Venezia

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Venezia

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Venezia (‏ונציה)

Capoluogo di regione. V. ebbe origine dalla X regio dell'ordinamento augusteo, che si estendeva dalla Pannonia all'Adda, passando, successivamente, dall’Impero romano al governo gotico e al dominio bizantino. L'emigrazione dei Veneti sulle isole doveva essere iniziata, sporadicamente, già nel V secolo: tuttavia, lo stanziamento ver e proprio nella Laguna iniziò solo con l'invasione dei Longobardi (568). Le isole, rimaste in un primo momento sotto il dominio dell’esarca bizantino, vi si sottrassero, dandosi un governo dogale con Paoluccio Anafesto nel 692. Nel secolo X iniziò l'espansione nell'Adriatico con le spedizioni contro i Saraceni e gli Schiavoni e nel XII sorsero gli istituti fondamentali della città: il primo consiglio dei Savi, perfezionatosi, in seguito, nel Maggiore e nel Minor Consiglio e il Comunis Venetiarum, mentre di precisava la separazione dei privilegi e diritti personali del doge dalle funzioni impersonali dello stato.

Le crociate diedero inizio ai traffici V. con l'Oriente: con la IV la città sottomise Zara e conquistò importanti posizioni commerciali nell’Impero Latino (fondachi a Costantinopoli, Smirne, San Giovanni d’Acri). Iniziò allora la lotta con Genova per l’egemonia mediterranea e V. perse a Cuzzola (1298), ma vinse la cosiddetta “guerra di Chioggia” (1378-81). Nel secolo XV cominciò anche l’espansione sulla terraferma, conquistando Bergamo, Brescia e territori in Romagna e Puglia. Al tempo della pace di Lodi (1454) il dominio veneziano comprendeva Brescia, Bergamo, il territorio di Ravenna, il Veneto (escluso il principato di Trento), il Friuli, l’Istria (esclusa Trieste), parte della Dalmazia, e dal 1499, anche la Ghiara d’Adda e il territorio di Cremona.

 Dalla fine del Quattrocento, però, i Turchi, passati in Europa, presero a minacciare i domini coloniali veneziani: lo scontro tra le due potenze proseguì con alterne vicende sino alla decisione di V. di scendere in mare, dopo aver fatto appello a tutta la cristianità. Le armate veneziane vennero battute a Porto Longo nell'isola di Sapienza, nel 1499, tuttavia la guerra continuò con rari successi e il modesto concorso delle squadre spagnole, francesi e pontifice, sino alla pace conclusa nel 1503 (e riconfermata nel 1517), che durò alcuni anni.

A seguito della vittoria della Lega di Cambrai, e la susseguente pace di Noyon (1516), furono perduti tutti i possessi veneziani sulla terraferma e, dopo aver perso, nel corso del XVI secolo. anche svariati possedimenti nel Mediterraneo orientale, tra cui la Morea e Cipro, V. riprese a combattere i Turchi, vincendo la battaglia di Lepanto (1571).

Scoppiò, poi, il conflitto con la curia romana che sfociò nell’interdetto del 1606-1607, quando V. fu scomunicata dal Papa: per far fronte alla curia venne creato l'ufficio di consultore in materia teologica, affidato a fra’ Paolo Sarpi.

Temendo la concorrenza nei commerci marittimi, V. stipulò, nel 1619, un trattato di mutua assistenza con le Province Unite d’Olanda (di cui aveva approvato l’indipendenza dalla Spagna, raggiunta de facto poco tempo prima), nonostante l’opposizione della Sede Apostolica e della monarchia spagnola.

Dopo aver perso Candia, V., riacquistò la Morea, cedendola ai Turchi con la pace di Passarowitz (1718) e, in seguito, vinse contro i cantoni barbareschi nel 1784-1785.

Dal 12 maggio 1797 al trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) V., infine, fu sotto il governo francese.

I primi documenti riguardanti V. e gli ebrei risalgono agli anni 945 e 992, quando il Senato proibì ai capitani delle navi, che salpavano per l'Oriente o che provenivano dall'Oriente, di prenderli a bordo[1]. L'attestazione più antica della presenza ebraica in loco sarebbe, però, il censimento, ritenuto del 1152, da cui risultavano presenti nella città 1.300 israeliti: poiché tale cifra appariva esorbitante anche allo storico che la riportava, lo stesso avanzava l'ipotesi, maggiormente verosimile, che si dovesse posticipare di alcuni secoli la data del censimento in questione[2]. Gli studiosi, riferendosi alla denominazione Giudecca, data all'isola di Spinalunga in documenti del 1090 e del 1252, hanno condiviso l'opinione che, dopo il XIII secolo, fossero immigrati dal Levante e dalla Germania ebrei cui non sarebbe stato permesso di vivere nel centro della città, ma, appunto nella Giudecca di Spinalunga[3].

Dalle lettere scritte, nel 1279, da Latino Frangipani (Orsini), cardinale vescovo di Ostia, nipote di Nicola III e suo legato in Romagna e Tuscia, al collega domenicano Florio, inquisitore in Lombardia, risulta che vi erano gruppi di ebrei convertiti in varie zone dell'Italia settentrionale, tra cui anche nel territorio di V., alcuni dei quali, con l’aiuto degli ex-correligionari, erano tornati alla fede avita[4].

Tuttavia, l'unica documentazione attestante incontrovertibilmente il nucleo ebraico di V. è quella relativa alla visita resa, nel 1314, dall'ebreo cretese Vlimidus al doge Giovanni Soranzo, per trasmettergli l’imbasciata degli israeliti di Creta e, forse, per esercitare in città il commercio, stante lo scambio di merci attestato tra Negroponte e V.[5].

Un’altra testimonianza attestante una temporanea presenza ebraica a V. è il soggiorno d'affari di quattro ebrei di Zurigo nel 1329[6], mentre un documento del 1331 testimonia la concessione data al medico ebreo Leone di esercitare la professione a V.[7].

Tuttavia, è solo nella seconda metà del XIV secolo che la situazione di temporaneità e sporadicità ebbe fine: dopo la cosiddetta guerra di Chioggia, nel 1382, un gruppo di prestatori fu invitato a installarsi in città, per esercitarvi l’attività feneratizia, con una condotta rinnovata nel 1387[8]. Oltre ad essi, vennero a stabilirsi a V. altri correligionari, tra cui principalmente quelli di Mestre e di Treviso, rifugiatisi qui durante la guerra. Nel 1389 il Senato accordò all'ebreo Levi e alla sorella il permesso di aprire un banco, in aggiunta agli altri che già operavano, era sotto il controllo dei Sopraconsoli[9]. Tra il 1382 e il 1397 si stabilirono a V. molti israeliti d'origine tedesca (o Ashkenaziti), di cui alcuni definiti come prestatori[10].

Già nel 1388, i feneratori ebrei non risultavano essersi attenuti alle regole prescritte per la loro attività, come dichiarava il documento del 1394, con cui veniva deciso di espellerli, allo spirare della condotta tre anni più tardi[11].

Un affare alquanto losco, in cui erano implicati, nel 1393, tre banchieri ebrei, i fratelli Yaaqov, Ansel e Abraham di Shemuel da Norimberga, e Giacomo Panigo, publicus fenerator cristiano, sebbene non determinante ai fini della decisione di espellere gli ebrei, tuttavia vi concorse[12].

Dopo il febbraio del 1397, così, gli israeliti avrebbero potuto trattenersi in città solo 15 giorni e, nel 1402, il Senato stabilì un intervallo di quattro mesi tra un soggiorno e l'altro (intervallo che nel 1496 divenne di un anno intero)[13].

Nel 1406 fu bandito da V. il neofita Giovanni da Fabriano, medico, incolpato di aver praticato il ricatto e di aver estorto denaro ad ebrei di passaggio e, dopo la presa di Padova, a quelli locali[14].

Documenti del primo quarantennio del secolo XV attestano rapporti sessuali tra israeliti e donne cristiane, sia prostitute che non[15].

Nel 1443 il Senato, preso atto del fatto che scuole di canto, di musica e di danza erano state aperte da ebrei per una clientela cristiana, presumibilmente altolocata, si oppose, comminando pene pecuniarie e sei mesi di carcere per chi fosse stato sorpreso ad intraprendere tali attività[16].

Il segno distintivo fu introdotto a V. nel 1394, in vista dell'espulsione del 1397[17], e il soggiorno in città venne subordinato all'esibizione di una rotella gialla per i maschi, dal tredicesimo d’età anno in poi, mentre le femmine furono esentate: i contravventori sarebbero stati puniti con multe. Vi sono, tuttavia, documenti che attestano che l'obbligo del segno non era rispettato, né nelle colonie veneziane, né a V., inducendo il Senato, nel 1496, a sostituire la rotella con un copricapo giallo[18].

Del resto, dal segno erano già stati esentati, nel 1395, i medici che esercitavano la professione a V. con il consenso delle autorità, purché non esercitassero il prestito: tuttavia, tale privilegio fu abolito nel 1409, dati gli abusi cui dava luogo, soprattutto in materia di infrazioni al divieto di rapporti sessuali con donne cristiane. Esenzioni furono concesse, pertanto, solo a titolo individuale[19]. Il segno continuò ad essere obbligatorio anche al momento dell'istituzione del ghetto e, nel 1517, l'obbligo venne esteso anche ai medici, ivi compresi i noti Magister Lazarus, Magister Chalò e l’astrologo Magister Moses, costretti a sostituire il copricapo nero con quello giallo[20]. A quest’ultimo sarebbe stato affiancato quello rosso, agli inizi del XVII secolo e l’abolizione del copricapo di un colore differente da quello dei cristiani sarebbe avvenuto solo con la resa a Napoleone[21].

Nel 1423 le autorità veneziane proibirono agli israeliti l’acquisto di beni immobili in territorio veneziano, fatta eccezione per le giudaiche delle colonie d'oltremare, mentre l’anno successivo fu vietato loro anche di avere immobili in affitto o in pegno[22].

Documenti degli anni Venti e Trenta del XV secolo attestano la presenza a V. di ebrei di Candia, che abitavano i quartieri di S. Canciano, San Cassiano e San Zulian[23]. Nel 1421 un ebreo siciliano, evidentemente trapiantato a V., fu accusato di aver ferito un medico, ex-correligionario, convertitosi al cristianesimo[24].

Il senato veneziano si conformò alla risoluzione, presa da Martino V nel 1429, di proibire alle navi di prendere a bordo ebrei diretti in Palestina, come ritorsione contro la confisca da parte delle autorità mussulmane, dietro istigazione ebraica, della capellam David et aliorum regum et prophetarum, facente parte del monastero dei Francescani sul monte Sion (il coenaculum), per restituirla ad usum Judaice superstitionis[25], mantenendola in vigore per alcuni anni.

Da un documento del 1435 si evince che un parente del Papa Eugenio IV avrebbe avuto dei crediti con l’ebreo Struchus di V.[26].

Atti del XV secolo indicano, inoltre, la presenza di ebrei d’origine spagnola, in particolare marrani: questi ultimi vennero espulsi nel 1497 dai territori veneziani, mentre continuarono a rimanervi gli ebrei spagnoli e portoghesi che, costituivano, tuttavia, all'epoca, un’esigua minoranza rispetto alla popolazione ebraica veneziana[27]. Attestato è anche il passaggio a V. di ebrei delle colonie veneziane, in transito per le città della Terraferma e di acquirenti di merci preziose, come tale Isach da Marele che, nel 1491, vi si recò per acquistare seta e stoffe ricamate d’oro per conto del re Massimiliano I[28].

Le restrizioni imposte ufficialmente al soggiorno degli israeliti a V. furono abolite a favore dei feneratori di Mestre, la cui presenza era necessaria nella città: nel 1503 furono loro concessi capitoli che li autorizzavano ad avere casa a V., a risiedervi con i loro familiari e dipendenti e a tenervi i pegni loro affidati. Inoltre, erano autorizzati ad andare e venire da V. a loro piacimento e a rifugiarvisi con i loro beni, in caso di guerra, ma pur essendo loro concesso di fenerare a V., i banchi dovevano restare a Mestre[29].

La crisi economica in cui versavano le banche veneziane di proprietà cristiana fu, in parte, foriera della decisione di accettare gli ebrei in città[30]: in ogni caso, essi furono ammessi in concomitanza con il difficile momento storico, dopo la sconfitta di Agnadello, risultato del conflitto, scoppiato nel 1509, tra la Serenisssima e il papa Giulio II per il possesso della Romagna[31]. Al nucleo ebraico già formatosi si aggiunsero i correligionari di Mestre e di Padova, tra cui, dopo il 1509, i fratelli Meshullam o dal Banco[32].

Nell’aprile del 1511, probabilmente su istigazione dei predicatori francescani che si scagliavano periodicamente contro gli ebrei[33], il governo annunciò che coloro che si trovavano a V. dovevano lasciare la città entro un mese;: dall’espulsione erano esclusi i banchieri immigrati a V. per ragioni di sicurezza ed altri privilegiati[34].

Nel 1510 Anselmo dal (del) Banco (Asher Meshullam) divenne virtualmente il capo della Comunità veneziana e, coadiuvato da altri due di sua nomina, fu incaricato di ripartire le tasse tra i suoi membri. Due più tardi, una fonte cinquecentesca ci informa dell’incarcerazione di sette ebrei, soprattutto banchieri, maggiorenti della Comunità, perché si erano rifiutati di accettare l'aumento dell’imposta annuale[35].

Nel 1512, come poi nel 1527, gli ebrei, vessati dalle eccessive pretese fiscali della Repubblica, chiusero i banchi di prestito[36].

Nel 1513 Anselmo del Banco negoziò con il Comune i patti per una nuova condotta e, tre anni dopo, rappresentò la Comunità nel tentativo di dissuadere il Collegio dall’istituzione delghetto, affermando, tra l’altro, che gli Ebrei poveri avrebbero abbandonato la città e tutto l’onere finanziario sarebbe ricaduto su di lui, in quanto responsabile dell'esazione. Il ghetto venne, tuttavvia, istituito e, con esso, l’obbligo della segregazione notturna degli Ebrei, abolito, tuttavia, quasi subito, per i medici che avessero avuto in cura pazienti cristiani.[37]

Al momento dell'insediamento dei feneratori ebrei a V., nel XIV secolo, i funzionari della Repubblica loro preposti per le questioni finanziarie e abitative erano i Sopraconsoli, mentre gli Avogadori di Comun si occupavano delle trasgressioni d'ordine criminale. Nel 1515 comparve un altro corpo di funzionari, il Magistrato del Piovego, con il compito di punire gli ebrei sorpresi a fenerare senza aver ottenuto il relativo privilegio dal Consiglio dei Dieci. Con l'istituzione del Ghetto Nuovo, tuttavia, gli ebrei furono sottoposti all’ Ufficio del Cattaver[38].

