Senigallia

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Senigallia

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Senigallia (סיניגאליה )

Provincia di Ancona. Colonia romana,  in seguito appartenne alla pentapoli bizantina, ai regni longobardo e franco e allo Stato della Chiesa. Libero comune (sec. XII) divenne, poi, possesso di Urbino, del cui ducato seguì le sorti, venendo devoluta alla Chiesa nel 1631. Nel 1799 fu temporaneamente occupata dalle truppe francesi. 

Nella seconda metà del secolo XIV, tra le città in cui vi era  un banco ebraico, figurava anche S.[1].

Alessandro VI incaricò nel 1502 Feliciano Sisti da Foligno, suo commissario, di multare gli ebrei che secondo il papa avessero commesso delle frodi relative al pagamento della vigesima: il commissario dovette allora esaminare i libri dei banchieri delle Marche e di altrove, compresi quelli del gruppo di S.[2].

Ancora nel Cinquecento, tra i prestatori che godevano di tolleranze emanate dalla camera papale, vi furono in questa località i fratelli Aleutio e Symone Fortune (1530)[3].

Nel 1556, al tempo della persecuzione dei marrani ad Ancona, alcuni giudei trovarono asilo a S., ma ne vennero cacciati nel 1571.

Dopo la devoluzione del ducato di Urbino alla Chiesa, gli israeliti subirono svariate restrizioni e, oltre alle tasse ordinarie, furono costretti a pagare anche una tassa alla Curia Romana e alla Casa dei Catecumeni[4].

Durante le persecuzioni degli ebrei in Ucraina, intorno alla metà del secolo XVII, i correligionari di S. offrirono soccorso finanziario, raccogliendo anche denaro per il riscatto dei prigionieri presi dai cosacchi.[5]

Nel 1721, dopo che si era sparsa in città la voce che a Ferrara gli israeliti avevano perpetrato un omicidio rituale, di cui sarebbe stata vittima un giovane cristiano, gli ebrei locali vennero attaccati verbalmente e fisicamente dalla popolazione senigalliese, provocando l’intervento in loro difesa delle autorità religiose che giunsero a far stampare un proclama in tal senso[6].

Nel 1728,Bartolomeo Castelli, vescovo e conte di S. , pubblicò le Constitutiones synodales,  per regolare in modo molto restrittivo la vita ebraica della città[7].  

Nel 1744 Simhah, figlia di Isacco Gallico di Senigallia, trascrisse una serie di inni e canti  ebraici, erroneamente attribuibili come originali[8].  

Nei primi anni Settanta del secolo la situazione economica degli ebrei era tanto problematica, soprattutto per i debiti censuari contratti, da indurre il papa Clemente XIV a imporre per dodici anni un dazio a tutti i mercanti giudei che partecipavano alla fiera di S., locali compresi. Inoltre, nel 1774, il papa decise di annullare ogni altra tassa, salvo il dazio di sei paoli per chi voleva esercitare in fiera l’attività di sensale, aumentando, invece, l’importo del pedaggio, il cui ricavato andava diviso in quattro parti uguali: due da assegnarsi alla comunità di S. e le altre da assegnarsi a Pesaro e a Urbino, anch’esse in gravi difficoltà finanziarie[9].    

Nel 1775 il neo-eletto papa Pio VI emetteva l’Editto sopra gli Ebrei, diretto a tutti i sudditi del suo Stato, che ribadiva le disposizioni del vescovo di S. del 1728, aggiungendovi altre dure restrizioni[10].

Nonostante l’editto, un documento dell’inizio degli anni Novanta riferisce che, in tempo di fiera, gli ebrei forestieri avevano preso l’abitudine di abitare fuori dal ghetto, provocando un danno economico ai cooreligionari locali che prima traevano guadagno dall’affittare loro case e magazzini al suo interno[11]. Pochi anni prima la peste (1784), provocando la sospensione della fiera, aveva privato l’Università ebraica dei suoi introiti, peggiorandone la situazione economica[12].

