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Ancona (אנקונה)
Capoluogo di provincia. Fondata da Dionigi di Siracusa verso il 390 a.C., fu, in seguito, sotto la protezione dell’Impero d’Oriente, venendo, poi, donata da Carlo Magno alla Chiesa. Dopo varie vicende, tra cui il conflitto con Venezia, venne riconfermata nella raggiunta indipendenza dal papa Alessandro III. Dal XIII al XV secolo fu, inoltre, in guerra con Osimo, con Macerata, con Iesi e con legato pontificio della Marca e, nel 1348, i Malatesta se ne impadronirono, cedendola, nel 1355, al cardinale Albornoz, che la tenne in nome Chiesa. Nel 1532, infine, il legato della Marca Bernardino Dellabarba si impadronì della città, che cadde così sotto il dominio diretto dello Stato pontificio, condividendone le sorti.
Grazie al suo porto ebbe estesi rapporti commerciali con il Mediterraneo e con il Levante.
I primi documenti relativi alla presenza ebraica ad A. risalgono al 967, quando l’arcivescovo di Ravenna concesse in enfiteusi ad Elia del fu Giusto Ebreo unum spatium terrae nel territorio anconetano[1] e, verso la fine del secolo visse qui Menahem da A. di Shemuel da Oria[2].
L’esistenza di una comunità ebraica organizzata in A., nel XIII secolo, si desume dal fatto che, in occasione del terremoto che colpì le Marche nel 1279 fu composta da Shlomoh di Mosheh di Yequtiel de’ Rossi, da Roma, una selihah da recitarsi nell’oratorio di A. in ogni anniversario del catastrofico evento[3].
Secondo una fonte, nel 1348 la comunità si accrebbe grazie all’immigrazione di ebrei dalla Germania, giunti spontaneamente o su invito dei Malatesta che, occupata A. all’incirca in questo periodo, vollero incrementarne il commercio: all’epoca, essi non sarebbero stati sottoposti ad alcuna restrizione.[4]
Tra le scarse notizie sugli israeliti in questo periodo, abbiamo la lettera del poeta Emanuele Romano, diretta alla comunità di Roma in nome della comunità di A. su questioni relative alle tasse[5] e due responsa dei rabbini Yohanan e Yosef , figli del rabbino Mattityah Treves, risalenti al 1399[6].
Da documenti notarili si apprende che, nel 1391, Guglielmo di Venturello concedeva qui tre prestiti[7] e che, nello stesso periodo, prestava anche il medico ebreo Magister Abramo di Venturello, cui, inoltre, un cristiano di Recanati trasferiva un credito per una cifra di una certa consistenza[8].
Negli anni 1418-1419 la serie delle Cause Civili menziona pegni consegnati di domenica o in occasione di festività cristiane, attestando l’attività feneratizia ebraica[9], esercitata per lo più con una clientela di cristiani poveri, anche se non mancano esempi di prestiti concessi a mercanti per finanziare i loro affari[10].
Nel 1427, dietro l’influsso delle prediche del frate minorita Giacomo della Marca, venne imposto agli ebrei di abitare solo nella zona intorno alla cosiddetta Via dei Giudei e di portare il segno distintivo, che consisteva nella “rotella” gialla, per gli uomini, e nei cerchi alle orecchie, per le donne[11].
Verso la metà del XV secolo, è attestata l’attività feneratizia di Sulam ( o Solamus, cioè Meshullam) Signoretti, che dava e riceveva prestiti e depositi, sia di piccola entità che maggiomente consistenti, spesso figurando in società con un correligionario, Beniamin Moisis. Sulam concedeva e riceveva prestiti da altri ebrei (pagando l’interesse del 20%), ma da un documento si evince che aveva mututi anche da cristiani, con i quali a sa volta riceveva cifre di una certa entità in deposito[12].
Prima di Beniamin Moisis era stato attivo nel prestito anche il padre Moisè Beniamini, originario di Bologna, stabilitosi ad A. presumibilmente prima del 1418, dato che, in tale data, rappresentò la comunità locale al convegno delle comunità ebraiche tenutosi a Forlì[13].
Intorno alla metà del XV secolo facoltosi prestatori erano anche Simone di Magister Moisè da Fano e Aluvictus Sabbatuti[14].