Nel 1526 il Collegio aveva stabilito che gli ebrei pagassero, oltre alle solite tasse, anche 10.000 ducati per la flotta, dando inizio a quella che è stata definita una guerra di logoramento psicologico a sfondo economico[39] che fu probabilmente la causa della decisione, presa dal Senato nel 1527, di obbligare gli ebrei a lasciare V. tornando a Mestre, come era avvenuto nel 1394, 1402 e 1496. Tuttavia, l'epidemia di peste e di tifo che imperversò a V., dal 1527 al 1529, unita all'elevato prezzo del grano, fa supporre che il decreto non venisse applicato.

Nel 1528, comunque, fu stipulata una ricondotta quinquennale, previo pagamento di un’ingente somma di denaro e nel 1533 venne confermata per altri cinque anni la presenza ebraica a V., a condizione che venissero aumentate le cifre corrisposte annualmente e che, al posto del prestito forzoso di 10.000 ducati al governo, rifiutato dagli ebrei, ne venissero donati 3.000 da impiegare per la flotta di Creta: qualora non fossero stati d'accordo a pagare, gli israeliti avrebbero dovuto lasciare la città. La subordinazione del rinnovo della condotta all'esborso di forti somme di denaro segnò anche le trattative del 1537, sempre all'insegna della ventilata espulsione: gli ebrei, tuttavia, si dichiararono disposti a pagare, purché la condotta fosse rinnovata per dieci anni, come avvenne, nel 1538, per la prima e unica volta nel corso del XVI e XVII secolo[40].

Nel luglio del 1550, tenuto conto del crescente numero di marrani che si trovava a V., ad onta dell'espulsione del 1497, il Senato stabilì che entro due mesi essi avrebbero dovuto lasciare la Repubblica: tuttavia, dai processi del Santo Uffizio veneziano si evince che la presenza marrana a V. continuò nel sestiere del Ghetto e altrove.[41]

La condotta dei feneratori fu rinnovata automaticamente solo nel 1553 circa, in mancanza di un accordo tra le varie proposte dei membri del Collegio al Senato e nel 1558, essa fu rinnovata con alcuni cambiamenti rispetto al 1548, di cui il più significativo era la riduzione del pagamento annuale a 8.000 ducati, inclusi esborsi ordinari e straordinari; inoltre, veniva stabilito che, in futuro, i feneratori dessero la priorità ai poveri bisognosi di prestiti inferiori a 5 ducati. Il rinnovo della condotta fu, invece, estremamente complesso nel 1563, quando il Senato decise che gli ebrei avrebbero dovuto abbandonare la città, in attesa dell’emissione di una nuova legislazione sul loro conto[42]. Non essendo state prese, però, nuove decisioni, passati due anni, gli ebrei presentarono tre petizioni, ricordando, da un lato, di essere nati sudditi veneziani e, dall’altro, la difficile situazione finanziaria in cui si trovavano (dovuta all'abbassamento del tasso di interesse e all’eliminazione del pagamento del mese intero per chi prendeva a prestito per un periodo inferiore), che aveva provocato l’esodo di molti, mentre chi era rimasto versava, spesso, in serie difficoltà economiche, aggravate dalla mancanza di svariati contribuenti, complici tale esodo e il fallimento di due ricchi banchieri. Le petizioni, unite alla necessità di far fronte al fabbisogno finaziario dei poveri, non condussero, tuttavia, ad una nuova condotta e gli ebrei, temendo di essere costretti a lasciare la città, reagirono con un’ulteriore petizione alla prospettiva della cacciata, resa ancora più fosca dall'inverno che, impedendo il viaggoio via mare, faceva temere massacri e ruberie lungo le vie di terra, insidiate dai briganti. Pertanto, essi chiesero il permesso di soggiornare un ulteriore anno a V., onde potersene andare a poco a poco, dopo aver sistemato i propri affari; inoltre, domandarono la possibilità di imbarcarsi in condizioni sicure per quanti di loro avessero scelto di recarsi in Terra Santa. L’ulteriore anno di permanenza fu concesso a patto che gli ebrei non comprassero strazzaria da rivendere nelle loro botteghe. Tuttavia, la cessazione del prestito creò, presumibilmente, problemi tali tra la popolazione indigente di V. da indurre il Senato a concedere, nel 1566, una nuova condotta quinquennale, il cui novum più significativo era che gli ebrei avrebbero dovuto assicurare il prestito (purché superiore ai 5 ducati), a chiunque avesse presentato adeguato pegno, pena una multa, mentre nella condotta del 1548 il feneratore risultava libero di non prestare contro la propria volontà[43].

Nel 1571 le condizioni del rinnovo della condotta furono determinate più dalle vicende del conflitto con l'Impero ottomano (perdita di Cipro e vittoria a Lepanto) che da quelle socio-economiche interne. Anche questa volta venne ventilata - e con molta veemenza - l'espulsione, complice il ruolo avuto da Don Yosef Nassi, prestigioso e ricco leader dell'ebraismo ottomano, nel fomentare i Turchi alla guerra contro V. Tuttavia, l'espulsione non ebbe luogo,[44] ma V., nei patti del 1573, obbligò gli ebrei a prestare ai poveri allo stesso tasso di interesse dei Monti di Pietà, sotto la stretta sorveglianza dei Cattaveri: a differenza dei Monti cristiani finanziati dalla carità dei fedeli, i banchi ebraici avrebbero dovuto essere finanziati dalle tasse cui fu sottoposta la Comunità.

Dopo questa decisione, vi furono altre proposte di espellere gli ebrei che, tuttavia, non ebbero seguito[45].

La prima conversione di cui si ha notizia è, nel 1530, quella del figlio di Anselmo del Banco, Ya’aqov, che ricevette la concessione papale di ereditare dai parenti, a tempo debito, la propria parte, salvo quanto derivava dai proventi dell'usura. L'anno seguente si convertì tale Johannes Matheus, con la moglie e sei figli, mentre nel 1555 furono battezzati a V. e, in seguito, caddero in mano turca Stephanus De Magistris e dodici membri della famiglia[46].

In conseguenza alla disputa tra due stampatori veneziani (Giustiniani e Bragadini), il Papa decretò, nel 1553, il rogo del Talmud, eseguito in piazza S.Marco, cui fece seguito l'ordine dogale ai sudditi ebrei e cristiani di tutta la Repubblica di portare entro otto giorni i libri ebraici proibiti a V. perché vi venissero bruciati[47].

Nonostante l’ostilità verso la presenza ebraica, manifestatasi nelle complesse vicende delle ricondotte, V., per motivi commerciali, era interessata alla presenza dei Levantini e nel 1541 concesse loro di risiedere due anni nella città, senza portarvi le famiglie e senza stipulare una condotta. Autorizzati ad esercitare solo il commercio, i Levantini erano sottoposti alla giurisdizione dei Cinque Savi alla Mercanzia ed erano esentati dagli oneri fiscali e dai prestiti forzosi cui dovevano sottostare gli altri ebrei[48].

Nonostante V. limitasse, nel 1549, la presenza dei mercanti ad un anno, a causa delle “malefatte” ebraiche favorite dal prolungato soggiorno, de facto il governo la tollerava, trattandosi di residenti stranieri. Il fatto di essere considerati più sudditi ottomani che ebrei sembrò  minacciare i Levantini che, infatti, in conseguenza della guerra con l'Impero ottomano, furono imprigionati ed ebbero confiscati i beni, venendo rimessi in libertà e reintegrati nelle proprietà solo dopo la pace del 1573. L'anno seguente, essi si appellarono - invano - ai Cinque Savi alla Mercanzia per poter continuare ad esercitare indisturbati le loro attività a V. e nella Repubblica, in caso di futura guerra[49].

Nel 1589 i Levantini e i Ponentini chiesero alle autorità di poter risiedere liberamente a V., dedicandosi al commercio d'oltremare, e di godere della garanzia di incolumità in caso di guerra. Mentre analoghe richieste, avanzate precedentemente (nel 1583 e 1584) dal mercante d’origine portoghese Daniel Rodriga (Rodrigua) o Rodriguez[50] in nome dei due gruppi, non erano state accettate, per timore che tutti i commerci veneziani finissero in mano ebraica, lo furono nel 1589, data l'importanza acquistata dai mercanti ebrei nell’economia veneziana. Pertanto, venne offerta a Ponentini e Levantini una condotta decennale che includeva la facoltà di vivere liberamente con le famiglie a V. e ovunque nel territorio della Repubblica cossì da Terra come da Mar e navegar liberamente, come fanno al pnte [presente] li hebrei levantini viandanti[51]. Inoltre, venne accettata anche la domanda di non contribuire al sostentamento dei banchi di prestito gestiti dagli Ashkenaziti, dato che si dedicavano solo al commercio. Tra le richieste dei Sefarditi, poi, vi era anche quella di far passare ai Cinque Savi alla Mercanzia (cui spettava la giurisdizione sulle cause civili tra ebrei e turchi), il diritto di giudizio anche in caso di controversie tra mercanti ebrei[52].

La decisione del 1589, presa per contrastare la potenza spagnola ed in alternativa alle proposte dei senatori vicini alla Chiesa e alla Spagna, offrì agli ebrei condizioni simili a quelle che conferiva la cittadinanza de intus et extra[53].

Intanto, prima del 1586-1587, quando la Camera Apostolica iniziò a concedere agli ebrei svariate licenze di banco, il Senato veneziano aveva già elargito diverse concessioni in questo senso a feneratori ebrei, senza chiedere previa autorizzazione alla Camera Apostolica, della quale aveva suscitato il risentimento[54].

Tra il 1590 e il 1620 il Sant'Uffizio dell'Inquisizione a V. ebbe molte difficoltà nel procedere contro ebrei e marrani[55], complice l'atteggiamento della Serenissima, teso ad arginare l'ingerenza della Chiesa. Dopo la rottura con la Sede Apostolica e l’interdetto del 1606-1607, i limiti giurisdizionali del S. Uffizio furono fissati da Paolo Sarpi, giureconsulto della Serenissima in materia teologica, in un consulto del 1613, in cui si sosteneva che V. non avrebbe tollerato ingerenza alcuna riguardo agli ebrei[56]. Sebbene il Sarpi non avesse esplicitamente menzionato i marrani, la sua posizione in loro favore si evidenziò tre anni dopo, quando negò che V. potesse permettere di far perseguire un di loro, residente nel Ghetto veneziano, che aveva vissuto come cristiano a Pisa. Sotto l'influenza della posizione del Sarpi, nel 1618, fu inserito nel capitolo della condotta degli israeliti tedeschi un comma relativo ai casi controversi di battesimo di bambini ebrei, da rimettere al giudizio degli Avogadori di Comun[57].

Nel 1598 era stata rinnovata la condotta dei Levantini e dei Ponentini, aggiungendo, tuttavia, la clausola dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei “banchi della povertà” gestiti dagli Ashkenaziti. Già dalla condotta di questi ultimi del 1591 era stato attribuito alla Comunità di V. il ruolo di “capoluogo” delle altre tedesche della Terraferma rispetto ai banchi dei poveri: il sovrappiù della Terraferma doveva rifluire a V., mentre i gestori dei banchi veneziani dovevano essere pronti a prestare nella Terraferma, in caso di necessità. La gestione dei banchi dei poveri diventava un elemento dell'amministrazione dello stato, sviluppato su scala territoriale, sotto la sorveglianza del Magistrato al Cattaver. Con il contributo sefardita obbligatorio ai banchi dei poveri, la Comunità ashkenazita assunse anche una posizione di controllo sulle finanze dei sefarditi e, di conseguenza, una posizione egemone nell’Università degli Ebrei[58].

All'inizio del XVII secolo, cominciò a configurarsi il problema giuridico connesso agli Statuti di quest’ultima o Libro grande (redatto nel 1607) in cui il diritto della Serenissima all’amministrazione della giustizia sembrava essere del tutto avocato agli organi giudiziari del Ghetto, facendo sorgere il dubbio che gli ebrei avessero creato una sorta di “Stato nello Stato”[59].

Malgrado tale questione, la Serenissima, per far fronte alla concorrenza anglo-olandese nel commercio del Mediterrraneo orientale, confermò, nel 1625, il permesso di navigazione concesso ai Levantini e ai Ponentini nel 1611 e, nel 1634, venne estesa agli Ashkenaziti la facoltà di commerciare in Levante[60].

Nel 1630-1631, V. era in preda alla peste che mieté 45.000 vittime tra i veneziani e 450 tra gli ebrei[61]. Qualche mese dopo la fine dell'epidemia, nel maggio del 1631, scoppiò una controversia tra i capi della Comunità ashkenazita e i capi della Fraterna di Botteghieri (associazione del Ghetto non chiaramente identificata), che riproponeva il dubbio sulla legittimità dell’autonomia legislativa della Comunità ebraica, in quanto i botteghieri si erano rivolti agli Avogadori del Commun, nonostante gli statuti interni si opponessero al ricorso alla giustizia dello Stato. Tali statuti, pertanto, apparvero lesivi dei diritti della Repubblica all’Avogador, per cuivenne sollecitato l’intervento del giureconsulto del governo in materia teologica, Gaspar Lonigo, che, assieme a Fra’ Micanzio, aveva preso il posto del defunto Paolo Sarpi. Il Libro grande fu, pertanto, tradotto dall’ebraico in italiano e condannato dal Lonigo come espressione di “lesa maestà” nei confronti dello Stato veneziano. Il caso passò poi al Micanzio che, consultandosi con un rabbino locale, ridimensionò la questione, comunicando al Senato la propria opinione, ovvero che gli ordinamenti interni ebraici non erano da considerarsi lesivi dell'autorità statale. Dopo varie vicende, non del tutto chiare, lo “scandalo” fu messo a tacere e l'autonomia della Comunità ebraica continuò sino al 1797. Tuttavia, documenti attestano che alcuni funzionari della Comunità furono imprigionati per giorni, come presumibile strascico della grave crisi che aveva opposto l'autorità repubblicana all'Università degli Ebrei[62].