Dopo il ritiro delle truppe francesi, nel 1799, le bande reazionarie che sospettavano che gli israeliti fossero sostenitori dei giacobini, assaltarono, nel  mese di giugno il ghetto, saccheggiandolo da cima a fondo, uccidendo tredici ebrei e ferendone molti altri. Gli scampati al massacro si rifugiarono ad Ancona, dove si trattennero due anni grazie alla protezione del cardinale Onorati, vescovo della diocesi, prima di essere costretti a ritornare a S. da un decreto di Pio VII. In memoria dell’eccidio venne indetto un giorno di digiuno annuale, seguito da una festa per commemorare l’anniversario della salvezza degli scampati (preghiere in ricordo di tali eventi furono composte, in seguito, dal rabbino Mattatyah Nissim Terni)[13].

Vita comunitaria

Nel 1720 il rabbino Adamo Bondi ricevette dalla congregazione dell’Università del ghetto l’incarico di pubblicare entro l’anno successivo nuove leggi, cui essa avrebbe dovuto attenersi. Il legato di Urbino a Roma, il cardinale Salviati, diede il proprio assenso ai nuovi capitoli dell’Università ebraica, dopo aver fatto un’accurata indagine sulle condizioni di vita della comunità. I capitoli avrebbero avuto valore decennale e, scaduto questo lasso di tempo, la congregazione  avrebbe potuto confermarli o cambiarli.

La congregazione era allora composta di tredici membri, scelti con il ballottaggio tra i più capaci e disponibili, ma con i nuovi capitoli del 1721, avrebbero potuto aggiungersi ad essa altre persone “meritevoli”, a patto di ottenere il maggior numero di voti dai membri ed essere disposte a pagare una tassa di “scudi cinquecento ducali”, in seguito estesa a tutti i componenti. Nessuna decisione avrebbe potuto essere presa senza la presenza di almeno i tre quarti dei votanti e ogni sei mesi avrebbero dovuto venire estratti a sorte tre sindici o deputati-pro tempore o Massari, con l’obbligo di provvedere all’amministrazione economica della comunità. Dalla carica sarebbero stati esclusi i parnasim di scuola (cioè, i due governatori della sinagoga, eletti per un semestre, tramite scrutinio) e nessun membro avrebbe potuto esimersi dal partecipare all’assemblea convocata dai sindici, salvo per motivi avallati dai sindici stessi, pena una multa.  Solo i tre sindici (ciascuno in carica per due mesi) avrebbero potuto proporre gli argomenti da discutersi nelle assemblee e le proposte all’ordine del giorno avrebbero dovuto essere scelte tramite ballottaggio. Il comportamento disdicevole nei confronti della congregazione o dei sindici sarebbe stato multato e i proventi sarebbero stati divisi in parti uguali tra la Camera Apostolica, il Giudice eseguente e gli ebrei poveri del ghetto di S.[14].

Tra le spese di cui era gravata la comunità, oltre all’assistenza alle famiglie povere, vi era il censo vitalizio di 99 scudi a favore dell’abate Felice Cherubini, con cui essa aveva contratto, nel 1717, un debito notevole, al tasso del 9%[15]. Pertanto, avrebbe dovuto venire imposta una tassazione a tutti i possessori di capitali anche al di fuori dello Stato della Chiesa[16] e chi avesse avuto una società con capitali di ebrei forestieri avrebbe dovuto denunciarli come propri (mentre esenti erano solo i capitali dei luoghi pii e dei salariati dell’Università), grandi e piccoli commercianti, sensali e artigiani sarebbero stati tenuti al pagamento di una tassa sull’industria o vigesima, che, si raccomandava, non superasse mai il 10% dell’utile. Avrebbero stabilito l’importo da pagare quattro tassatori (eletti per scrutinio dalla congregazione, su proposta dei sindici), che avrebbero giurato solennemente di agire con rettitudine. Concluse le perizie, i tassatori avrebbero consegnato ai sindici la lista da pubblicarsi, con l’importo che ogni componente doveva pagare. Ai quattro tassatori sarebbero stati affiancati altri che li tassassero a propria volta. Sindici e tassatori sarebbero stati coadiuvati da alcuni salariati, scelti con il ballottaggio[17].

Poiché le tasse sul capitale e sull’industria non erano sufficienti a far fronte alle spese comunitarie e, in particolare, al censo vitalizio per il Cherubini, si decise di tassare anche lo jus cazagà: tale imposta sarebbe scaduta allo spirare dei dieci anni, anche nel caso che il vitalizio non fosse stato estinto.