Da atti notarili della fine del XIV secolo e della seconda metà del XV secolo si evince che alcuni giudei erano proprietari di numerose vigne e prendevano in affitto terre. I possessori di immobili, nel XV secolo, erano, presumibilmente, in possesso di privilegi, come Moisè di Matassia da Viterbo, che ottenne tale licenza da Sisto IV e ne ricevette il rinnovo da Innocenzo VIII[15].
Nel corso del XV secolo, inoltre, alcuni israeliti risultavano godere del titolo di cittadini, anche se i documenti notarili esaminati non consentono di stabilire se ciò consentisse loro di avere gli stessi diritti dei cristiani, così come non consentono di stabilire precisamente in che cosa si differenziassero i correligionari non designati come “cittadini”[16].
La comunità ebraica non sembra essere stata in grado di far fronte alle richieste di soccorso, raccogliendo tra i suoi membri il denario necessario, nel 1448, quando gli israeliti di Recanati si rivolsero ad A. per aiuti[17].
Da un atto notarile del 1458 si apprende che due ebrei d’origine orientale, consegnati dall’aiutante del capitano delli mari alla comunità locale perché venissero riscattati, vennero riconsegnati ai marinai, in quanto, presumibilmente, essa non era stata in grado di raccogliere la somma richiesta per il riscatto[18].
Ancora nel 1458, poi, i giudei furono obbligati a contribuire alle spese per i lavori del porto con un balzello di 1.000 ducati[19].
La prima stipulazione di una condotta di banco, a noi nota, risale al 24 febbraio 1466. In quella data il medico Maestro Abramo di Ventura da Rieti siglò con gli Anziani della città adriatica i capitoli per fenerare ed il mese successivo scelse come soci al 50% Abramo e Leone di Bonaiuto di Salomone da Camerino e Angelo di Vitale di Salomone da Camerino[20]. Nell’atto di nomina dei soci faceva la sua comparsa anche Dattilo di Bonaventura da Fondi, che avrebbe dovuto ratificare tale disposizione. Nel 1484, poi, la condotta venne concessa dal Comune a Bonaventura di Dattolo (Dattilo)[21], che in precedenza era già stato associato con Magister Abramo, suo suocero, nella gestione del banco che quest’ultimo aveva fondato, e che aveva associato a sua volta anche due figli, poi trasferitisi altrove.
Da un atto notarile del 1485, inoltre, sappiamo che lo stesso Bonaventura di Dattolo, ritenendo di aver già fatto fronte ai suoi obblighi finanziari pagando quanto doveva alla comunità ebraica, si rifiutava di pagare le spese del soggiorno del legato pontificio ad A.[22].
Durante la Settimana Santa, gli Ebrei erano sottoposti a vessazioni di vario genere cui tentavano di sottrarsi prestando al Comune somme di denaro in cambio di protezione, come accadde nel 1489[23].
Nel 1494 venne rinnovata la condotta a Bonaventura e ai figli di Abramo, a condizione che uno dei due fratelli tornasse ad A., portando con sé cinquemila ducati. La nuova condotta implicava che gli ebrei si impegnassero a fondare un nuovo banco, mentre il Senato, dal canto suo, dava loro il permesso di acquistare case e altri beni immobili, di abitare fuori del quartiere loro riservato e di tenere nascosto il segno distintivo; inoltre, Bonaventura e soci avrebbero avuto il diritto di stabilire se e chi tra gli altri correligionari avrebbe potuto esercitare l’attività feneratizia. Tuttavia, essi delusero le aspettative del Senato, che li multò per una forte somma, pur non revocando la condotta[24] .