Un’eco della spinosa vicenda segnò, poi, le condizioni per il rinnovo della condotta dei Ponentini e dei Levantini nel 1635-1636[63].

Inoltre, l'accusa di lesa maestà si profilò ancora quando, nel 1637, un’ebrea veneziana, Ricca Luzzatto, sparì con i figli dalla Casa dei Catecumeni, dando alle autorità adito a pensare che si fosse nascosta nel Ghetto, con la complicità di tutta la Comunità, spinta all’omertà dai capi. Questi ultimi, pertanto, furono imprigionati e interrogati, tra l'altro, anche sul Libro Grande[64].

Dopo l'ultimo decennio del Seicento, la Comunità veneziana attraversò un periodo di notevoli difficoltà finaziarie, causate dai tributi estremamente gravosi cui era sottoposta e dal mantenimento dei “banchi della povertà”, ai quali si mostravano sempre più renitenti a contribuire le altre Comunità ebraiche del Veneto. Svariate famiglie abbienti avevano lasciato la città per recarsi ad Amsterdam, Londra, Livorno o, comunque, in località dove le condizioni di vita e le prospettive commerciali erano più favorevoli per gli ebrei, mentre numerosi immigrati dall’Europa orientale e soprattutto dalla Polonia, in prevalenza poveri, erano venuti ad aggiungersi agli altri indigenti mantenuti dall’assistenza pubblica e dalla carità privata.

Mentre i privati si arricchivano, l'Università di V., troppo provata dai “banchi della povertà”, fu costretta a dichiarare, nel 1737, lo stato di insolvenza: rimasta senza esito l'istituzione di un Monte di Pietà, discussa in quegli anni, i banchi continuarono comunque a sussistere, sopravvivendo alla fine della Repubblica[65]. Tra i sistemi messi in atto per far fronte alle spese, vi fu, verso la fine del XVII secolo, il sistema delle rendite vitalizie tra la popolazione cristiana e, in particolare, tra monasteri e singoli religiosi, attratti dalla possibilità di rendite perpetue o a vita, dietro corresponsione di cifre iniziali relativamente esigue. A partire dal 1752 una parte dei crediti cristiani venne ammortizzata mediante estrazioni annuali di 2.000 ducati, mentre i vitalizi venivano regolarmente corrisposti fino alla morte del beneficiario[66].

Dai resoconti del Savio Cassier e di altri pubblici funzionari del 1760 risulta che il commercio esercitato dagli ebrei veneziani, per il Ponente e per il Levante, era considerato di vitale importanza per V., anche se l'onestà dell’operato ebraico andava sottoposta al parere dei baili veneziani del Levante. Tuttavia, nella Ricondotta del 1777 furono permessi solo la strazzaria e il commercio di abiti usati[67].

Contro il divieto di commerciare in cereali, si pronunciò, nel 1786, la “Conferenza” incaricata dal Senato di studiare i capitoli per la Ricondotta. Dai verbali rimastici si evince che una’eco delle idee illuministiche europee era penetrata anche nel patriziato veneziano, come mostra la dichiarazione del patrizio Nicolò Erizzo di considerare gli ebrei come tutti gli altri uomini, né gli fa senso alcuna differenza di religione[68].

Grazie a queste e a più pragmatiche considerazioni di interesse pubblico, venne allargato il numero delle attività consentite agli ebrei[69].

Il 12 maggio 1797 la Repubblica veneta cedette alla democrazia francese[70].

Vita comunitaria

All'epoca del loro insediamento a V., come anche in seguito, gli ebrei non erano gravati da tasse personali, ma da tasse collettive e da imposte alquanto gravose. Dal 1510 vi era un’organizzazione comunitaria in grado di effettuare le riscossioni, punire gli eventuali evasori fiscali e assicurare il dovuto pagamento alla Serenissima, capeggiata da Anselmo del Banco (alias Asher Meshullam)[71].

L’Università degli Ebrei si autogestiva grazie alla “congrega” o Qahal Gadol, che rappresentava l’autorità suprema. Ne facevano parte tutti i capifamiglia che pagavano più di 12 ducati all'anno di tasse comunali (nel XVII secolo, il Qahal Gadol contava 60 Ponentini, 12 Levantini e 40 Tedeschi), accompagnati e, talvolta, contrastati nel governo della cosa pubblica dai rabbini e dai dotti. A capo della congrega vi erano sette gastaldi o capi (in ebraico, parnassim o memunnim)- tre Ponentini, tre Tedeschi e un Levantino- che formavano il Vaad Qatan, o assemblea, deliberativa che rappresentava gli ebrei veneziani presso la Serenissima e che si era arrogata le prerogative un tempo riservate ai rabbini, fungendo da tribunale per le dispute interne e per quelle controversie d’ordine civile in cui ambo le parti si erano appellate alla sua decisione. Qualora, invece, le parti in causa non avessero voluto sottomettersi al suo verdetto, la Repubblica avocava a sé il diritto di giudicare. Nel tribunale ebraico le parti in causa avevano preso l'abitudine di farsi rappresentare da un avvocato, nonostante la disapprovazione dei rabbini. Un membro del Vaad Qatan, aiutato, talvolta, da un coadiutore, fungeva da gabbay o “esattore” per le tasse comunali e un altro da gizbar o “cassiere” per il controllo delle spese. Il Vaad Qatan era eletto dalla congrega ogni due anni e mezzo con votazione segreta e nessuno aveva diritto di essere in carica per più di cinque anni. L'elezione era presieduta da uno dei gastaldi in carica, assistito da due scrutatori e un segretario. Dal 1645 venne aggiunto un gastaldo onorario per ognuna delle tre nazioni, portandone il numero a dieci (ridotti a cinque nel XVIII secolo dato il calo demografico). Ognuna delle tre nazioni era governata negli affari interni da un Consiglio, formato da due rettori, due esattori delle tasse e due tesorieri. Ogni anno venivano eletti due Parnasse’ mezonot per controllare l’approvigionamento di cibo casher.

Dalla metà del XVI secolo invalse da parte di singoli l'abitudine di sottrarsi all’autorità comunitaria, cui la Comunità oppose l’uso delle “scomuniche” sotto il controllo rabbinico. Nel 156, il Patriarca di V. conferì potere di scomunica a tre rabbini e a sette capi laici. Dati i disordini e gli abusi cui dava luogo il sistema delle scomuniche, nel 1581 e nel 1606 venne sospeso tale diritto, con l’implicita giurisdizione interna. Nel 1671 il diritto di controllo venne assunto dal Patriarca e conferito ai Cattaveri.

Dal 1527 venne concesso agli ebrei di auto-tassarsi per far fronte a tutte le spese cui era tenuta la Comunità[72]: tutti i membri, tra i 20 e i 60 anni, furono tenuti a pagare le tasse stabilite dai tansadori che, a questo scopo, si riunirono in commissione per due ore al giorno per 45 giorni, dopo aver giurato solennemente di mantenere il riserbo sulla loro attività, mentre ogni sei mesi due auditori (eletti ogni due anni e mezzo) dovevano controllare i conti. Dal 1685 ognuno dei tansadori dovette compilare individualemte un registro segreto con la valutazione delle imposte fatta per ogni individuo e venne poi fatta la media tra le varie stime e ridotta di un quinto, che era la cifra che ogni singolo doveva pagare. In seguito, venne applicato il metodo dell'auto-definizione della cifra che ognuno avrebbe dovuto corrispondere, sotto la sorveglianza del rabbino e del segretario e sotto pena di scomunica per gli evasori. Nel 1699, a titolo di prova, venne introdotto per le tre nazioni il sistema di tassazione della cassella, ma nel 1710 gli fu preferito quello di stabilire individualmente con il rabbino la propria quota di tasse, decisione che fu presa senza l'approvazione delle autorità civili, attirando critiche. Nel 1722 si ritornò ad un sistema di tassazione basato sui ripartitori d’imposta segreti. L'esazione delle tasse fu fatta in maniera autonoma dalle tre nazioni sino al 1726, quando si giunse ad un accordo comune[73]. Nel 1779, infine, 143 famiglie erano sottoposte alla tansa biennale dell’Università, secondo la forza riconosciuta dei loro negozi[74].

La pubblica assistenza era gestita attraverso confraternite private, separate per le tre nazioni, come le opere di pietà verso i defunti (Ghemilut hasadim), la visita ai malati (Bikkur holim), le sovvenzioni di denaro e di vestiario ai poveri e le sovvenzioni per l’istruzione ai bambini (Talmud Torah). Tra le confraternite che si proponevano di distribuire doti per favorire il matrimonio delle ragazze povere, si distingueva quella ponentina che, costituitasi nel 1613, estraeva annualmente a sorte una dote di 300 ducati d’oro per un'orfana, con priorità per le figlie dei membri della confraternita defunti. Per gli ebrei di passaggio, vi era inoltre un ostello o Heqdesh, che fungeva anche da ospedale, in cui venivano curati gratuitamente per alcuni giorni. La confraternita Tzedah la derekh forniva ai forestieri poveri cibo e denaro sino al raggiungimento della più vicina città. Inoltre, vi erano la confraternita Shomerim la-­Boqer, che si incaricava di risvegliare gli abitanti del Ghetto, e la confraternita per il riscatto degli schiavi (Pidyon Shewuyim). Di quest'ultima si servì l’Università nel 1742, per far fronte al deficit dovuto al mantenimento dei banchi della povertà trasferendo 3.100 ducati dalle sue casse in quelle di questi ultimi[75]. Come ricordato più sopra, per far fronte alle spese dei banchi verso la fine del XVII secolo la Comunità escogitò il sistema delle rendite vitalizie tra la popolazione cristiana[76].

Attività economiche

Gli ebrei cui fu consentito di risiedere a V., dal 1382 al 1397, praticavano l'attività feneratizia: nel 1382 furono permessi tre banchi e le cifre che i feneratori ebessi erano autorizzati a prestare andavano da 1 a 30 ducati, in conformità con la funzione di venire incontro ai bisogni dei meno abbienti che giustificava la loro presenza in città[77]. Il tasso di interesse autorizzato, secondo documenti del 1387 e 1389, era dell'8% per il prestito su pegno e del 10% per il prestito senza pegno[78]. Per avere il monopolio della gestione dei banchi, i feneratori dovevano pagare una cifra notevole, fissata dal Maggior Consiglio nel 1385 a 4.000 ducati annuali, con decorrenza dal 1387 (quando sarebbe entrata in vigore la nuova condotta). Presumibilmente, i banchi ebraici di V. avevano un capitale di 45.000 ducati almeno e nel 1389 venne istituito un nuovo banco, il cui capitale era di 5.000 ducati[79]. Dal 1387, intanto, la vendita all'incanto a Rialto dei pegni non riscattati fu affidata ai Sopraconsoli ed era proibito prendere in pegno beni della Chiesa o arredi sacri[80].

Da documenti degli anni Ottanta del XV secolo, si evince che il tasso d'interesse cui erano autorizzati i banchieri ebrei era allora del 15% per prestito su pegno, ma poteva aumentare in mancanza di quest’ultimo[81].

Nel 1548 il tasso di interesse consentito oscillava tra il 12% e il 15%, mentre nel 1566,era del 10% e nel 1573 del 5%[82]. Quest’ultimo tasso di interesse, nella sua esiguità mostra come, dopo Lepanto, i banchi gestiti dagli ashkenaziti avessero assunto la funzione di banchi dei poveri per sopperire all'indigenza della popolazione[83].

Tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo ci sono indizi che corroborano l'ipotesi della partecipazione ebraica al commercio di gioielli e pietre preziose[84]. La strazzaria, illecitamente praticata dagli israeliti veneziani, che rivendevano per conto proprio gli oggetti non riscattati, fu, tuttavia, loro severamente proibita nel 1498, pur continuando de facto a sussistere, come risulterebbe dal diritto di gestire dieci botteghe dell'usato ottenuto nel 1515. L'anno seguente, per non favorirli in una concorrenza sleale contro gli strazzaroli cristiani, fu proibito loro di esercitare l’attività nei giorni di festa cristiani[85]. In seguito gli strazzaroli rivestirono un ruolo di notevole importanza, divenendo i fornitori degli arredi dei luoghi pubblici, soprattutto nelle feste ufficiali,  sotto la magistratura delle Rason Vecchie[86]. Dopo il 1560 si trovano anche ebrei attivi nella sansaria o mediazione nelle transazioni commerciali[87].

Risulta attestata, inoltre, l’attività dei medici ebrei[88] e, a partire, dal primo ventennio del secolo XVI, l'arte della stampa[89]. Prima del 1541, erano attivi a V. mercanti che, presumibilmente, venivano nella città solo per commerciare, ma senza risiedervi[90]. Dalla fine del XVI secolo, l'attività mercantile fu gestita dagli ebrei levantini e ponentini.

Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, vi erano poi  maestri di danza, suonatori, cantanti, danzatori ed attori ebrei che venivano ingaggiati, previa autorizzazione del Cattaver, anche dai cristiani[91].

Nel 1655 gli ebrei furono assunti come importatori per tutto il territorio veneziano del tabacco proveniente dal Brasile e dalla Nuova Spagna[92].

Nel 1777 la Ricondotta proibì l’industria ebraica a domicilio e, quanto alle fabbriche di manifatture vere e proprie, avrebbero dovuto essere smantellate, con tempi diversi, sia se fossero state aperte per pubblico decreto sia abusivamente. Venivano permesse solo le fabbriche di lavoro nuovo e non usato da Cristiani, purché la concessione fosse approvata dal Collegio e dal Senato con la maggioranza di quattro quinti dei votanti. Tra le attività in cui si distinguevano gli impreditori ebrei vi era allora anche quella connessa alla lavorazione della seta e del sublimato[93].

Due anni più tardi, nel 1779, la nuova Conferenza sul commercio marittimo ebraico nel Levante confermò agli ebrei la partecipazione alla proprietà di navi mercantili e la conseguente concessione di battere bandiera veneziana, iniziata nel 1689. Tuttavia, la concessione delle regie patenti per divenire parcenevoli (possessori di una parte di proprietà di una nave) venne limitata alle ditte ebraiche più affidabili, facenti capo alle famiglie tassate nella seconda e la terza categoria fiscale[94]. Dalla ripartizione della Tansa sopra il censo e navigazione del 1797, risultava che decine di ebrei erano qualificati come parcenevoli o pieggi (mallevadori) di navi mercantili[95].