Riportando in vigore una legge del 1719, i nuovi capitoli imponevano poi un tributo anche in occasione di baratti o acquisti fatti a credito, superiori ai dieci scudi.

I 60 scudi da versare annualmente alla Camera Apostolica avrebbero dovuto essere suddivisi equamente tra le famiglie del ghetto, in base al capitale e all’attività, e pagati direttamente ai ministri camerali, pena sanzioni severe per i morosi. Chi avesse voluto entrare a far parte del ghetto di S., avrebbe dovuto ottenere l’assenso della congregazione tramite ballottaggio, accettando le leggi e la tassazione della comunità, mentre chi avesse voluto lasciare S., avrebbe dovuto continuare a contribuire all’Università per almeno sei mesi[18].

La nuova Capitolazione si chiudeva con la Pragmaticache imponeva restrizioni prima inesistenti sull’abbigliamento maschile e femminile[19] e dava il numero di persone che si potevano invitare in occasione di feste, quali il matrimonio o la circoncisione, fissando il valore dei doni da scambiarsi[20].

Sebbene sia presumibile che fossero operanti a S. svariate confraternite, data la dispersione del materiale documentario, dovuta al sacco del ghetto nel 1799, di esse rimane attestazione parziale: è provata l’esistenza della Compagnia dei Luminari nel 1714, che si proponeva di rifornire i poveri di olio per accendere la Hanukiah, durante le feste di Hanukah e della Misericordia, occupata principalmente nell’aiuto ai bisognosi[21]. La comunità era dotata, inoltre, di una scuola per i ragazzi edi un ospizio[22].

Attività economiche

Dall’inizio del XV secolo, gli ebrei di S. erano impegnati nelle operazioni finanziarie. Oltre alla presenza di un attivo porto, contribuiva ad incrementare l’attività ebraica la fiera franca che si teneva nella città, durante l’estate, che attirava molti ebrei forestieri, creando un notevole giro di affari ai locali e rimpinguando le casse della comunità, che aveva diritto a ricevere la metà dei pedaggi pagati e il 4% sugli affari conclusi dai forestieri[23].

Nella prima metà del '600 continuarono ad essere in funzione i banchi esistenti durante il dominio dei duchi d'Urbino. Nel 1633 vennero prorogati i privilegi di Simone Davide della Rocca, Sabato di Angelo da Camerino, Salvatore e gli eredi del fu Prospero, nonché di Israele Servadio[24].

Nel XVIII secolo gli ebrei di S. erano banchieri e commercianti di media categoria, come mostrano i documenti notarili dell’epoca ed i Libri di esazione dei pedaggi di Fiera, dove essi non risultano mai nella prima e nella seconda classe[25].

Molti giudei di S. si mantenevano, poi, subaffittando la casa o il negozio in tempo di fiera, mentre altri esercitavano il mestiere di raccattarobe, stracciaro e  rivendugliolo ed alcuni erano sensali[26]

Demografia

Durante gli ultimi anni della signoria dei Della Rovere, poco prima del 1631, vivevano a S. una quarantina di famiglie, per un totale di circa 200 persone[27].

Dopo l’istituzione del ghetto (gli altri due ghetti erano a Urbino e a Pesaro), era concentrato a S. il numero maggiore di ebrei marchigiani, che, verso la fine del secolo XVIII, giungevano a seicento[28]

Ghetto

Il ghetto venne istituito a S. nel 1634, nel luogo ove negli anni Trenta del XX secolo si trovava la piazza Simoncelli[29].

Sinagoga

Dopo l’istituzione del ghetto, vi fu trasferita la sinagoga, in sostituzione di quella che esisteva nella via del Carmine, denominata  anche via “della Sinagoga”. Nel 1641, la sinagoga  del ghetto fu ampliata e abbellita,  rimanendo in funzione sino al XX secolo[30].