Lungo l’arco del XV secolo, sono attestati conflitti tra i singoli israeliti e la comunità per l’attribuzione di privilegi o per la suddivisione dei tributi straordinari richiesti dal Comune di A.: un contenzioso tra il facoltoso feneratore Beniamino di Mosè e la comunità per l’assegnazione della bolla pontificia di Eugenio IV, contenente evidentemente l’assegnazione di determinati privilegi, è attestato da atti notarili del 1458[25]. Da un manoscritto ebraico custodito nella Biblioteca Municipale di Verona[26] si apprende che già all’inizio del XV secolo, i capi della Comunità ebraica anconetana avevano dovuto affrontare il rifiuto di pagare le imposte, opposto loro da Michael, Iecutiel e Moise Cohen, rivolgendosi in proposito al rabbino Yohanan Treves, nel 1401. Infine, da un documento dei primi anni Ottanta del XV secolo risulta che il titolare del banco feneratizio, Bonaventura di Dattolo, che godeva del privilegio della cittadinanza, e Moisè di Matassia da Viterbo, che aveva ottenuto una bolla papale con il permesso di acquistare immobili, avevano preso in affitto nel quartiere ebraico una casa, autorizzando il proprietario cristiano a subaffittare a chiunque, salvo ai correligionari. Tale comportamento, deviante dalla norma, ha fatto supporre che vi fosse un contenzioso in atto tra i due dotati di privilegi e la comunità[27].
Nel 1488, un ebreo battezzato con il nome di Giambattista rivelò che, anni prima, David e Saul, due fratelli ebrei, avrebbero ucciso e sepolto un bimbo di quattro anni. Sottoposto alla corda, Giambattista confermò l’omicidio da parte dei due, che, dopo essersi inizialmente dichiarati innocenti, sotto tortura “confessarono” il delitto, venendo immediatamente bruciati vivi. Ad un caso di presunto omicidio rituale si deve verosimilmente anche la condanna a morte, una trentina di anni prima, di un israelita, ritenuto reo di aver ucciso un bambino[28].
Sembra assodato che gli ebrei non avessero il permesso di erigere tribunali rabbinici nello Stato della Chiesa (esclusa Ferrara)[29] e, pertanto, quelli di A. ricorrevano a notai cristiani per la stesura di atti legali e spesso anche per i documenti di carattere matrimoniale, come per tutte le questioni relative alla succesione e per analoghe pratiche. Anche in caso di contenzioso, essi ricorrevano ai tribunali cristiani.
Nel 1498, il vescovo di A. proibì di tenere le funzioni religiose nella sinagoga, ma gli ebrei riuscirono ad ottenere dal Consiglio cittadino il permesso di continuare a pregare nel proprio luogo di culto[30].
Successivamente, le autorità cittadine mostrarono, però, un irrigidimento nei confronti degli israeliti, imponendo nel 1524 il ripristino dell’obbligo del segno e abolendolo quattro anni più tardi[31].
Nel 1529, il sedicente Messia Shlomoh Molcho (Molkho, Molco)[32] giunse ad A., dove rimase qualche tempo.
Il passaggio al governo diretto della Chiesa, sotto papa Clemente VII (1532) non cambiò inizialmente la situazione degli ebrei, che, nel 1535, ricevettero da papa Paolo III il permesso di continuare l’attività feneratizia e altri privilegi[33].
Il papa, inoltre, autorizzò tutti i mercanti orientali, giudei compresi, a venire a stabilirsi ad A. per esercitarvi la loro attività e, quando i giudei furono espulsi dal Regno di Napoli, nel 1541-42, concesse loro, come ai marrani d’origine portoghese, di venire ad abitare nella città. Così, dopo che il papa ebbe dichiarato A. porto franco, i commerci presero grandissimo impulso, in particolare, grazie all’apporto dei marrani[34].
Nel 1547 fu eretto il Monte di Pietà ad A., mentre cessava di esistere il banco della famiglia Bonaventura[35]: tuttavia, presumibilmente data l’insufficienza del Monte a far fronte al fabbisogno creditizio locale, nel 1549 veniva dato avvio al progetto per l’istituzione di un banco feneratizio, gestito da una società di ebrei portoghesi, che sarebbe stato realizzato solo dopo che il successore di Paolo III ebbe dato la propria approvazione con un Breve del 1552. Mentre Paolo III, però, aveva esonerato i Portoghesi dalla decima e dalla vigesima e da altre imposte della Camera apostolica, il suo successore, Giulio III, tolse loro questo privilegio, obbligandoli, con il Breve del 1553, al pagamento annuale di 1.000 scudi d’oro, come decima, vigesima ed altre imposte alla Camera apostolica[36]. Ciononostante, i Portoghesi continuavano a godere di una situazione di prosperità.