Dopo il 1786 fu consentito di appaltare allo Stato forniture di generi vari, ad esempio per l’Armata dell’Arsenale. Inoltre, venne anche concesso l’acquisto di grani in Terraferma, ma solo per l'esportazione e non per la rivendita all'interno dello Stato[96]. Le maggiori forniture di viveri, per conto della municipalità, vennero fatte da ditte ebraiche e principalmente alla Ditta Vivante, che, nel 1797, ottenne dal Comitato Finanze e Zecca l'approvazione di un suo conto di più di 150.000 ducati effettivi in acconto del suo credito per la somministrazione fatta alle truppe francesi[97].

Dal censimento del 1797, risulta che 55 capifamiglia fossero classificati come commercianti, 18 come occupati nei banchi di pegno, 75 come strazzaroli, 34 come sensali vari, 1 come libraio, 1 come venditore di panni al minuto, 1 come venditore di mobili, 4 come merciai e 23 come rivenditori di derrate alimentari. A questi vanno aggiunti 41 “agenti privati”, impegnati presumibilmente nella contabilità e nella corrispondenza dei commercianti, nonché 8 sarti, 3 tipografi, 3 imbianchini o decoratori, 1 riparatore di sedie, 1 incisore di pietre, 15 maestri di scuola, 21 religiosi, 5 medici, 3 chirurghi, 1 levatrice, 5 facchini, 2 custodi dell’ospizio dei poveri, 3 portalettere, 84 tra servitori e cuochi, 19 “industrianti” (cioè lavoranti alla giornata), 29 questuanti e 1 agricoltore (d'origine veronese, da 16 anni a V., di cui, tuttavia, non si sa come e dove esercitasse l'agricoltura)[98].

Demografia

Secondo una fonte del XVI secolo, che, tuttavia, sembra peccare per eccesso, gli ebrei nel 1510, sarebbero stati più di 500, mentre nel 1516 sarebbero stati 700[99]. In base ad un censimento del 1552, risultavano esservi 902 ebrei a V. su una popolazione di circa 158.000 abitanti[100]. Dai censimenti del 1555 e del 1556 ne figuravano 923, 1.424 da quello del 1563, mentre nel 1632 gli ebrei erano 2.414[101], 4.870 nel 1655[102], 1.673 nel 1766, 1.624 nel 1771, 1.521 nel 1780, 1.570 nel 1785 e 1.517 nel 1790[103]. Altre fonti citano un censimento veneziano del 1586 che stimava che il numero dei residenti nel Ghetto ammontasse a 1.694[104].

Dal censimento ordinato dalla Municipalità nel 1797, risultava che vi fossero 473 famiglie ebraiche a V. e che il totale della popolazione ammontasse a 1.626 persone (820 maschi e 806 femmine)[105].

Ghetto

Il ghetto[106], istituito a V. nel 1516, era cinto da mura e separato da tre porte, chiuse di notte e sorvegliate da una guardia, pagata dagli ebrei[107]. Alle norme circa la segregazione notturna fu fatta quasi subito eccezione per i medici che si fossero trovati a dover uscire per curare pazienti cristiani. Il primo stanziamento fu nel Ghetto Nuovo, nella parrocchia di S. Girolamo[108]. Nel 1541 il Senato, preso atto dell’importanza degli “Ebrei levantini viandanti”, decise di farli stanziare nel Ghetto Vecchio[109]. Il Ghetto Vecchio - che comprendeva, principalmente: Calle Mocato, Calle dei Barucchi, la Corte Scarlamatta e la Corte dell'Orto - sfociava intorno alla piazzetta, detta Campiello delle Scuole e, superato un ponte, conduceva al  Ghetto Nuovo, cui si aggiungeva il Ghetto Nuovissimo, consistente nella Calle del Porton (cioè nella calle che conduceva ad uno dei portoni del ghetto) e in un paio di altre viuzze. La struttura del ghetto e delle sue case rendeva particolarmente temibili gli incendi e, infatti, quello del 1752 in Calle dei Barucchi ebbe gravissime conseguenze, come del resto quello scoppiato nel 1765 nella Grande Sinagoga di rito tedesco, commemorato, in seguito, con un inno, recitato per lunghi anni nell’anniversario della disgrazia[110]. I portoni del Ghetto furono abbattuti alla caduta della Repubblica veneta nel 1797.

Cimitero

Un documento del 1386 attesta che il comune concesse agli ebrei di farsi un cimitero. La concessione fu statuita dai Giudici del Piovego (Judices Publicorum) che assegnarono a Salomon ebreo, residente a S. Sofia,  a Crisanto ebreo, abitante a S. Apollinare, e ad altri loro correligionari un tratto di terreno al Lido, compreso fra il monastero di S. Nicola e la riva della Laguna. Nel 1389 fu concesso di recintare il cimitero per evitare la profanazione delle tombe, ma ne seguì un contenzioso con il monastero, conclusosi con un processo vinto dagli ebrei, con la clausola di separare il terreno loro assegnato solo con tavolati. Nel 1578, tuttavia, l’Università dovette venire a patti con il monastero, pagando un indennizzo per poter disporre liberamente del terreno occupato. Dal 1621 al 1641 furono aggiunti altri appezzamenti di terra, previo risarcimento economico al monastero[111].

Nella condotta del 1589 i Levantini e i Ponentini ricevettero anche la concessione di un terreno fuori città per seppellirvi i morti[112].

Sinagoghe

Da un atto del 1426 risulta che gli ebrei veneziani prendevano allora in affitto case in cui aprire oratori, provocando l'immediato divieto di V. [113] .

Nel 1503 il Senato decise di concedere agli ebrei di Mestre di pregare a V., ma senza istituirvi sinagoghe, mentre a Mestre era permessa una sinagoga vera e propria[114].

Gli studiosi che si sono occupati del Ghetto ritengono che luoghi di culto, siti in case private, dovevano esservi a V., anche prima della segregazione, nella zona intorno all'area mercantile di Rialto e, dal 1516 al 1527, all’interno dell’area ghettuale. Nel 1528 fu fondata, nell’isola del Ghetto Nuovo, la Scuola Grande Tedesca, seguita, nel 1532, dalla Scuola Canton, sempre di rito tedesco. Nel XVII secolo fu fondata la sinagoga di rito italiano, dove predicò il celebre Leone Modena[115]. I Levantini e i Ponentini ebbero, invece, le loro sinagoghe, fondate verso la metà del XVII secolo, nel Campiello delle Scuole, nel Ghetto Vecchio. La Scuola Spagnola, in cui si raccolsero i Marrani tornati all'ebraismo risale al 1584 e fu ingrandita e restaurata, assumendo un aspetto particolarmente pregevole, sotto la direzione del Longhena, all’epoca l’architetto più celebre di Venezia. Inoltre, vi erano la Scuola Luzzatto, di rito tedesco, fondata originariamente come oratorio privato nella casa dell'omonima famiglia, nel XVII secolo, demolita nel successivo perché pericolante e trasferita altrove, la Scuola Meshullamim, di rito tedesco, della famiglia Del Banco, in seguito distrutta, e la Scuola Coanim, di rito tedesco, fondata dall'omonima famiglia[116].

Rabbini, dotti e personaggi famosi

Tra gli svariati medici illustri che vissero a V., troviamo, nel XIV secolo Magister Leone, autorizzato all’esercizio della professione senza dover passare per l’esame d’obbligo alla presenza dei funzionari della Giustizia Vecchia e, all’inizio del XV secolo, Magister Solomon[117].

Il più famoso ebreo originario della penisola iberica che soggiornò a V., all’inizio del ‘500, fu Don Isaac Abravanel, che vi restò dal 1503 al 1508. Filosofo, diplomatico, uomo d’affari, Don Isaac offrì al Consiglio dei Dieci i propri servigi come mediatore tra V. e il Portogallo per il commercio delle spezie provenienti dall'Estremo Oriente[118].

Nell’inverno del 1523 era a V. David Reubeni (m. 1538?), avventuroso personaggio che suscitò speranze messianiche tra le masse ebraiche. Proclamandosi comandante in capo dell’esercito del fratello e investito di un’importante missione per il Papa, cercò aiuto presso gli ebrei veneziani, suscitando perplessità, ma anche adesioni, come, ad esempio, quella del pittore Mosè da Castellazzo[119]. Tornato a V. nel 1530, vi incontrò il cabbalista e sedicente messia d’origine portoghese e marrana, Shlomo Molcho (c. 1500-1532). Tra gli oppositori di quest’ultimo, troviamo Yaaqov ben Shemu’el Mantino, di probabile origine spagnola, che fu celebre medico (tra l’altro, di Paolo III), traduttore di opere filosofiche dall'ebraico in latino e visse in alcune città italiane, tra cui V.[120]. Tra i sostenitori di Molcho vi fu, invece, Eliyah Menahem Halfan, figlio dell’astronomo Abba Mari Halfan e nipote del famoso rabbino Yosef Colon, che fece parte dei rabbini italiani chiamati a pronunziarsi sul divorzio di Enrico VIII da Caterina d'Aragona, dichiarandosi a favore. Per questa sua presa di posizione e per il favore mostrato nei confronti di Molcho, fu osteggiato dal Mantino che temeva che tali atteggiamenti potessero provocare una reazione del Papa contro gli ebrei. Scrisse anche responsa, di cui uno in favore dell’insegnamento della Torah ai gentili[121].

Nel 1546-1548 risultava essere a V. Beatrice de Luna[122], alias Doña Gracia Nassi (c. 1510-1569)[123], giuntavi precedentemente da Anversa, che sarebbe divenuta nota per le sue capacità imprenditoriali e per l’assistenza fornita ai marrani.

Salomone Ashkenazi, d'origine udinese[124], giunse a V. nel 1574 come ambasciatore ottomano, dopo aver cooperato a sventare l’espulsione del 1571[125].

Si stabilì a V. anche il medico spoletino David de Pomis (1525-1593), autore di opere attinenti la medicina, e di altre, tra cui un dizionario trilingue (ebraico-latino-italiano)[126].

Nel XVII secolo visse a V. Simone (Simcha) Luzzatto (1583-1663): noto rabbino, autore di responsa citati nelle opere di Jakob Heilbronn e di Isacco Lampronti, partecipò, nel 1606, come membro del collegio rabbinico di V., alla controversia sul bagno rituale di Rovigo. Nel 1638 pubblicò il Discorso circa il stato de gl’hebrei, et in particolar dimoranti nell'inclita città di Venetia, scritto apologetico in sostegno dell’utilità della presenza ebraica, cui avrebbe dovuto seguire un’opera sulle credenze e i riti degli ebrei, tuttavia non portata a compimento. Scrisse anche Socrate ovvero dell'umano sapere, trattazione filosofico-teologica, pubblicata nel 1651. Una sua opera in sostegno della verità della Torah orale, citata nel Devar Shemuel di Shemu'el Aboab è andata perduta, così come la sua raccolta di derashot (sermoni)[127].

Leone (Yehudah Aryeh) Modena (1571-1648), noto rabbino, predicatore e scrittore molto versatile, dopo i primi studi compiuti a Ferrara (che spaziavano dall'ebraico e dalla tradizione ebraica alla cultura italiana dell'epoca), si trasferì a V. Alle sue derashot (sermoni) assisteva un folto pubblico ebraico-cristiano e consulti gli furono richiesti sovente dai contemporanei sui svariati argomenti. Fu versato soprattutto nella musica, nel canto e nella poesia, ma della sua opera nel campo drammatico ci resta solo la tragedia Ester (1619), dedicata a Sara Copio Sullam. Prolifico autore, ha lasciato svariate opere polemiche, tra cui Magen ve-Zinnah, contro Uriel da Costa e in difesa della tradizione orale, Ari Nohem contro la Qabbalah, Magen ve-Herev, opera fortemente critica nei confronti del cristianesimo. Ebbe, tuttavia, frequenti rapporti intellettuali con personalità cristiane e scrisse la Historia de li riti hebraici nell’intento di avvicinare il mondo cristiano alla religione ebraica. Confutò l'opera tendenziosa di Sisto Senese (usata anche nei tribunali in funzione anti-ebraica) con un breve scritto che non ottenne, tuttavia, il permesso di pubblicazione. Accanito giocatore, dovette far fronte alla cronica penuria di mezzi, praticando, come rivelò nella sua autobiografia, Hayyei Yehudah, ben 26 mestieri[128].

Di un certo rilievo fu anche Sara Copio Sullam (1592?-1642), poetessa, mecenate e animatrice di un vivace salotto letterario (accademia, nel linguaggio dell’epoca) cui partecipavano intellettuali ebrei e cristiani. In risposta all’accusa di eresia mossale da un frequentatore del suo circolo, un prelato probabilmente deluso dal mancato effetto dei propri sforzi per spingerla al cristianesimo, scrisse il Manifesto sull'immortalità dell'anima (1621). Intrattenne, inoltre, un annoso rapporto epistolare con il letterato genovese Ansaldo Cebà, da cui trapela la volontà di resistere alla conversione e di asserire la superiorità dell’ebraismo[129].

Lo storico d’origine marrana Rodrigo Mendez da Silva (1606-1676), cronista reale alla corte di Spagna e perseguitato, nel 1659, come giudaizzante, si rifugiò nel ghetto di V., dove tornò apertamente all'ebraismo, con il nome di Yaaqov.

Shemuel ben Avraham Aboab (1610-1684), nato ad Amburgo, ma, dal tredicesimo anno di età trasferitosi a V., dove fu allievo del rabbino David Franco, divenne, in seguito, rabbino di Verona e tornò, poi, a V., dove fu rabbino dal 1650. Costretto ad abbandonare la città per oscure ragioni, vi ritornò per passarvi gli ultimi anni. Autore di opere sulla Legge ebraica e dei responsa pubblicati postumi a V., con il titolo Devar Shemuel, ebbe due figli e un nipote rabbini a V.[130].