Bibliografia

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[1] Milano, Storia degli ebrei in Italia, p. 126. Il Roth sostiene che vi furono ebrei a S. non più tardi della prima metà del secolo XV secolo, attirati nella località dall’esistenza del porto e dalla sua famosa fiera, che offriva opportunità di guadagno ai cambiavalute. (Roth, C., The History of the Jews of Italy, p. 119). Anche il Luzzati segnala S. tra le comunità del XV-XVI secolo, pur non escludendo che ebrei vi fossero già nel XIV secolo (Luzzati, M., Banchi e insediamenti ebraici nell’Italia centro-settentrionale fra tardo Medioevo e inizi dell’Età moderna, pp. 191-192). 

[2] Simonsohn, S., The Apostolic See, doc. 1164.

[3]  Ivi, Doc. 1489.

[4] Cassuto, U., Jewrejskaja Enziklopedia, alla voce“Sinigaglia”.

[5] Cassuto, U., Jewrejskaja Enziklopedia, alla voce“Sinigaglia”.

[6]  Riportiamo il testo del proclama: Per la voce sparsa in questa città che gli Ebrei di Ferrara abbiano ucciso un Cristiano nel loro Ghetto con altre particolarità contro la santa fede, buona parte dei Cristiani si fanno lecito di burlare e strapazzare  tanto con fatti, come con parole gli Ebrei di questo Ghetto ed avendosi sicuro rincontro con lettera del Rev. P. Inquisitore d’Ancona esserer simil voce falsissima, col presente lo deduciamo alla notizia di tutti, acciò in avvenire  s’astengano dal discorrere sopra l’enunziato fatto, e rispettivamente non abbiano ardire, di deridere, burlare o in qualunque altro modo strapazzare i medesimi Ebrei sotto pena della carcere ed altre ad arbitrario dei signori superiori in caso di contravvenzione, dichiarando che si starà alla denunzia, ed esame di un sol testimonio. Esortiamo in tanto tutti ad una pronta ubbidienza per non soggiacere alle suddette pene. Il proclama era firmato dal Vicario Generale e dal Vicario del S. Uffizio. L’inquisitore di Ancona, nominato nel documento, doveva aver  reagito contro la diceria, dopo aver letto la lettera in difesa degli ebrei di Ferrara scrittagli dal cardinale Ruffo. Sia il testo in difesa degli ebrei di S. che quello in difesa degli ebrei di Ferrara sono stati pubblicati da Tedesco, R., Documenti storici, in Il Vessillo Israelitico, XXXI (1883), pp. 60-61. 

[7] L’editto era articolato in quindici punti: I) che nessun cristiano o cristiana, raggiunta  l’età della ragione, ardisse prestare servizio fisso presso gli ebrei e, in particolare, andasse ad accendere loro il fuoco di sabato o a sbrigare analoghe incombenze; II) che nessuna balia cristiana allattasse i neonati ebrei (e viceversa ) e che ebrei e cristiani non giocassero insieme in pubblico o in privato; III) che gli ebrei e i cristiani non mangiassero o bevessero insieme dietro nessun pretesto; IV) che nessun cristiano osasse mangiare gli azzimi degli ebrei o partecipare alle loro feste religiose, né, tanto meno, pernottasse in ghetto, per qualsiasi motivo; V) che nessun ebreo prestasse la propria casa per scopi illeciti, né si intrattenesse con donne malfamate, se non per scopi leciti e visibili; VI) che nessun cristiano si servisse di medici ebrei o di medicine fornite dagli ebrei, sotto le pene della costituzione del 30 marzo 1581; VII) che gli ebrei o le ebree si avvicinassero ai monasteri, se non per vendere le loro mercanzie; VIII) che al suono dell’Ave Maria del mezzogiorno o della sera, gli ebrei si nascondessero, qualora si trovassero in luogo pubblico e che si astenessero dal  gridare per vendere le proprie merci, quando passavano di fronte a una chiesa: IX) che i giorni festivi fossero osservati scrupolosamente; X) che durante la notte gli ebrei rimanessero chiusi in ghetto, pena il castigo degli ebrei e del portinaio; XI) che gli ebrei rimanessero in casa, tenendo chiuse le finestre e che non si affacciassero, né si facessero vedere durante le processioni; XII) che gli ebrei non si opponessero a chi voleva ricevere il battesimo; XIII) che gli ebrei che si recassero in un luogo della diocesi dove non vi fosse un ghetto alloggiassero solo nelle pubbliche osterie e locande per tre giorni o per dodici, in tempo di fiera, sempre previe le debite licenze e l’esibizione del solito velo al cappello; XIV) che gli osti e locandieri che ospitassero ebrei non dessero loro cibi proibiti in quel giorno e togliessero dalle stanze loro assegnate le immagini sacre; XV) conferma di quanto detto al punto V. I contravventori agli ordini e alle proibizioni sopra elencate sarebbero stati perseguiti anche per inquisizione, incorrendo nella multa di 25 scudi se cristiani e 50 se ebrei; di tali somme un terzo sarebbe andato  all’accusatore (che era tenuto segreto) e il resto ai luoghi pii. L’editto si chiudeva con l’avvertimento agli ebrei a non trasgredire agli ordini per evitare le pene previste ed anche anche maggiori ed afflittive, secondo la qualità dei casi (Padovano, B., Dal  passato, pp. 306-307).