Nel 1555, il successore di Giulio III, Paolo IV, che era un convinto sostenitore della Controrifroma, ordinò la segregazione degli israeliti nel ghetto, impose la vendita dei loro beni immobili e delle merci, proibendo di tenere servitù cristiana e, ai medici, di curare pazienti cristiani. Inoltre, proibì l’uso dell’ebraico nei registri contabili, diede disposizioni restrittive nei confronti dei feneratori e limitative delle attività economiche ebraiche e ripristinò l’obbligo del segno[37].
Sempre nel 1555 Paolo IV dispose, poi, l’arresto di tutti i marrani di A.: alcune famiglie riuscirono a fuggire a Pesaro e a Ferrara, ma vennero comunque arrestati un’ottantina di marrani, tra cui alcune donne. Trenta riuscirono a corrompere il commissario papale, fuggendo dalla città, ma una cinquantina rimasero prigionieri dell’Inquisizione e furono sottoposti a pubbliche torture. Tra questi ultimi, ventisette, cedendo alle sofferenze, “tornarono” al cristianesimo e furono condannati a vita ai remi delle galee, ma durante la traversata verso Malta riuscirono a fuggire, riparando in località più sicure, dove riuscirono a tornare all’ebraismo[38]. Dei rimanenti venticinque prigionieri, uno morì, gettandosi dalla finestra della sua cella, e gli altri ventiquattro furono messi a morte ad A., nel corso di una serie di auto da fe , tra l’aprile e il giugno del 1556[39].
Già nel 1555, poco dopo l’arresto dei marrani, il commercio di A. aveva subito una battuta d’arresto, con il sequestro delle mercanzie di questi ultimi, che risultavano essere indebitati con mercanti di tutte le nazionalità. Essi, non potendo recuperare i propri crediti, né le mercanzie di loro proprietà che erano state sequestrate insieme a quelle dei marrani, facero fallimento, causando grave danno all’economia locale. Inoltre, era nel frattempo arrivato ad A. un delegato del sultano turco che chiedeva la liberazione dei marrani, minacciando rappresaglie contro gli anconetani che erano in rapporti commerciali con il Levante[40].
Tra coloro che in Turchia avevano fatto pressioni sul sultano per indurload agire in questo senso vi era anche Gracia Mendes, il cui agente, Jacob Mosso (Morro), era stato arrestato e aveva subito la confisca dei beni (tra cui vi erano anche i beni appartenenti alla Mendes ) a favore della Camera Apostolica[41].
Altri provvedimenti si susseguirono, senza riuscire, però, ad impedire l’esecuzione dei Marrani[42] ed in risposta a tali persecuzioni vi fu il tentativo, iniziato dai Portoghesi rifugiatisi a Pesaro e appoggiati dal Levante, di boicottare il porto di A. a favore di quello di Pesaro. Tale tentativo ebbe breve vita, sia per il conflitto tra la comunità italiana e quella portoghese di A., sviluppatosi prima, durante e dopo la strage dei marrani[43], sia per le insufficienze oggettive delle strutture portuali pesaresi[44].
Il successore di Paolo IV, papa Pio IV, ebbe un atteggiamento più benevolo verso gli israeliti, abolendo o mitigando le disposizioni antiebraiche del suo predecessore sul segno, sul divieto del possesso di immobili e sulle attività economiche. Inoltre, promosse un’inchiesta sul rogo dei marrani e fece punire i funzionari nominati da Paolo IV, che erano stati direttamente responsabili della persecuzione[45].
Al contrario Pio V, che seguì a Pio IV, adottò un atteggiamento di accentuata ostilità verso i giudei: li cacciò dallo Stato pontificio nel 1569, lasciando solo A. (e Roma) come luoghi di residenza permessi, e dando disposizioni particolarmente dure relativamente al ghetto e, in generale, a molti aspetti della vita quotidiana[46]. Inoltre, per finanziare i giochi romani d’Agone e Testaccio, egli impose agli ebrei anconetani pesanti tasse, da pagarsi alla Camera Apostolica[47].
In seguito alla politica antiebraica di Pio V molte famiglie lasciarono A.: in una lettera del 1573, il vescovo dichiarò, altresì, che altrettanti abbracciarono il cattolicesimo e che era stata fondata una Casa dei catecumeni e neofiti[48].
