellata ritualmente, permettendo, però, che venisse venduta ad un prezzo più alto di quello praticato agli acquirenti cristiani. Qualche mese dopo, gli ebrei di T. si rivolsero, con successo, a Francesco Sforza, perché intervenisse contro le limitazioni della macellazione rituale, stabilite nel 1436[12].

Da un documento del 1447 risulta che il banco di T. veniva gestito allora da Isacco di Deodato da Corgneto, per conto di Consiglio di Abramo da Gubbio: dato che Manuele di Mosè da Ferrara intendeva aprire un banco a T., Consiglio, in conformità al privilegio garantitogli dalla condotta del 1420, che subordinava l’attività di un altro feneratore al suo assenso, glielo dette e lo incluse nei privilegi già ottenuti.  Nello stesso anno, Consiglio sostituì Isacco da Corgneto, che voleva smettere la propria attività a T., con Magister Bonaventura di Elia da Ferrara, residente a Perugia. Nel 1450 i Priori proibirono l’esportazione dei pegni depositati dai cittadini nei banchi ebraici e, inoltre, dettero disposizioni per la vendita all’asta dei pegni non riscattati, da tenersi nella piazza cittadina.

Dal testamento, fatto nel 1461, da Mosè  di Abramo da Terni, residente a Spoleto, si apprende che vi era a  T. una sinagoga[13].

Da un documento del 1463 risulta che aveva un banco a T., all’epoca, anche Musetto di Angelo da Camerino[14], lo stesso che fu beneficiario di una concessione da parte del camerlengo papale di commerciare in strazzaria e fare la tintoria[15].

Nel 1481 il Comune di  T. stipulò una condotta feneratizia con Magister Salomone di Magister Manuele da Terni, con Musetto di Magister  Angelo da Camerino e con il figlio di Musetto, Angelo. L’interesse ammesso era del 25% per i cittadini e del 40% per i forestieri. Venivano concessi loro la difesa contro le ostilità dei frati predicatori e contro chi avesse interferito con le loro pratiche religiose, la possibilità di servirsi dei macellai cittadini per la carne macellata ritualmente, la libertà di tenere il servizio religioso nella sinagoga e di comparare terra per uso cimiteriale. Inoltre, per tutto il periodo della condotta, i feneratori e le loro famiglie avrebbero goduto degli stessi diritti dei cittadini di T. nella legislazione civile e penale, ma avrebbero dovuto rispettare l’obbligo del segno. Infine, nessun altro ebreo avrebbe potuto fenerare nella città, senza l’autorizzazione di Magister Salomone e di Musetto.

Dal testamento di Angelo di Musetto da Camerino, risalente al 1488, si evince che il feneratore, residente a Foligno, aveva come agente per il banco di sua proprietà a T. Angelo di Isacco.

Pernarosa di Mosè di Leone da Rieti, moglie di Angelo di Isacco da T., residente a T., vendeva nel 1503 una casa, nel quartiere di S. Prassede, facente parte della sua dote[16].

Dopo poco meno di un settantennio, troviamo, nel 1579,  un accenno relativo alla passata presenza ebraica a T.: Leone di  Magister Vitale Alatino aveva prestato 40 scudi d’oro al Comune, nel 1554, quando ancora vi risiedeva. Il feneratore non era stato rimborsato della cifra e i suoi figli ed eredi nominarono un procuratore per recuperare il credito. I figli di Leone, Alatino Alatini e la sorella  (nel frattempo convertitasi al cristianesimo assumendo il nome di Giovanna), abitanti ambedue a Firenze, riuscirono a farsi rimborsare grazie al loro procuratore, un cristiano divenuto marito di Giovanna.

Da un documento del 1633 si evince che mercanti ebrei si recavano in quel periodo a T. per la fiera locale, trattenendovisi per qualche tempo[17].   

Bibliografia

Leonij, L., Documenti tratti dall'Archivio segreto di Todi, ASI S. 3, vol. 22 (1875), pp. 179-198.

Leonij, L., Decreti del comune di Todi contro gli ebrei e giustizia loro resa da Francesco Sforza, ASI S.4, vol. 7 (1881), pp. 25-28.

Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, 8 voll., Toronto 1988-1991.

Toaff, A., The Jews in Umbria, 3 voll. Leiden, New York, Köln 1993-1994.

Toniazzi, M., I “da Camerino”: una famiglia ebraica italiana fra Trecento e Cinquecento, tesi di dottorato presso l’Università di Firenze 2013, Tutor Prof. G. Pinto.


[1] Per questi e per ulteriori particolari della condotta, cfr. Toaff, A., The Jews in Umbria, doc. 27.

[2] Ivi, doc. 28.

[3] Ivi, doc. 36, 37, 38, 42.

[4] Ivi, doc. 92. Il prestito richiesto dal Comune era per far fronte alla promessa fatta all’imperatore Enrico IV,  intervenuto con il suo esercito in difesa della città (che era in mano ai ghibellini) contro le altre città dell’Umbria; l’intervento dell’imperatore avrebbe fatto guadagnare a T., finita la breve e sanguinosa campagna, svariati centri e castella. Cfr. ivi, nota.

[5] Ivi, doc. 93, 98.

[6] Ivi, doc. 100.

[7] Ivi, doc. 109, 115.

[8] Ivi, doc. 482, 484.

[9] Ivi, doc. 612.

[10] Ivi, doc. 661.

[11] Ivi, doc. 710.

[12]  Leonij, L., Documenti, p. 182 e segg.; Id., Decreti, p. 25 e segg.; Toaff, A., Umbria, doc. 755, 903, 910, 935, 939, 941.

[13] Toaff, A., Umbria, doc. 1092, 1098, 1106, 1149, 1327.

[14]Ivi,doc. 1339; Simonsohn, S., Apostolic See, doc. 887 (1462). Per ulterior informazioni su Musetto, che non faceva parte della più nota famiglia “da Camerino”, si veda Toniazzi, M., I “da Camerino”, pp. 59-60.

[15]  Simonsohn, S., op. cit., doc. 944, 949. Si veda anche doc. 950, 953.

[16] Toaff, A., op. cit., doc. 1806, 1939, 2137 (cfr. doc. 2041).

[17] Ivi, doc. 2733,  2805.

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