[8] Per ulteriori particolari, cfr. Pavoncello, N., Inni e canti ebraici attribuiti a Simchà Gallico di Senigallia, in RMI XXXV (1969), pp. 164-170.

[9] Castracani, A., Gli ebrei a Senigallia tra Sette e Ottocento, p. 168.

[10]  Nell’editto del 1775, veniva proibito agli ebrei di possedere, leggere e spiegare il Talmud o altre opere ritenute contrarie alla fede cristiana; inoltre, l’acquisto o l’uso di qualsiasi altro libro ebraico venivano permessi solo previo assenso dell’autorità ecclesiastica. Agli ebrei veniva proibita l’attività di indovino e di fattucchiere, mentre agli argentieri cristiani era proibita la fabbricazione di amuleti per gli ebrei; i riti funebri ebraici potevano aver luogo solo nella sinagoga o sul sepolcro, che non poteva recare nessuna lapide o iscrizione; nessun  corteo funebre poteva accompagnare in forma cerimoniale l’estinto alla sepoltura. Gli israeliti non potevano, per nessun motivo, avere contatti con i neofiti e non potevano avvicinarsi a meno di cinquanta metri alle case che li ospitavano. Ogni patente di attività commerciale veniva revocata, salvo la stracceria e le  botteghe o i magazzini fuori del ghetto, che dovevano venire liquidati; tutte le società di appalti, di affitti o di attività commerciali a partecipazione ebraica venivano annullate, per quanto riguardava la parte ebraica. Il divieto di servirsi di personale cristiano veniva esteso anche alle lavandaie. Oltre alla proibizione di qualsiasi forma di contatto, anche casuale, tra giudei e cristiani, veniva aggiunto alle Constitutiones synodales il divieto di pernottare fuori dal ghetto e di recarsi in viaggio in altre località. L’unico mezzo di locomozione consentito agli ebrei era il cavallo o, nel caso di spostamento per andare a visitare una fiera, il calesse. Infine, i rabbini non avrebbero potuto indossare abiti talari di alcun genere, mentre sarebbero stati strettamente responsabili della presenza ebraica della propria comunità alla predica conversionistica (Milano, A., L’ ‘Editto sopra gli Ebrei’ di Pio VI e le mene ricattatorie di un letterato, pp. 67-68; per il testo dell’Editto, cfr. ivi, pp. 118-126).

[11] Castracani, A., op. cit., p. 178, n. 60.

[12] Ivi, p. 169.

[13] Roth, C., Some Revolutionary Purims (1790-1801), pp. 470-471; Idem, The History of the Jews of Italy, p. 435; Cassuto, U., Jewrejskaja Enziklopedia, alla voce“Sinigaglia”. Sulla cronaca dei fatti di Senigallia ad opera del rabbino anconetano Yaaqov  Cohen, cfr. Carpi, D.,”Sefer Emeq ha Bakha le Rav Yaaqov Kohen, al pur’anut be Sinigaglia be shnat 1799”, in Proceedings of the American Academy for Jewish Research, 44, New York 1977. 

[14] Castracani, A.,  Gli ebrei a Senigallia tra Sette e Ottocento, pp.155-156.

[15] Cfr. ivi, p. 175, n. 6.