Sisto V, invece, nel 1586, mitigò le severe disposizioni del suo predecessore, permettendo tra l’altro agli ebrei di abitare in tutto il territorio dello stato pontificio, praticandovi ogni genere di attività, tenendo servitù cristiana e riaprendo i luoghi di culto, precedentemente chiusi in seguito ai provvedimenti restrittivi. Inoltre, abolì l’obbligo del segno distintivo, limitò l’attività conversionista a tre prediche annuali e abolì le gabelle straordinarie, lasciando in vigore solo l’obbligo di pagare la tassa per i giochi d’Agone e Testaccio, per la Casa dei Catecumeni di Roma, la cifra da corrispondere per ogni maschio ebreo dai 15 anni ai 60 e quella da versare al momento dell’ingresso nel suo Stato. Pertanto, la comunità di A. riprese a fiorire, mentre la popolazione cresceva tanto da indurre il consiglio municipale, due anni più tardi, ad ampliare il ghetto[49].
Anche Clemente VIII, che pure si rifaceva alla politica antiebraica di Paolo IV, allo scopo di incrementare l’economia locale escluse dai maggiori provvedimenti restrittivi gli ebrei di A. e nel 1593-1595 ripristinò i privilegi per i mercanti levantini concessi da Paolo III.[50]
Alla fine degli anni Novanta del XVI secolo (1593), gli israeliti di A. manifestarono l’intenzione di procedere personalmente alla soppressione dei passi proibiti nei propri libri, secondo le direttive della curia romana[51].
Il papa successivo, Alessandro VII, nel 1659, rispristinò le limitazioni al commercio fuori dal ghetto e l’obbligo di pernottarvi, sotto severe pene. Tuttavia, dietro pressione del Magistrato Anconetano che si preoccupava per l’economia cittadina, l’ultimo provvedimento venne revocato[52].
Nel 1711, vi fu un’accusa di omicidio rituale nella città adriatica, ma nel corso dell’inchiesta che ne seguì, fu chiarito che si trattava di una calunia[53].
Nel 1753 alcuni esemplari del Talmud vennero bruciati qui[54] e, da un documento del 1758 risulta che gli ebrei, che avevano fatto stampare sonetti e analogo materiale per festeggiare le nozze di uno di loro, vennero processati dall’Inquisizione, mentre gli scritti vennero confiscati e distrutti e il vicario inquisitore di Senigallia, che ne aveva autorizzato la stampa, ricevette una severa punizione[55].
Nel 1775, Pio VI rinnovò le disposizioni relative al segno e proibì ogni relazione tra ebrei e cristiani[56] e dieci anni più tardi, fu proibito ai primi di studiare danza e musica con maestri cristiani e di frequentare caffè al di fuori del recinto del ghetto[57].
Nel 1792, un giudeo che aveva acquistato una casa di fronte alla chiesa dell’Annunziata, ne rimosse una statua della Madonna, facendola trasportare a sue spese nel palazzo del Comune: il gesto provocò una forte opposizione da parte della popolazione cristiana, rischiando di degenerare in un tumulto antiebraico[58].
L’anno seguente, l’Inquisitore Generale di A. ribadì, del resto, le disposizioni restrittive di Pio VI e, soprattutto, l’obbligo del segno[59].
Ancora nel XVIII secolo, gli israeliti dovevano pagare alla Chiesa e al Comune una cifra considervole per l’affitto delle stanze dell’Archivio, della deputazione, dell’ospizio dei viandanti poveri e dei portinai del ghetto, oltre alle normali spese per la gestione della vita comunitaria (scuole, pulizia del ghetto, assistenza ai bisognosi, aiuto ai viandanti forestieri e ai messi dalla Terra Santa e spese straordinarie).
Alla Camera Apostolica gli Ebrei dovevano pagare una tassa per le spese di Agone e Testaccio e per la Casa dei Catecumeni, mentre al Comune dovevano pagare una cifra per il dazio, per le collette privilegiate e della mercatura[60]. Inoltre, erano obbligati a fare regalie al vescovo e al suo vicario, all’Inquisitore e al suo vicario, al Delegato, al Segretario, all’ispettore di polizia, al colonnello e ai maggiori di Piazza[61], finché, nel febbraio del 1797, le truppe francesi non entrarono nella città, occupandola.