Proprio nel Devar Shemuel sono pubblicati anche alcuni responsa del rabbino e predicatore veneziano Azaria Figo (1579-1647), tornato alla sua città natale nel 1627, con l’incarico di darshan della comunità sefardita. Figo, in obbedienza al suo rigorismo religioso, proibì l’istituzione di un teatro nel ghetto e criticò duramente i costumi rilassati dei correligionari. Attivo nel riscatto dei prigionieri, prese posizione a favore dell’ebraicità dei marrani. La sua opera più importante fu una raccolta di sermoni tenuti a V., Binah le-Ittim (1648)[131].

V. fu anche un centro sabbatiano e anti-sabbatiano: il “profeta” di Shabbetay Zevi, Nathan di Gaza, giunto in città nel 1668 fu presto fatto desistere dalla propria opera missionaria dai rabbini, tra cui Shemuel Aboab.

Soggiornò per qualche tempo a V., dove si era rifugiato per sfuggire all'Inquisizione e per tornare apertamente all'ebraismo, Fernando (Yitzhaq) Cardozo (1604-1681), marrano d’origine portoghese, che fu medico alla corte di Spagna. Autore di poesie, di un'opera filosofico-teologica, Philosophia libera (Venezia, 1673) e di un’apologia dell’ebraismo, si oppose al sabbatianesimo di cui, invece, era seguace il fratello, Avraham Miguel (1626-1706), che, tornato all’ebraismo a Livorno, passò, poi, a V., dove terminò gli studi di medicina e acquisì competenza negli studi rabbinici, studiando con i rabbini locali, ma lasciando ben presto la città per darsi ad una vita errabonda, sulle tracce delle sue intuizioni mistiche[132].

Tra i medici di origine marrana che furono attivi propugnatori del ritorno all'ebraismo troviamo anche Eliyah Montalto, che fu medico personale della regina di Francia e soggiornò, per qualche tempo a V., dove si era rifugiato per sfuggire all'Inquisizione e per tornare apertamente all’ebraismo[133]. Un atteggiamento inizialmente filo-sabbatiano e, dopo l'apostasia di Shabbetay Zevi, anti-sabbatiano tenne, invece, Mosheh ben Mordecai Zacuto (circa 1620-1697) che, nato ad Amsterdam da marrani portoghesi, dopo aver compiuto studi ebraici con Saul Levi Morteira e studi “profani” e aver frequentato yeshivot ad Amsterdam e in Polonia, si trasferì in Italia, stabilendosi, nel 1645 a V., dove divenne predicatore sotto l'egida del Figo e, poi, uno dei rabbini della città e membro della locale yeshivah. Tra il 1649 e il 1670 fu correttore di bozze di molti libri ebraici, principalmente d’argomento cabbalistico, stampati qui. Curò la pubblicazione dello Zohar hadash (1658), scrisse poemi e opere celebrative e cercò di procurarsi i manoscritti cabbalistici della scuola di Safed (soprattutto di Mosheh Cordovero e di Hayyim Vital). Fu amico, tra l’altro, di Benyamin Ha-Levi, emissario di Safed a V. nel 1658-1659. Inizialmente simpatizzante con il sabbatianesimo, si unì, tuttavia, ai rabbini di V. contro Nathan di Gaza, dopo l’apostasia di Shabbetay Zevi, nonostante i suoi due allievi prediletti (Benyamin Ha-Kohen di Reggio e Avraham Rovigo), fossero sabbatiani. Ebbe grande autorità tra i cabbalisti dell’epoca, con cui fu in corrispondenza. Pubblicò numerose opere esoteriche, tra cui un commento alla Mishnah (Qol ha-Remez), scrisse poesie d’argomento cabalistico, nonché il primo dramma biblico della letteratura in ebraico, Yesod Olam, composto  probabilmente prima del 1640, in cui si sente l’eco delle dispute su Uriel da Costa e la sua negazione dell'immortalità dell'anima. Sua è anche un’opera che riecheggia l’Inferno dantesco, Tofteh Arukh (Venezia 1715). Dal 1673 fu rabbino a Mantova, sino alla morte[134].

Tra i seguaci del sabbatianesimo a V. vi fu il cabbalista Nehemyah Hayon (c.1655-c.1730), prolifico autore di opere esoteriche, che soggiornò nella città nel 1711, dove pubblicò il volumetto Raza de-Yihuda, con il consenso dei rabbini locali che non ne avevano compreso le riposte intenzioni sabbatiane[135].

Tra i rabbini veneziani del XVIII secolo che si distinsero nella lotta contro la Qabbalah ereticale va ricordato Yitzhaq Pacifici, promotore della scomunica contro chi avesse letto o posseduto le opere del famoso mistico padovano Mosheh Hayyim Luzzatto (1707-1746).

Figure minori, ma, tuttavia, di una certa importanza, furono, nel Settecento i rabbini Simone (Simhah) Calimani e Yaqob Saraval[136]. Tra i medici si distinsero anche Yossef Nizza, figlio del rabbino veneziano Shelomoh, che si dedicò, oltre anche alla poesia in ebraico e Yossef ben Avraham Stella di Pirano, vissuto tra V. e Ferrara, che scrisse sui rimedi contro la peste l’opera Totzaot Hayyim, di cui furono stampati alcuni fogli a V. nel 1714. Dopo aver ricevuto licenza dai Provveditori alla sanità, esercitò a V. Yaaqov ben Avraham Abeniacar, autore dell’opera De sanguinis examine exercitatio, pubblicata a V. nel 1723, dedicata al noto medico Barukh ben Mosheh Saraval, laureatosi a Padova nel 1718. A V. venne stampata, nel 1714, l’opera Il peccator disperato, del medico e autore di sermoni morali Yitzhaq ben Immanuel Colli[137]. Dopo la metà del secolo non si ricordano, invece, medici di particolare rilievo[138].

Stampa ebraica

Opere contenenti caratteri tipografici o parole in ebraico erano già state stampate a V. tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo (la più importante di queste fu quella di Aldo Manuzio Introductio utilissima hebraica discere cupientibus). Tuttavia, solo con l'arrivo di Daniel Bomberg da Anversa, assistito nella sua opera dal neofita Felice da Prato, che nel 1515 curò la stampa della Bibbia ebraica[139], iniziò su scala relativamente vasta la stampa di opere ebraiche a V.: per più di una trentina d’anni Bomberg e il figlio David stamparono testi in ebraico con un successo che spinse altri a fare altrettanto.

Nel 1544 i fratelli Farri iniziarono a stampare producendo 10 libri, mentre Francesco Brucioli nello stesso anno ne stampò non più di due. Marc’Antonio Giustiniani nel 1545 installò una tipografia, usando i caratteri tipografici preparati da Guillaume Le Be e stampando un’edizione del Talmud, basata su quella del Bomberg (ma con alcune aggiunte) e altre 85 opere. In concorrenza con lui iniziò a stampare opere ebraiche Alvise Bragadini, partendo con il Mishneh Torah di Maimonide nel 1550, cui il Giustiniani oppose un’edizione piu economica. Ne sorse un contenzioso che, presumibilmente, diede origine al decreto papale di condanna del Talmud e della letteratura talmudica, con conseguente rogo dei libri nel 1553. L'anno seguente, il decreto fu revocato, ma la stampa dei libri ebraici fu sottoposta a censura, in gran parte affidata a neofiti spesso di poca cultura che, per eccesso di zelo, radiavano notevoli parti delle opere. Tuttavia, la carta con cui i libri venivano stampati risultava piu resistente dell’inchiostro usato dai censori per cancellare le parti considerate censurabili, per cui, dopo un certo periodo il testo originale riemergeva.

In conseguenza dell’istituzione della censura venne istituita a V. una nuova magistratura: i tre Savi sopra l’eresia. Nel 1563 la stampa ebraica prese nuovo impulso con cinque stampatori: Bragadini (che avrebbe continuato per 150 anni), Di Gara, Zanetti, Grifio e Cavalli. La famiglia Zanetti deteneva la supremazia nel ramo, ma smise l’attività nel 1608. Giorgio Cavalli, d’origine veronese, ma assurto al patriziato veneto per servizi resi dalla famiglia a Candia, fu attivo nella stampa dal 1565 al 1567: avvalendosi della collaborazione di Vittorio Eliano, nipote di Elia Levita,  di Rav Avraham Ayllon, di Samuel Böhm e altri produsse importanti opere, soprattutto di Legge ebraica. Tra gli stampatori vi fu anche Giovanni di Gara, che con i caratteri tipografici del Bomberg, tra il 1565 e il 1609, stampò più di un centinaio di opere. Poiché dal 1571 era stato proibito agli ebrei di essere attivi nella stampa (con il conseguente scadimento della qualità delle opere), il di Gara (come gli altri) si giovò della collaborazione degli ebrei come correttori di bozze, servendosi, tra gli altri, di Asher Parenzo, Samuele Archivolti, Leone Modena e Isacco Gershon (cui si deve l'inserzione dell’indice dell'opera per ogni libro cui pose mano)[140].

Nel 1631 Giovanni Vendramini istituì una stamperia, nota dal 1640 come “Commissaria Vendramina e Stamperia Vendramina”, considerata da certuni l’ultima delle grandi stamperie veneziane. La stamperia Vendramina e l’antica e prestigiosa stamperia Bragadina, inizialmente antagoniste nella concorrenza, si fusero nel corso del XVIII secolo. Dal 1667, tuttavia, i Bragadin cessarono di comparire direttamente, mentre vengono menzionati altri (Cristofolo Ambrosini, Gioavanni Doriguzzi e Domenico Bono).

Dalla metà del XVII secolo, la qualità della stampa ebraica veneziana andò decadendo (mentre altri centri, come Amsterdam, ne prendevano il posto). Un esempio è il livello estremamente modesto dei due formulari di preghiere per i servizi liturgici notturni di Hosh’annah Rabbah e Shavuot, stampati, tra il 1728 e il 1730, da Benyamin ben Aaron Polacco, presso la Bragadina.

Nel Settecento furono, inoltre, attivi a V. i Foa di Sabbioneta, celebri stampatori da secoli. Gad ben Yitzhaq Foa pubblicò una raccolta di preghiere penitenziali e una Bibbia presso la Bragadina, mentre, nel 1760-1762, pubblicò presso la Bragadina-Vendramina altre due opere. Sembra, inoltre, che egli abbia tenuto, sino al 1795, una tipografia propria[141]. Prestarono la loro opera nel ramo anche alcuni membri della famiglia Aboab, dalla fine del XVI alla fine del XVII secolo e, nel XVIII secolo, Yaaqov ben Yosef Aboab[142].

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[1] Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, p. 58; Roth, C., Venice, p. 8 (è da rilevare che il Roth menziona solo il 945 ).

[2] Gallicciolli, G., Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiatiche, II, Venezia 1795, pp. 278-79, par. 874-75, citato in Jacoby, D., Les Juifs à Venise du XIV au milieu du XVI siècle, p. 164, nota 2. Anche il Roth, C., Venice, p. 9, riteneva esagerato il numero di 1.300 ebrei, interpretandolo, tuttavia, come segno del fatto che essi avrebbero già costituito un nucleo consistente nella città. Dello stesso parere si mostra il Milano, A., op. cit., p. 71. Jacoby conferma l'ipotesi del Galliccioli che il numero esorbitante degli ebrei sia da spiegarsi con un errore nella datazione del censimento e, esaminando documenti posteriori, arriva alla conclusione che il censimento in questione sia del 1552; la datazione 1152 sarebbe, pertanto, da attribuirsi ad un errore di trascrizione del copista. Cfr. Beloch, J., Bevölkerungsgeschichte Italiens III, Berlin, 1961, pp. 19 e 22, citato ivi,  p. 164, nota 3. Il Ravid, pur concordando che la datazione sia da posticiparsi al XVI secolo, ritiene, tuttavia, che si tratti del 1555 circa. Ravid, B., The Jewish Mercantile Settlement of Twelfth and Thirteenth Century Venice: Reality or Conjecture?, p. 204.

[3] Secondo lo Jacoby, il fatto che esistesse un quartiere chiamato Giudecca non legittima la supposizione che vi risiedessero ebrei e, in assenza di ulteriori prove della presenza ebraica, ritiene che l'etimologia della denominazione Giudecca vada fatta risalire a zudegà “giudicati”, riferito ai patrizi ribelli, banditi da Venezia e relegati nell'isola di Spinalunga, nel IX secolo. Pertanto, quella che veniva considerata dagli studiosi una prova della presenza ebraica a V. verrebbe a cadere.Cfr. ivi, p. 165; cfr. Roth, C., Venice, p. 9; Milano, A., op. cit., p. 71; pp. 137; cfr., Idem, I primordi del prestito ebraico in Italia, in RMI 19 (1953), pp. 367-369, dove, tuttavia, l'a. esprime le proprie riserve circa l'etimologia del termine giudecca come incontrovertibilmente legata alla presenza ebraica: cfr. ivi, p. 367, nota 1. Sul problema di una presenza ebraica legata alla Giudecca, cfr. anche Ravid, B., The Jewish Mercantile Settlement, pp. 206-225. Jacoby ritiene destituita di fondamento anche l'opinione che il ruolo svolto dagli ebrei come commercianti fosse riconosciuto dal Maggior Consiglio e, per così dire, sancito, nel 1290, dall'obbligo di pagare una tassa del 5% su ogni operazione commerciale di esporto e di importo, sostenendo che tale tassa si riferiva agli ebrei di Creta e di Negroponto, soggetti a V. Cfr. anche Ravid, B., ivi, pp.205-206. Anche la deliberazione del 1298 sull'usura, ritenuta da riferirsi alla presenza ebraica a V., sarebbe destituita di fondamento, secondo lo Jacoby, cosi come l'indicazione di V. come possibile luogo in cui avrebbe dovuto tenersi il sinodo rabbinico, promosso da Hillel da Verona per discutere sugli scritti di Maimonide. Cfr. Roth, C., Venice, pp. 7-10; Idem, History of the Jews of Italy, p. 123; Pullan, B., Rich and Poor in Renaissance Venice, p. 444; Jacoby, D., op.cit., p. 165, note 5 e 6.

[4] Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, History, p. 351; Colorni, V., Judaica Minora, p. 92, nota 112. La presenza di neofiti ritornati all'ebraismo anche nella diocesi di Castello, facente parte di V. e suffraganea al patriarcato di Grado, solleva un dubbio sulla mancanza di documenti della presenza ebraica a V., in quest’epoca, dichiarata dallo Jacoby. Un altro indizio che attenuerebbe la portata della posizione espressa dallo Jacoby è dato dalla residenza a V. di Magister Jacob ebreo, che tradusse oralmente dall'ebraico in volgare l'opera medica dell'arabo Ibn Zohr, Teiçrin, per un medico padovano, che la trascrisse in latino. Sull'identificazione di Magister Jacob con Jacob ben Elia da V. o da Valenza sono divisi i pareri degli studiosi. Cfr. Colorni, V., op. cit., pp. 93-94.