[16] Denari contanti e crediti pubblici e privati, con una  rendita del  4%, sarebbero stati  tassati al 100%; oggetti d’oro e d’argento, gioielli destinati al commercio e merci di ogni genere, etiam che fossero stracciarie, sarebbero stati  tassati secondo il loro valore reale; invece, oro e gioielli d’uso personale sarebbero stati  tassati al 90% del loro valore. Sarebbero state tassate anche le mercanzie tarlate e patite e gli scampoli di stoffa, sulla base del valore stabilito in sua coscienza dal  proprietario. Sarebbero stati esentati dalla tassazione solo oggetti e indumenti di uso quotidiano e le robe anche preziose da usarsi nella sinagoga (ivi, p. 157).

[17] Tra tali salariati figuravano uno scritturale, con funzione di segretario nelle congregazioni, e incaricato di tenere aggiornati i registri  contabili e i registri delle spese della comunità; un computista per la revisione dei conti, due esattori, due cassieri e i conservatori dell’archivio, mentre il compito di vigilare sull’osservanza dei Capitoli sarebbe stato affidato a due conservatori dei capitoli. Salariati della comunità risultavano anche il rabbino, il maestro di scuola e i suoi aiutanti, il sagrestano e lo sciattatore o macellatore rituale (ivi, p. 161).

[18] Per questi e per ulteriori particolari, cfr. ivi, pp. 157-161.

[19] La Pragmaticaordinava alle donne di rinunciare a indumenti di lusso, quali i mantelli di color cremisi, le sete e i broccati, salvo il damasco nero, e di eliminare gli ornamenti d’oro da ogni capo di abbigliamento, limitando anche i gioielli, secondo un elenco preciso. Anche gli uomini dovevano rinunciare alle stoffe pregiate, alle cravatte con ricami d’oro (salvo non fossero dono della sposa) e alle parrucche e ai cappelli costosi (ivi, p. 160).

[20] Ibidem.

[21] ASCISe, Opere pie, Compagnia dei luminari, busta 82, fasc. 2, citato in ivi, p. 176, n. 30. Per la Misericordia, cfr. ivi, p. 178, n. 61.

[22] Cassuto, U., Jewrejskaja Enziklopedia, alla voce  “Sinigaglia”.

[23]  Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, p. 299; Cassuto, U., La comunità di Senigallia attraverso i secoli, in Settimana Israelitica , 30 agosto 1912, citato in ibidem, n. 2 ; Cassuto,  Jewrejskaja Enziklopedia, alla voce“Sinigaglia”.

[24]  Loevinson,  E., Banques de prêts, p. 26.

[25] Cfr. Angelini, W., Gli Ebrei a Senigallia nel Settecento: significato di una presenza, in Anselmi, S. ( a cura di), Nelle Marche Centrali. Territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena”, Iesi 1979, p. 814, citato in Castracani, A., op. cit., p. 175, n.11; Archivio Storico della Comunità Israelitica di Senigallia ( in seguito, ASCISe), Fiera di Senigallia, busta 20, fascicoli 11-15, citato in Castracani, A., op. cit.,p. 175, n. 10.

[26] Castracani, A., op. cit., p. 159.

[27] Roth, The History of the Jews of Italy, p. 331. Tale dato contrasta con  quello segnalato dall’Anselmi che afferma che, nel 1550, vi fossero, su una popolazione di sette-ottomila abitant inurbati, circa mille ebrei, che, dai catasti dell’epoca, risultavano essere proprietari di case e terreni (Anselmi, S., Gli ebrei marchigiani nella prima metà del Cinquecento, p. 725). Per l’elenco degli Ebrei di S. nel 1626, vedi Luzzatto, G., I banchieri ebrei in Urbino, Appendice, doc. XII, p. 57. 

[28] Milano, A., op. cit., p. 299. Il Padovano, tuttavia, sostiene che vi fossero, all’epoca, duemila Ebrei (Padovano, B., Le comunità che scompaiono: Senigallia, in Israel, 3 dicembre 1931).

[29] Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, p. 527; Padovano, Le comunità, cit..

[30]  Ravà, V., L’università israelitica di Senigallia, p. 309; Cassuto, U., Jewrejskaja Enziklopedia, alla voce“Sinigaglia”; cfr. Padovano, Le comunità, cit.

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