Ovada

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Ovada

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Ovada (אוודה)

Provincia di Alessandria. Cittadina dell’Alto Monferrato, alla confluenza dei torrenti Orba e Stura (bacino della Bormida-Tanaro), è sita all’incrocio di importanti vie naturali, a guardia del valico del Turchino.

Una presenza ebraica è attestata, nel 1386, da un documento che menziona tale Giovanni, come medico e barbiere di O.[1]

Da un documento del 1567 risulta che all’incirca nel 1512, gli huomini et comunita di O. avevano stipulato una condotta con il medico Giovanni de Treves perché si stabilisse con la famiglia nella località per curare i malati ed esercitare l’attività feneratizia. Dopo essere stato costretto ad andarsene per le orribili guerre che correvano a quel tempo[2],il Trevesera tornato, verso il 1547, alle stesse condizioni stipulate in precedenza[3].

Un documento del 1550 riferisce che il Senato doveva consultare i Procuratori, prima di giungere ad una decisione circa gli ebrei di O., per motiviche non vengono chiaramente specificati, ma che sono da porsi in relazione con il decreto di espulsione. Pochi giorni dopo, un altro documento riporta la richiesta del Podestà di O. di concedere a Mastro Jo. (Giovanni Treves) l’autorizzazione di rimanere per curare i malati locali, posto che la cittadina aveva stipulato con lui dei patti per un periodo di tempo che non era ancora spirato: le autorità genovesi concessero al medico di restare con la sua famiglia a O., sino allo scadere dei patti[4].

Quattro anni più tardi, la popolazione di O. pregò il Doge e i Governatori di Genova di fare il possibile per assicurare un indennizzo alla famiglia dell’esimio dottore di medicina mastro [Jo] De Treve[5], assassinato da gente di Castelnuovo nel Monferrato. Nel 1567 una lettera fu scritta dal Podestà al Doge e ai Governatori riguardo al figlio del medico Giovanni, Giuseppe, che, dopo la morte del padre, aveva continuato a vivere a O., senza autorizzazione[6]. Il Podestà stesso, tuttavia, perorò la causa di Giuseppe, informando che era molto benvoluto e che si guadagnava da vivere commerciando in granaglie e castagne ed esercitando l’attività feneratizia con gli abitanti, secondo un interesse ridotto della metà rispetto a quello richiesto ai forestieri. La popolazione locale, molto povera, ricorreva a lui per prestiti con e senza pegni a’ tal che per quanto mi vien rifferito se non facesse tali comodi bisognarebbe che i poveri impegnassero a’i richi le possessioni con loro interesse[7].

Poco dopo, il podestà comunicò alle autorità genovesi di aver detto a Giuseppe Treves e alla moglie Ricca di dover lasciare la località e la Repubblica entro tre mesi: tuttavia, il giorno successivo una petizione fu indirizzata al Doge dalla popolazione e dalla comunità di O., chiedendo (e ottenendo) che Giuseppe non fosse espulso, visto che era di grande utilità per la popolazione indigente che, qualora se ne fosse andato, avrebbe dovuto vendere sottocosto i beni che, invece, poteva impegnare presso di lui[8].

 L’anno successivo, il Treves si appellò alle autorità genovesi, dato che il podestà, dietro loro ordine, lo aveva costretto ad esercitare l’attività feneratizia nel chiuso della sua casa, proibendogli ogni altro contatto e ogni commercio con la popolazione: il Duce ed i Governatori replicarono, pertanto, al podestà che dove egli non giochi, mangi, balli e conversi, se non in quei modi che è espediente per conto de negocii, non li diate altro fastidio[9].

Nel 1570 il vescovo di Acqui si rivolse agli Eccellentissimi Signori della Repubblica genovese, chiedendo di prendere misure contro l’ebreo di O., che, a suo dire, non aveva mai voluto vestire e vivere secondo le disposizioni del Concilio di Trento e del Concilio di Milano e che, recentemente, aveva avuto l’ardire di disputare con un cristiano sulla verginità di Maria: data la gravità del caso, il vescovo era disposto, se del caso, a recarsi personalmente a O. per incontrarvi un consigliere genovese e sistemare il caso, specificando di voler esercitare il suo potere nelle cose solamente spirituali in quella terra[10]. Pochi mesi dopo, il vescovo tornò alla carica per raccogliere prove contro Giuseppe (Gioseffe), informando Genova che se anche l’Inquisitore fosse stato concorde, ognuno separatamente avrebbe potuto procedere contro l’ebreo. In caso le autorità genovesi fossero state contrarie alla sua iniziativa, si dichiarava disposto a discutere. La missiva si chiudeva con la preghiera di ordinare all’ebreo di portare la berretta come gl’altri hebrei, non parli di nostra fede in modo alcuno, ne balli, mangi o giochi con Cristiani, ne si serva di loro[11] e, soprattutto, di non chiedere un tasso di interesse troppo alto.

Una quindicina di anni dopo, il Senato chiese al podestà di O. informazioni sul comportamento di Vita Poggetto, autorizzato dal 1582 a vivere, insieme alla famiglia, e a commerciare a Novi, Gavi e O.

Due anni più tardi (1587), il Doge e i Procuratori di G. inviarono ai Giurisdicenti dell’Oltegiogo lettere patenti, con cui si ordinava agli ebrei di portare il segno distintivo, pena l’espulsione entro due mesi[12].