[5] Cfr. Jacoby, D., Venice, the Inquisition and the Jewish Communities of Crete in the Early 14th century, in Studi Veneziani, 12 (1970), pp. 128-129, 132-133; Idem,Les Juifs à Venise (d’ora innanzi, op. cit.) p. 166, nota 9.

[6] Simonsfeld, H., Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venetianischen Handelsbeziehungen, I, Stuttgart 1887, pp. 28-29, nota 82, citato in Jacoby, D., op. cit., p. 166, nota 10.

[7] Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Liber Brutus, fol. 126 r., citato ivi, p. 166, nota 11.

[8] Rifacendosi allo studio del Müller, Jacoby ritiene che la condotta del 1366, considerata dal Roth l'attestazione dell'insediamento degli ebrei a V., si riferisse a quelli di Mestre. Anche le date indicate dal Roth per il rinnovo della condotta non trovano riscontro nei documenti riferentisi a V. (ivi, p. 166, note 12 e 13). Cfr. Müller, R. C., Charitable Institutions, the Jewish Community, and Venetian Society. A Discussion of the Recent Volume by Brian Pullan, in Studi Veneziani 14 (1972), pp. 63-64; Gallicciolli, G., op. cit., II, pp. 282-83, par. 886; Roth, C., op. cit., p. 17.

[9] A.S.V., Senato. Misti, reg. 41, fol. 20r., citato in Jacoby, D., op cit., p. 189, nota 121; la stessa notizia si trova anche in Milano, A., I primordi del prestito ebraico in Italia, p. 368.

[10] Jacoby, D., op. cit., pp. 182-183, note 84-86-87.

[11] Nell’atto del 1388, relativo alla trasgressione delle regole prescritte per l’attività feneratizia, si legge: et sicut clare constat, istud non servatur ullo modo, quia ipsi Judei alcui pauperi persone volenti mutuo ducatos triginta vel inde infra nolunt aliquid mutuare, sed sciunt ipsi Judei tenere modos extraneos et indirectos cum maximis usuris subtus manum cum disfactione pauperum. Sopraconsoli, fol. 64v (24 settembre 1388), citato in Jacoby, D., op. cit, p. 193, p. 141. Per il testo del decreto d'espulsione, cfr. ivi, p. 167, nota 16. Circa i vari modi di eludere le disposizioni emesse in materia di prestito cfr. ivi, pp., 194-195.

[12] Per i particolari della vicenda, cfr. ivi, pp. 195-196; cfr. Roth, C., Venice, p. 20.

[13] Jacoby, D., op. cit., p. 167.

[14] A.S.V., Avogaria di comun, Raspe, reg. 6, fol. 12r., citato ivi, p. 185, nota 105.

[15] Galliccioli, G., op. cit., II, p. 291, par. 904 e passim, citato in Jacoby, D., op. cit., p. 170, nota 29; sui rapporti tra ebrei e donne cristiane, cfr. anche ivi, p. 181, nota 80. Nel secolo successivo (1554) troviamo un documento in cui si proibisce di molestare tale Caterina, pentitasi dei rapporti sessuali che aveva intrattenuto con ebrei. Simonsohn, S., The Apostolic See, doc. 3197.

[16] Jacoby, D., op. cit., p. 170, nota 30; problematico, tuttavia, appare il fatto che gli ebrei tenessero simili scuole, se è vero che potevano recarsi a V. solo ogni quattro mesi.

[17] Sen. Ven., 27 agosto 1394, Ms. Arch. Ven., citato in Rezasco, G., Il segno degli ebrei, p. 106, nota 1.

[18] Magg. Cons. Ven., 3 aprile 1395, Id. 3 maggio, 1409, Id. 3 novembre 1496, Id. 22 gennaio 1429, Id., 28 maggio 1430; Se. Ven. 12 aprile 1443, Cons. X, 26 ottobre 1480, Id. 23 luglio 1495, Mss. Arch. Ven.; Sen. Ven., 26 maggio 1496, Ms. Arch. Ven., citato ibidem, note 2 e 3. Cfr. anche Jacoby, D., op. cit., p. 175. Le donne vennero obbligate al segno nel 1443. Ravid, B., From Yellow to Red, p. 183.

[19] Jacoby, D., op. cit., p. 175, nota 54; p. 176, nota 55.

[20] Pullan, B., Rich and Poor, p. 488; Ravid, B., From Yellow to Red, p. 184.

[21] L’inglese Thomas Coryat, in visita a V. nel 1608, riportò nei suoi ricordi di viaggio che gli ebrei d'origine italiana ed europeo-occidentale portavano un copricapo rosso, mentre i Levantini un turbante giallo; testimonianze successive concordano con quella del Coryat circa il giallo e il rosso che distingueva il copricapo ebraico da quello cristiano. Posto che, nel 1594, un altro inglese in visita a V., Fynes Moryson, riportava, invece, che gli ebrei avevano un copricapo giallo, l'ntroduzione del colore rosso risale presumibilmente agli inizi del XVII secolo.Cfr. Ravid, B., From Yellow to Red, pp. 179-180. Analoga notizia circa l’introduzione del colore rosso si trova anche in Rezasco,G.,  op. cit., p. 106. Per ulteriori dettagli sul copricapo come segno distintivo degli ebrei a V. e sulla relativa esenzione, cfr. Ravid, pp. 179-199.

[22] Jacoby, D., op. cit., p. 193.

[23] Ivi, p. 181, nota 80. Tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, risulta che ebrei avessero abitato le parrocchie di San Apollinare, Santa Sofia e San Silvestro. A San Cassiano la presenza ebraica veniva registrata anche nel 1515, lasciando supporre una continuità, ad onta dei provvedimenti governativi. Cfr. ivi, p. 186. Inoltre, nel 1515, risultavano presenze ebraiche anche nelle parrocchie di S. Agostino, San Polo e Santa Maria Mater Domini. Ibidem, nota 113.

[24] Ivi, pp. 183-184.

[25] Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, doc. 659; History, p. 72. La proibizione di trasportare ebrei in Palestina rimase in vigore sino al 1436. Cfr. doc. 718.

[26] Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, doc. 706; sul fatto che Struchus, nonostante l'appellativo di Judeus potesse non essere ebreo, cfr. doc. 734.

[27] Jacoby, D., op. cit., p. 174; p. 184.

[28] Ivi, p. 183, nota 88; un altro ebreo tedesco, Isach de Alemania, figurava a V. nel 1421. Ibidem.

[29] Ivi, pp. 187-188.

[30] Gli ebrei giunsero a V. quando le banche gestite dai Veneziani erano in via di chiusura o erano già chiuse; tuttavia, la presenza ebraica a V. non va legata solo a questa situazione, in quanto i banchi ebraici, a differenza di quelli veneziani, non erano banchi di scritta e, dunque, potevano prenderne solo parzialmente il posto. Il vantaggio offerto dalla presenza ebraica risultava piuttosto dalla tassazione cui gli ebrei erano - e avrebbero continuato ad essere - sottoposti e dalle somme che dovevano pagare per sottrarsi alle pene loro comminate dai tribunali veneziani. Cfr. Jacoby, D., op. cit., pp. 207-209; Pullan, B., Rich and Poor, pp. 481-483; 497; 506.

[31]Pullan, B., Rich and Poor, p. 478.

[32] Cfr. ibidem; Jacoby, D., op. cit., p. 198.

[33] Sulla predicazione anti-ebraica a V. nel primo ventennio del XVI secolo, cfr. Pullan, B., Rich and Poor, pp. 484 e segg.

[34] Ivi, pp. 478-479.

[35] Jacoby, D., op. cit., p. 180.

[36] Sanuto, M., I Diarii, Fulin et al., Venezia 1879-1903, XV, col. 270 (ottobre 1512) e XLVI, col. 153 (ottobre 1527), citato ivi, p. 179, nota 70.

[37] Sull’istituzione del Ghetto Nuovo e sul suo significato per la Comunità ebraica, cfr. Ravid, B., The Establishment of the Ghetti of Venice, pp. 213-222, in Cozzi, G. (a cura di), Gli ebrei e Venezia, pp. 211-259.

[38] Jacoby, D., op. cit., p. 212-213. Nell'ambito delle istituzioni laiche veneziane con il compito di reprimere blasfemia ed eresia e di vigilare sui rapporti ebraico-cristiani vi erano gli Esecutori contro la bestemmia, magistratura creata dopo il 1537, e gli Ufficiali al Cattaver, cui spettava, tra l'altro, di sorvegliare i prestatori cristiani di servizi agli ebrei del ghetto e, d'altro canto, i medici, i musici, gli strazzaroli e gli altri ebrei che, per qualsiasi motivo, frequentassero case cristiane. Le relazioni sessuali tra popolazione ebraica e cristiana, senza tentativo di conversione della parte cristiana all'ebraismo e senza profanazione del sacramento matrimoniale erano di comptetenza dei Cattaveri o degli Esecutori contro la Bestemmia. Dopo il 1641 risulta che i Cattaveri si occupassero dei casi di rapporti sessuali tra uomini ebrei e donne ristiane, mentre gli Esecutori erano preposti ai rapporti tra uomini cristiani e donne ebree. Pullan, B., The Jews of Europe and the Inquisition of Venice 1550-­1670, Oxford 1983, pp.79-80. Non mancavano neppure accuse ebraiche, denuncianti all'Inquisizione ebree, ree di sedurre giovani cristiani; tuttavia, i documenti non fanno menzione di un relativo processo, in seguito a tali accuse. V. A.S.V., S.U., Processi,, b. 75, (Aghitele, 1620), citato in Ioly Zorattini, P.C., Processi del S. Uffizio di Venezia contro giudaizzanti (1608-1632), IX, pp. 49-55.

[39] Ravid, B., The Socioeconomic Background of the Expulsion and Radmission of the Venetian Jews, 1571-1573, p. 30.

[40] Ivi, pp. 30-34; Pullan,B., Rich and Poor, pp. 505-506. Un prestito di 10.000 ducati sarebbe stato fatto dagli ebrei al Governo nel 1527. Cfr. Roth, C., Venice, p. 59; Sanuto, M., Diarii, Vol. XLV, 263, citato in Morpurgo, E., Bibliografia della storia degli Ebrei nel Veneto, p. 221.

[41] Kaufmann, D., Die Vertreibung der Marranen aus Venedig im Jahre 1550, p. 526; cfr. Luzzati, M., L’Inquisizione e gli ebrei in Italia,  p. 236 e p. 247, note 17, 18, 19 e 20.

[42] Ravid, B., The Socioeconomic Background, pp. 34-36.

[43] Ivi, pp. 36-40.

[44] Mentre il Ravid esprime la convinzione che il fattore decisivo della revoca dell’espulsione fosse la necessità di assicurare l'attività creditizia alla popolazione veneziana tramite gli ebrei, il Pullan sostiene che la causa principale della revoca sia stato il desiderio dei dirigenti veneziani di promuovere il commercio con il Levante, con il relativo progetto di coinvolgervi gli ebrei ponentini. L’Arbel ritiene, invece, che decisivo sia stato l'intervento di Salomone Ashkenazi. A proposito di quest'ultimo, cfr. il paragrafo Rabbini, dotti e personaggi famosi. Cfr. Ravid, B., The Socio-economic Background, pp. 50-51; Pullan, B.,  La politica sociale di Venezia 1500-1620 , in: Gli ebrei veneziani e i Monti di Pietà, Roma 1982, pp. 563-94, citato in Arbel, B., Venezia, gli ebrei e l'attività di Salomone Ashkenasi nella guerra di Cipro, p. 183, nota 5. Sull'argomento, cfr. anche la Discussione (coordinata da G. Cracco), in Gli ebrei e Venezia, pp. 191-197.

[45] Pullan, B., Rich and Poor, p. 540 (1580); Ravid, B., Economics and Toleration in Seventeenth Century Venice, p. 47 e segg. (circa 1636); Roth, C., Venice, p. 94 (1669).

[46] Simonsohn, S., The Apostolic See and the Jews, doc. 1502, 1512, 3245.

[47] Bloch, J., Venetian Printers of Hebrew Books, p. 86. Sulle vicende della stampa ebraica a V., cfr. il paragrafo Stampa ebraica. Sul rogo del Talmud a V., cfr. Kaufmann, D., Die Verbrennung der talmudischen Litteratur in der Republik Venedig, pp. 533 -538.

[48] Jacoby, D., op. cit., p. 215. Nonostante l'interesse per i mercanti levantini, V., nel 1537, quando scoppiò la guerra con l'Impero ottomano, sequestrò i loro beni, insieme a quelli degli altri suddditi turchi, restituendoli, presumibilmente, alla fine delle ostilità. Ravid, B., The First Charter, pp. 189-190.

[49] Ravid, B., The First Charter, pp. 191-192.

[50] Il Rodriga aveva, inoltre, presentato alle autorità senza successo, nel 1577, la proposta di trasformare il porto di Spalato in uno scalo che consentisse alle merci provenienti da V. di raggiungere Costantinopoli per via di terra, evitando il pericolo dei corsari che infestavano il mare. Il Rodriga aveva anche proposto di far arrivare a V. una cinquantina di famiglie ebraiche per dare impulso ai commerci. Con la concessione della condotta del 1589, si realizzarono anche i suoi progetti circa Spalato. Cozzi, G., Società veneziana, società ebraica, pp. 333-­336; Ravid, B., Economics and Toleration in Venice, pp. 29-30.

[51] Ravid, B., The First Charter, p. 220. Per i dettagli relativi alle proposte del Rodriga, cfr. p. 192 e segg.

[52] Ravid, B., The first Charter, p. 216 e pp. 221-222.

[53] Per ulteriori dettagli sia su questa opposizione del Senato e sulle obiezioni che aveva sollevato sia sui vari tipi di cittadinanza concessi dalle autorità veneziane, cfr. Ravid, B., The First Charter, p. 207 e segg. Cfr. Cozzi,G., op. cit., p. 341; sul cambiamento politico che aveva portato larga parte del patriziato a partecipare al governo, cfr.  p. 337.

[54] Pullan, B., Rich and Poor., p. 546; Cozzi, G., op. cit., p. 341.

[55] Nella seconda metà del XVI secolo e, in particolare, negli anni Ottanta, il S. Uffizio era stato invece alquanto attivo, soprattutto opponendosi al proselitismo degli ebrei portoghesi nei confronti degli schiavi neri che avevano condotto con sé nel Ghetto. Cfr. Pullan, B., The Jews of Europe and the Inquisition of Venice, 1550-1670, p. 75 e segg. Sull’atteggiamento di V. rispetto all’ingerenza della Sede Apostolica, cfr. Cozzi, G., op. cit., p. 342.

[56] Sarpi, P., Scritti giurisdizionalistici, a cura di G. Gambarin, Bari 1958, pp. 119-212, citato in Cozzi, G., op. cit., p. 372, nota  68.

[57] Cfr. Colorni, V., Gli ebrei nel sistema del diritto comune fino alla prima emancipazione, Milano, 1956, p. 46, nota 274; Archivio di Stato, Venezia, Consultori in iure, filza 11, c. 384, citato in Cozzi, G., op. cit., p. 372, nota 70. Sul comma inserito nel capitolo della condotta della “nazione tedesca”, cfr. ivi, p. 356.

 

[58] Cozzi, G., op. cit., pp. 344-345.

[59] Sui particolari della complessa questione degli eventuali limiti della legittimità dell’autogoverno ebraico, scatenata da alcuni passi del Libro grande, cfr. Cozzi, G., op. cit., pp. 359-368.

[60] Sulla condotta del 1611, cfr. Ravid, B., The Third Charter of the Jewish Merchants of Venice, 1611, pp. 116-121; cfr. anche Luzzatto, G., Sulla condizione economica degli ebrei veneziani, p. 163.

[61] Per ulteriori derttagli sulla peste a V., cfr. Boccato, C., Testimonianze ebraiche del 1630 sulla peste a Venezia, in RMIXLI, n. 9-10 (1975), pp. 458-467.

[62] Malkiel, A Separate Republic, pp. 31-35. Per una descrizione particolareggiata della grave controversia tra Venezia e gli ebrei, si veda tutta l'opera teste menzionata, che rievoca, tra l'altro anche il ruolo del famoso rabbino Leone Modena e di Yaaqov Levi nel tradurre solo le versioni meno compromettenti degli Statuti, nel tentativo di aiutare la Comunità ad uscire dall'incresciosa situazione.

[63] Ivi, p. 35 e segg.

[64] Ivi, p. 36. Secondo il Malkiel, una eco indiretta della vicenda del Libro grande figura anche nella cronaca anonima riportata da Shulvass, M., Sipur ha-tzarot she-avru be Italia, in HUCA 22 (1949), par. 8, pp. 18-20, citato ibidem, nota 24. Direttamente, tuttavia, il Sipur ha-tzarot si riferisce ad un episodio di ricettazione nel Ghetto di merce rubata da cristiani alla Merceria, con conseguenti incarcerazioni e delazioni, che avrebbe portato alla minaccia di espulsione di tutta la Comunità veneziana dalla città e dai territori della Serenissima. Per la traduzione inglese del par. 8 del Sipur, come contesto dell'opera di Simone Luzzatto, Discorso circa il stato de gl' Hebrei, cfr. Ravid, B., Economics and Toleraton in Venice, pp. 10-13; anche Leone Modena riporta l'incresciosa vicenda nella sua autobiografia. Cfr. Cohen, M. R.(trad. e cura), The Autobiography of a Seventeenth-Century Venetian Rabbi- Leon Modena's Life of Judah, Princeton, 1988, pp. 143-146; pp. 249-253.

[65] Milano, A., I ‘banchi della povertà’ a V., p. 262; Ioly Zorattini, P.C., Gli ebrei nel Veneto durante il Settecento, p. 462.

[66] Milano, A., I ‘banchi dei poveri’ a Venezia, pp. 262-263.

[67] Archivio di stato, Venezia, Miscellanea codici, citato ivi, note 2 e 3. Cfr. Roth, C., Venice and her last persecution of the Jews: A study from Hebrew Sources, pp. 411- 424 e, in particolare, il capitolo LXXXXXXVII della Ricondotta:  Eccettuato dunque la sola Strazzaria concessa per la sola compra non possano gli Ebrei cosi in questa città come in ogn’altro luogo dello Stato ingerirsi, aver mano, o interessi in alcuna arte, o lavoro, né sotto il proprio, né sotto qualunque altro nome, colore, o pretesto..., ivi, p. 413, nota 3.

[68] Luzzatto, G., op. cit., p. 166.

[69] Cfr. il paragrafo Attività economiche. Sulla condotta del 1788, cfr. Del Bianco Cotrozzi, M., Gli ebrei dell’area alto-adriatica nell’età delle riforme e della prima emancipazione. Istituzioni, cultura e religione, pp. 288-290.

[70] La sera del 5 maggio 1797, gli ebrei, fraintentendo il senso della presenza dei soldati che circondavano il Ghetto a scopo di protezione, furono presi dal panico, sedato, secondo la voce popolare, dall'intervento del rabbino Abramo Jonà, in fama di cabbalista, che avrebbe apposto tre speciali mezuzoth, probabilmente con formule magico-propiziatorie ai portoni del Ghetto. Ottolenghi, A., Il governo democratico di Venezia e l'abolizione del Ghetto, pp. 93-94; Romanin, S., Storia documentata di Venezia, Tomo X, p. 174, citato ivi, p. 94.

[71] ASV, Senato, Terra, reg. 16, 178v, 21 Febbraio 1510 e reg. 24v, 18 Aprile 1510, citato in Ravid, B., The Legal status of the Jews in Venice to 1509, p. 200, nota 59. Il Sanuto attesta l'esistenza di una comunità ebraica o l’universita di zudei nel 1512: cfr. Sanuto, M., I Diarii, XIV, coll. 255, 258, 291, 388; XVI, col. 509; A.S.V., Collegio Notatorio, reg. 18, fol. 14r, citati in Jacoby, D., op.cit., p. 180, nota75. Pertanto va rettificata l'informazione data dal Roth, secondo cui la formazione di una Comunità, con la conseguente ripartizione del carico fiscale, risalirebbe al 1527. Cfr. Roth, C., Venice, p. 124.

 

 

[72] Tra le spese che l'Universita gestiva a nome della collettivita ebraica vi era l'affitto delle case del Ghetto, dato il divieto per gli ebrei di possedere immobili, che aveva dato luogo a una sorta di enfiteusi o jus gazaga, sul modello dell'antica Hazaqah. Oltre al mantenimento dei “banchi della povertà”, sopraggiunto in periodo piu tardo (vedi il paragrafo Attività economiche), la Comunità doveva pagare un tributo annuo di 25.000 ducati, di 2.621 ducati per le Milizie del Mare e di 100 per il mantenimento dei canali, cui si aggiungeva il pagamento straordinario di 10.000 ducati annui in tempo di guerra. Ivi, p. 121. Oltre agli oneri finanziari cui la Comunità era tenuta nei confronti della Serenissima, ve ne erano altri come il tributo di 60 ducati offerto da uno dei gastaldi ad ogni nuovo Messere o Capitano grande (come veniva chiamato il capo degli sbirri o guardie) che assumeva la carica. Per questo e ulteriori esempi, cfr. ivi, p. 123.

[73] Ivi, pp. 124-126. Sulla tassazione cui erano sottoposti gli ebrei forestieri, pp. 126-127. In particolare, dal 1736, ogni ebreo che si trasferiva a V. era tenuto a corispondere su ogni operazione commerciale compiuta una tassa, che variava da un ottavo al mezzo per cento sul valore, a partire dal genere di merce trattato. Ivi, p. 127.

[74] Di queste famiglie 113 erano tassate da 1 a 149 ducati; 16 da 150 a 499 ducati e 14 da 500 ducati in su. Luzzatto, G., Sulla condizione economica degli ebrei veneziani nel secolo XVIII, p. 165.

[75] Ivi, p. 142, p. 153; Milano, A., Storia degli ebrei, p. 508; Idem, I ’banchi dei poveri’ a Venezia, p. 262. Per ulteriori informazioni, sulle confraternite, cfr. Morpurgo, E., Bibliografia della storia degli ebrei del Veneto, pp. 25­-29, note 129-146; Rivlin (Ardos), B., Mutual Responsibilty in the Italian Ghetto. Holy Societies 1516-1789, passim.

[76] Milano, A., I ’banchi dei poveri’ a Venezia, pp. 262-263.

[77] Sul periodo di grave crisi economica in cui versava V., al momento in cui erano attivi i feneratori ebrei, cfr. Jacoby, D., op. cit., p. 189, nota 124.

[78] A.S.V., Senato, Misti, reg. 41, fol. 20r, citato in Jacoby, D., op. cit., p. 189, nota 121; cfr. anche p. 190, nota 128.

[79] Ivi, pp. 191-192.

[80] Gallicciolli, G., op. cit., II, p. 283, par. 886; Sopraconsoli, loc. cit., fol. 64r-v, citati ivi p. 192, nota 137; p. 193, nota 138.

[81] Müller, R.C., Charitable Institutions, the Jewish Community, and Venetian Society. A Discussion of the Recent Volume by Brian Pullan, p. 67.

[82] Nel 1558, risultavano esservi tre banchi a V.; nel 1566, vi erano cinque banchieri principali e cinque sostituti, con un deposito a garanzia di 5.000 ducati da parte di ognuno. Viola, A. A., Compilazione delle leggi... in materia d'Officj e Banchi del Ghetto, vol. V, parte II, Venezia 1786, pp. 210-213; p. 223, citato in Milano,A., I ‘banchi dei poveri’ a Venezia, p. 255, nota 2. A partire dal 1591, il numero dei banchi era nuovamente fissato a tre. Del loro mantenimento, nonché della corresponsione di 1.800 lire all'anno a favore dei banchi di Mestre, venivano considerate responsabili solidalmente l’Università di V. (esclusi Levantini e Corfioti ivi residenti) e le Università della Terraferma, mentre quelle di Padova e di Verona ne erano esentate. Ivi, p. 256.

[83] I banchi, contrassegnati con tre colori diversi (il banco rosso, il verde e il nero), dati dall'Università in appalto o, piuttosto, in gestione a privati, per un periodo limitato, risultavano, tuttavia, monopolio di alcune famiglie, nonostante il divieto di riappalto alla medesima persona. Gli appaltatori erano responsabili solo in caso di cattiva gestione; per evitarla dovevano versare una garanzia di 5.000 ducati a testa. Dovevano versare settimanalmente alla Università l'intero incasso, ricevendo ogni tre mesi uno stipendio per sé e i dipendenti. Da parte di V., il controllo era esercitato dai Sopraconsoli e, dopo il 1677, dal Consiglio dei Quaranta al Criminal che, per controllare piu capillarmente il prestito, mise uno scrivano cristiano per ogni banco. I banchi (in Ghetto Nuovo) erano aperti, tutti i giorni, salvo quelli festivi ebraici. Agli ebrei era proibito di fruire dei servizi del banco; nonostante il divieto di aggirarsi nei pressi dei banchi, questi erano presi di mira dai sanser o molecchini che, con la scusa di procacciare migliori condizioni al cliente, in realtà guadagnavano alle sue spalle. L’impegno originario delle Università ebraiche del Veneto era di costituire ai tre banchi un capitale di fondazione di 50.000 ducati, rifondendo tutte le eventuali perdite; in seguito, il capitale fu elevato forzosamente a 100.000 ducati e, nel 1721, a 160.000 ducati, pagati con gran difficoltà, dopo il viaggo all’estero del rabbino capo Giacobbe Saraval, per raccogliere fondi tra le comunità portoghesi in Olanda e a Londra. Luzzatto, G., Sulla condizione economica degli ebrei veneziani nel secolo XVIII, p. 161; Milano, A., I ‘banchi dei poveri’ a Venezia, pp. 258-262; Viola, A.A., op. cit., pp. 302-3, citato ivi, p. 260, nota 2; Ravid, B., Economics and Toleration In Seventeenth Century Venice, p. 28, nota 24. Per il bilancio dei tre banchi, redatto nel 1775-1776, quando la crisi aveva passato il suo acme, sebbene continuasse a frasi sentire, si veda Milano, A., I ‘banchi,  p. 263.

[84] Cfr. Luzzatto, G., Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 201-202; Sirat, C., Les pierres précieuses et leurs prix au XV siècle en Italie d’après un manuscript hébreu, p. 1080, citato in Jacoby, D., op. cit., p. 199, nota 170. Anche il commercio in altri articoli veniva probabilmente praticato dagli ebrei con vari strattagemmi, tra cui quello di figurare come agenti di mercanti cristiani o quello di far entrare la propria merce a V., servendosi di prestanome cristiani. Ivi, pp. 201-202, note 181, 182, 183.

[85] Jacoby, D., op. cit., p. 200.

[86] Cozzi, G., op. cit., p. 344; Pullan, B., Rich and Poor, p. 549.

[87] Pullan, B., Rich and Poor, pp. 548-550.

[88] Jacoby, D., op. cit., p. 203, note 188, 189, 190. Sui medici ebrei convertiti al cristianesimo, attivi a V. nel XIV secolo, cfr. Cecchetti, B., La medicina in Venezia nel 1300, in Archivio Veneto, A. XII, Nuova Serie, fasc. 50-52, Venezia 1883, citato in Morpurgo, E., Bibliografia della storia degli ebrei nel Veneto, in Rivista Israelitica VIII (1911), pp. 215-229, p. 217, nota 325. Per i particolari salienti relativi ai medici ebrei che si distinsero anche in altri ambiti, oltre l'esercizio della professione medica, cfr. il paragrafo Rabbini, dotti e personaggi illustri.

[89] Cfr. il paragrafo Stampa ebraica a V.

[90] Ravid, B., The first Charter of the Jewish Merchants of Venice, 1589, p. 189, nota 4; Pullan, B., Rich and Poor, p. 495.

[91] Pullan, B., Rich and Poor, p. 553.

[92] Sancassani, G., La legge e la campagna, in AA.VV., Uomini e civiltà agraria in territorio veronese, I, Verona 1982, pp. 154 e segg , citato in Cozzi, G., op. cit., p. 371, nota 34.