Nel 1591 il vescovo di Acqui fece confiscare i beni di Abraham e Leone Alfa di O., in quanto Abraham era stato trovato in possesso di libri proibiti (due tomi del Talmud Babilonese): la Repubblica di Genova, dopo aver scritto al vescovo deprecandone il provvedimento, si rivolse, con successo, al cardinale Filippo Spinola di Roma, chiedendogli di intercedere presso il Papa per risolvere la questione[13].

Sempre in quest'anno il cardinale Enrico Caetani, Camerlengo pontificio, concesse a Vita Poggetto i privilegi dei banchieri ebrei dentro e fuori dei stati della Chiesa[14].

L’anno successivo Abraham Alfa (Alpha), ancora a O., si assunse, insieme a Vita Poggetto di Asti e ad Abraham Artom di Novi, l’obbligazione in solido di restituire a tale Bartolomeo Sauli una cifra di denaro presa a prestito dagli ultimi due. Alcuni giorni dopo, l’Alfa e l’Artom si obbligarono in solido e ratificarono, di conseguenza, il documento, con cui Vita Poggetto si impegnava a dare all’Ufficio di Abbondanza di Genova la fornitura di cento mine di grano[15].

Quattro mesi più tardi, il Senato indirizzò al podestà di una serie di località, tra cui O., l’ordine di intimare agli ebrei di andarsene dal Dominio entro tre mesi, pena la prigione e la confisca dei beni. L’anno seguente, dietro supplica del sindaco di O., la Repubblica concesse agli israeliti e, in particolare, a Vita Poggetto e ai suoi agenti di rimanere nella località, per continuare a far fronte alle necessità finanziarie della popolazione. Trascorsi alcuni mesi, il podestà rese noto di aver ordinato ad Abraham Alfa di esibire i privilegi tenuti dal suo principale, Vita Poggetto, cui erano stati concessi[16].

Nel 1595 Abraham Alfa fu nuovamente preso di mira dal vescovo di Acqui, per una controversia da regolare presso la corte civile, causata da circostanze di cui non ci sono pervenute ulteriori informazioni: il Doge e i Governatori raccomandarono al podestà di O. di agire con la debita circospezione.

All’inizio di gennaio del 1598, fu ricevuto ad O. l’ordine di espulsione degli ebrei, decretato a Genova[17]. Al termine dello stesso mese, il Senato, dopo aver ricevuto informazioni positive dal podestà locale circa Abraham Alfa, gli concesse di rimanere per ulteriori due anni, allo scopo di riscuotere i crediti e di sistemare gli affari.

Dalla lettera del podestà a Genova si apprende che l’Alfa, la cui attività creditizia era di vitale importanza per gli indigenti di O., non aveva acquistato beni immobili, teneva i libri contabili in italiano e prestava all’interesse consentito, cioè 16 denari per scudo. Oltre all’Alfa, agente di Vita Poggetto, e altri ebrei non meglio specificati, dalle dichiarazioni del Podestà risultava vivere a O. tale Angelo, che non esercitava l’attività feneratizia, ma vendeva stoffe e, lungi dall’acquistare beni immobili,viveva miseramente co’ quello poco guadagno che cava dal pano[18].

Un ulteriore accenno al gruppo ebraico locale si trova, un cinquantennio più tardi, quando il podestà informava le autorità genovesi che Jona Clava di Casale distribuiva grano alla popolazione, posto che il suo agente rifiutava di mettersi d’accordo con la popolazione sul prezzo: poco dopo risulta che gli ebrei avessero cominciato a vendere grano destinato alle truppe francesi, non ancora giunte[19].

L’ultima attestazione di una temporanea presenza ebraica risale al 1751, quando i Collegi appoggiarono la richiesta di tre mercanti ebrei (non menzionati con i loro nominativi) di commerciare in generi vari alla fiera di O., ad onta degli ostacoli posti loro da mercanti (evidentemente non ebrei), intenzionati ad avere il monopolio della fiera stessa[20].

Bibliografia

Urbani, R.- Zazzu, G., N., The Jews in Genoa, 2 voll., Leiden-Boston-Köln 1999.


[1] Urbani, R., -Zazzu, G.N., The Jews in Genoa, I, doc. 54.

[2] Ivi, doc. 327.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, doc. 295, 298, 299, 300.

[5] Ivi, doc. 312. Nel documento del 1567, in cui vengono riassunte le condotte della famiglia Treves a O. viene detto, invece, che Giovanni fatto vecchio de anni 95 in circha morse e lascio cinque figlioli maschi homini de bona fama. Ivi, doc. 327.

[6] Ivi, doc. 323.

[7] Ivi, doc. 324.

[8] Ivi, doc. 326, 327, 328, 329.

[9] Ivi, doc. 338.

[10] Ivi, doc. 345.

[11] Ivi, doc. 351.

[12] Ivi , doc. 385, 394.

[13] Ivi, doc. 413-419.

[14] Loevinson, E., Banques de prêts, p. 170.

[15] Urbani, R., -Zazzu, G.N., op. cit., doc. 429, 431. Per la dote versate dal suocero a Abraham, si veda Simonsohn, S., Milan, doc. 4198.

[16] Ivi, doc. 437, 464, 474.

[17] Ivi, doc. 504, 506, 515.

[18] Ivi, doc. 516.

[19] Ivi, doc. 572. Sul Clava, cfr. Segre, R., The Jews in Piedmont, p. 2087; Simonsohn, S., Milan, doc. 4569.

[20] Urbani, R., -Zazzu, G.N., op. cit., II, doc. 1857.

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