[93] Cfr. Luzzatto, G., Sulla condizione economica degli ebrei veneziani nel secolo XVIII, pp. 168-169; Del Bianco Cotrozzi, M., op. cit.,p. 290.

[94] Cfr. Vita comunitaria per la ripartizione delle tasse.

[95] Tra le famiglie di armatori e mallevadori che, secondo la documentazione del 1797, risultavano maggiormente abbienti, vi erano i fratelli Bianchini - Lazzaro, Jacob Vita e R. Vivante - e Giuseppe Treves. Luzzatto, G., Sulla condizione economica degli ebrei veneziani, p. 165.

[96] Ivi, p. 166 ; A.S., V., Cinque Savi alla Mercanzia, Scritture (1786-1787), citato ibidem, nota 1.

[97] A.S., V., Democrazia, 1797, Busta I, Minuta dei decreti, c. 22, citato ivi, p. 167, nota 1.

[98] Luzzatto, G., Sulla condizione economica, p. 171. Cfr. Idem, Un’anagrafe degli brei di Venezia del settembre 1797, pp. 195-198, in cui i dati risultano leggermente differenti.

[99] Sanuto, M., Diarii, XII, col. 110-111 e XXII, coll. 108-109, citato in Jacoby, D., op. cit., p. 212, nota 235. La cifra sembra a Jacoby esagerata. Secondo Capsali si erano rifugiate a V., nel 1509, 1.000 famiglie ebraiche, che poi sarebbero ritornate nelle località d'origine (Padova, Ferrara e la Germania). Cfr. Porgès, N., Elie Capsali, p. 15 e p. 20.

[100] Contento, A., Il censimento della Popolazione sotto la Repubblica Veneta, in Nuovo Archivio Veneto, Venezia XX. BM., citato in Morpurgo, E., Bibliografia della storia degli ebrei nel Veneto, nota 632, p. 220-221; secondo il Gallicciolli, invece, vi sarebbero stati 1.300 ebrei su una popolazione di 160.000 unita. Cfr. Jacoby, D., op. cit., p. 164, nota 3, dove pure vengono fornite le cifre alquanto differenti (902 ebrei su un totale di 158.000 persone circa), riportate per il medesimo censimento (1552) da Beloch, J., Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, Berlin 1961, p. 19, p. 22.

[101] Altri dati, invece, sono forniti da Beltrami, D., Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XV alla caduta della repubblica. Dalla sua statistica dei morti in Ghetto per la pestilenza del 1630-31, risulta che erano deceduti per peste 454 ebrei (citato in Boccato, C., Testimonianze ebraiche sulla peste del 1630 a Venezia, p. 463, nota 8). Quanto all'ammontare della popolazione del Ghetto, la Boccato cita la cifra di di 2500 unità, desunta, presumibilmente dal Beltrami.

[102] Beloch, J., La popolazione di Venezia nei secoli XVI e XVII, in Nuovo Archivio Veneto, Nuova serie, III (1902), citato in Morpurgo, E., Bibliografia della storia degli ebrei nel Veneto, p. 219, nota 625. Tuttavia, il Morpurgo riteneva che la cifra di 4.870 ebrei, per il 1655, fosse da correggere in 1.870.Ivi,p. 220.

[103] Contento, A., op. cit., in Morpurgo, E., Bibliografia, p. 221.

[104] Beloch,J., La popolazione, citato in Morpurgo, E., Bibliografia, p. 219, nota 625; cfr. Pullan, B., Rich and Poor, p. 546, nota 28.

[105] Luzzatto, G., Sulla condizione economica degli ebrei venezian, p. 170; per lo stesso censimento, di cui vengono, tuttavia, forniti dati leggermente diversi riguardo alle occupazioni dei singoli membri della Comunità, cfr. Idem, Un’anagrafe degli ebrei di Venezia del settembre 1797, pp. 194-­198.

[106] Sul termine “ghetto” e sul Ghetto di Venezia in particolare, cfr. Ravid, B., From Geographical Realia to Historiographical Symbol: The Odyssey of the Word Ghetto, in Ruderman, D. (a cura di), Essential Papers on Jewish Culture in Renaissance and Baroque Italy, pp. 373-389.

[107] Il portone principale di accesso al ghetto era sito nei pressi della Fondamenta della Pescaria, un altro era alla fine del ponte sul Rio di S. Girolamo e il terzo consentiva l'accesso al Ghetto Nuovissimo. Roth, C., Venice, p. 111.

[108] Jacoby, D., op. cit., pp. 211-212.

[109] Jacoby, D., op. cit., pp. 214-215; Ravid, B., The First Charter, p. 190. Per maggiori dettagli sull’ingresso dei mercanti levantini nel Ghetto, nel 1541, ignorato precedentemente dagli storiografi, cfr.ivi, p. 191, nota 6.

[110] Roth, C., Venice, p. 105-106; 109-110. Per i dettagli sulla struttura del Ghetto e la localizzazione delle sinagoghe e degli edifici rilevanti per la vita della Cfromunità, cfr. Concina, E. - Camerino, U. - Calabi, D., La città degli ebrei, pp. 246-247; p. 252. Sui cambiamenti del Ghetto nuovo e sul Ghetto vecchio nel corso del tempo, cfr. Ravid, B., New Light on the Ghetto of Venice, in Shlomo Simonsohn Jubilee Volume. Studies on the History of the Jews un the Middle Ages and Renaissance Period, Tel Aviv University 1993, pp. 152-159.

[111] Malagola, C., Le Lido de Venise à travers l’histoire, Venezia 1909, citato in Morpurgo, E., Bibliografia , VII (1910), pp. 180-190, p. 187, nota 22. Cfr. Idem, Inchiesta, pp. 7-8, nota 24. Sulla concessione agli ebrei del 1386, cfr. Gallicciolli, G., op. cit., II, pp. 283-284, par. 887-890; sulla più antica lapide sepolcrale ritrovata (1389), in cui è menzionato Samuele di Sansone, cfr. Pacifici, R., Le iscrizioni dell’antico cimitero ebraico a Venezia, I, Alessandria (Egitto) 1938, pp. VII-IX, citati in Jacoby, D., op. cit., p. 166, nota 15.

[112] Ravid, B., The first Charter, p. 222

[113] Galliccioli, G., op. cit., II, p. 292, par. 908 (3 novembre 1426); sul decreto del Senato di concedere, nel 1503, agli ebrei di Mestre di pregare a V., senza istituirvi, però, sinagoghe, cfr. Viola, A.A., Compilazione delle Leggi (...) in materia d'officii e banchi del Ghetto, V, 2, Venezia 1785, p. 190, citato in Jacoby, D., op. cit., p. 187, nota 114.

[114] Cfr. Viola, A.A., Compilazione delle Leggi (...) in materia d'officii e banchi del Ghetto, V, 2, Venezia 1785, p. 190, citato ibidem. Sulla sinagoga di Mestre , cfr. Morpurgo, E., Inchiesta, p. 11, nota 9.

[115] Su Leone Modena, cfr. il paragrafo Rabbini, dotti e personaggi famosi.

[116] Morpurgo, E., Inchiesta, pp. 13-14, note 26-33. Roth, C., Venice, pp. 139-141; per i particolari sull’architettura sinagogale veneziana in generale e sull’architettura di queste sinagoghe in particolare, cfr. Concina, E. - Camerino, U. - Calabi, D., op. cit., p. 93 e segg.

[117] Cecchetti, B., Per la storia della medicina a Venezia. Spigolature d'archivio, Venezia 1886, p. 17., citato in Jacoby, D., op. cit., p. 203, nota 188.

[118] Jacoby, D., op. cit., p. 184. Tra le sue opere, vi sono commenti biblici e la confutazione di alcune teorie di Maimonide, tra cui i libri Shamayim Hadashim, Rosh Amanah, Mifalot Elohim. Su quest'ultimo, cfr. Ioly Zorattini, P.C., Il ‘Mif’aloth Elohim’ di Isaac Abravanel e il Sant'Uffizio di Venezia, in  Italia, I, 1 (1976), pp. 54-69.

[119] Vedi nella presente opera, alla voce ”Castellazzo”. Per ulteriori dettagli su Reuveni, cfr. Rodriguez-Monino, A., Les judaisants à Badajoz de 1493 a 1599, in REJ 115 (1956), pp. 73-86; Revah, I. S., David Reubeni executé en Espagne en 1538, in REJ 117 (1958), pp. 128-135; Roth, C., Le martyre de David Reubeni, in REJ116 (1957), pp. 93-95; Simonsohn, S., David Rubeni’s Second Mission in Italy, in Zion 26 (1961), pp. 198-207.

[120] Per ulteriori particolari sul Mantino, cfr. Kaufmann, D., Jacob Mantino. Une page de l’histoire de la Renaissance, in REJ 27 (1893), pp. 30-60;  207-238; Roth, C., The Jews in the Renaissance, Philadelphia 1959, index; idem, Venice, index.

[121] Cassuto, U., J.E., alla voce “Halfan , Elijah Menahem”.

[122] Tale Christophorus Manuel riceveva, nel 1546, un lasciapassare per viaggiare in Portogallo allo scopo di commerciare per conto di Beatrice de Luna, senza essere infastidito dagli inquisitori in materia di eresia, apostasia e simili. Simonsohn, S., The Apostolic See, doc. 2641. Due anni dopo analogo lasciapassare veniva rilasciato a lui e a Eduardus Pirez di Lisbona. Ivi, doc. 2788.

[123] Per ulteriori dettagli sulla sua figura, vedi in quest'opera la voce “Ferrara”.

[124] Cfr. nella presente operala voce “Udine”.

[125] Sul merito da attribuire ad Ashkenazi nella revoca dell'espulsione i pareri non sono univoci. Il noto cronista ebreo Yosef Ha-Kohen, nella sua Emeq ha-bakhah ("Valle del pianto") attribuì l'annullamento del provvedimento all'intercessione dell'Ashkenazi, che svolgeva un ruolo di rilievo alla corte ottomana, mentre Cecil Roth accettò, sia pure parzialmente, la versione fornita dall'anonimo “correttore” della cronaca in questione, attribuendo la revoca dell’espulsione all’intervento del figlio del bailo di Costantinopoli, Francesco Barbaro. Benjamin Arbel, invece, basandosi su fonti inedite, sottolinea l'importanza dell'Ashkenazi come mediatore tra Venezia e l'impero turco, affermandone l'influenza sulle decisioni dei dirigenti veneziani in fatto di ebrei. Cfr. Arbel, B., Venezia, gli ebrei e l’attività di Salomone Ashkenasi nella guerra di Cipro, in Cozzi, G. (a cura di) Gli ebrei e Venezia,  p. 164; pp. 174-175; pp. 178-179; p. 181; Ha-Cohen, La vallée des pleurs, p. 163; per la versione del “correttore” anonimo, cfr. ivi, pp. 180-182; Roth, C., Gli ebrei in Venezia, Roma 1933, pp. 104-105, citato in Arbel, B., op. cit., p. 175 e p. 189, nota  94.

[126] Per ulteriori particolari, vedi nella presente opera la voce “Spoleto”; cfr. Roth, C., Venice, pp. 186-188.

[127] Cassuto, U., E.J., alla voce “Luzzatto Simcha (Simone) ben Isaak”; per il contesto in cui fu scritto il Discorso, cfr. Ravid, B., Economics and Toleration..., passim.

[128] Per l'elenco completo delle opere del Modena, corredato di date e di informazioni bibliografiche, cfr. Roth, C., J.E., alla voce “Modena Leone”.

[129] A Sara Copio Sullam ha dedicato svariati lavori, in epoca relativamente recente, Boccato, C., tra cui, Lettere di Ansaldo Cebà, genovese, a Sara Copio Sullam, poetessa del Ghetto di Venezia, in RMI 40(1974), pp. 169-191; Sara Copio Sullam, la poetessa del ghetto di Venezia: episodi della sua vita in un manoscritto del secolo XVII, in Italia 6 (1987), pp. 104-218.

[130] Cassuto, U., E.J., alla voce “Aboab (Familie)”.

[131] Per ulteriori particolari su Figo, cfr. Bettan, I., The Sermons of Azariah Figo, in HUCA 7 (1930), pp. 457-495.

[132] Per un approfondimento della sua figura, cfr. Scholem, G., J.E., alla voce “Cardozo, Abraham Miguel”.

[133] Roth, C., Quatre Lettres d’Elie de Montalte, in REJ 87 (1929), pp. 137-165.

[134] Per l’approfondimento di Zacuto, cfr. Scholem, J.E. alla voce “Mosheh ben Mordecai Zacuto”.

[135] Scholem, J.E., alla voce “Nehemyah Hayon”.

[136] Su di loro, cfr. Ioly Zorattini, P.C., Gli ebrei nel Veneto durante il Settecento, pp. 483 e segg.

[137] Per ulteriori particolari sul Nizza, cfr. Modena, A.-Morpurgo, E., Medici e chirurghi ebrei dottorati e licenziati nell'Università di Padova dal 1617 al 1816, p. 64, nr. 152; su Yosef Stella, cfr. ivi, p. 70, nr. 168; su Yaaqov Abeniacar, p. 72, nr. 178; su Benedetto Saraval pp. 77-78, nr. 197; su Yitzhaq Colli p. 74, n. 186. Cfr. anche Ioly Zorattini, P.C., Gli ebrei nel Veneto durante il settecento, p. 474.

[138] Cfr. Levi, M.G., Ricordi intorno agli incliti medici, chirurghi e farmacisti che praticarono la loro arte in Venezia dopo il 1740, Venezia 1835, citato in Ioly Zorattini, P.C., Gli ebrei nel Veneto, p. 474, nota 96.

[139] Su quest'opera di Felice e sulla sua figura cfr. Simonsohn, S., The Apostolic See, doc. 1242; Idem, Some Well-known Jewish Converts, p. 27.

[140] Roth, C., Venice, p. 262.

 

[141] Amram, D.W., The Makers of Hebrew Books in Italy, p. 372; p. 375; p. 396; Bloch, J.,Venetian Printers of Hebrew Books, pp. 71-92; Ioly Zorattini, P.C., Gli ebrei nel Veneto durante il Settecento, pp. 472. Per ulteriori particolari sulla stampa ebraica a V., v. Roth, Venice, pp. 245-265.

[142] Cassuto, E.J., alla voce “Aboab Familie”.

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