Attività economiche
Dagli atti notarili del XV secolo risulta che vi erano alcuni artigiani ebrei, tra cui tre sarti e numerosi commercianti al dettaglio, soprattutto di tessuti; vi erano anche israeliti che commerciavano in vino, in bestiame e in derrate alimentari, nonché venditori al minuto che avevano botteghe e, tra l’altro, vendevano pesce[62].
Dalla fine del XIV al XV secolo non vi furono prestatori in regime di condotta. Il prestito veniva esercitato su pegni o “su carta” da ebrei che erano soltanto feneratori o che affiancavano il prestito alla mercatura[63]. Ulteriore attestazione del prestito è data dal commercio degli abiti, spesso pegni che non erano stati riscattati[64].
Tra gli Ebrei vi erano anche un appaltatore di tasse e dazi, tale Joseph Rubini da Pulea, di origine pugliese[65], ed un’altra attività economica era costituita dall’affitto delle vigne di proprietà ebraica a cristiani e dal prestito di biade, che crescevano nelle proprietà rurali ebraiche.[66]
Dopo il 1484, accanto ai banchi per il prestito su pegno forniti di regolare condotta, per i quali veniva usata l’espressione banchum ad imprestandum ad fenus , vi erano anche i banchi non convenzionati, designati con l’espressione banchum mutui[67]: il prestito “a carta” o “mutuo” fu praticato largamente, dopo l’istituzione del regime di condotta, ma anche il prestito su pegno sembra essere continuato[68].
Dai capitoli del 1535 risulta che agli abrei anconetani che feneravano nel territorio marchigiano era concesso chiedere per somme a partire da un fiorino in su l’interesse del 30% annuo, mentre per le somme inferiori ad un fiorino, “ sopra pegni mobili”, era concesso chiedere l’interesse del 50% annuo, mentre l’interesse per i prestiti “sopra beni stabili” era fissato al 45% annuo[69].
Per decreto di Paolo IV le attività concesse agli ebrei furono in seguito limitate alla sola strazzaria o cenciaria. I feneratori dovevano calcolare i mesi come di 30 giorni e i giorni di prestito inferiori al mese dovevano essere computati singolarmente, ai fini dell’interesse; la vendita dei pegni non riscattatti, dopo 18 mesi, veniva subordinata agli statuti favorevoli ai cristiani.
Tra gli ebrei vi erano anche svariati medici, che, dopo i provvedimenti di Paolo IV, non avrebbero più potuto curare pazienti cristiani.[70] Sisto V , nel 1586, tolse il divieto ai cristiani di servirsi di medici ebrei.[71]
Nel 1659, Alessandro VII vietò agli israeliti di tenere botteghe e magazzini fuori dal ghetto[72], ma l’attività dei medici proseguì come risulta da un documento del 1749, dal quale sappiamo che il conte Pironi di A., aveva chiesto di potersi far curare dal medico ebreo Anselmo Marini[73].
Pio IV, infine, concesse nuovamente agli ebrei di commerciare coi cristiani in derrate alimentari e granaglie, tenendo botteghe anche fuori dal ghetto[74].
Demografia
Sulla base del suo esame degli atti notarili l’Ashtor formula l’ipotesi che, sebbene intorno alla metà del XV secolo risultassero menzionati solo 52 ebrei di sesso maschile, il numero complessivo della popolazione ebraica dovesse aggirarsi sulle 400-500 unità[75].
Da una cronaca del 1549 risulterebbero aver vissuto, all’epoca, ad A. circa 2.700 ebrei.[76] In seguito alle misure più benevole nei loro confronti prese da Pio IV, la popolazione ebraica si accrebbe, come si evince dalla notizia che, nel 1566, vi sarebbero state 34 sinagoghe[77].
In seguito alle misure oppressive di Pio V circa un migliaio di famiglie ebraiche lasciarono la città.[78]
Nel 1708, infine, risultavano abitare ad A. 1.076 israeliti[79].
Quartiere ebraico e ghetto
Il Senato anconetano decise nel 1427 che gli ebrei dovessero risiedere in un quartiere separato, da costituirsi nell’area in cui la maggior parte di essi si erano concentrati spontaneamente, lungo la Via dei Giudei o Via del Bagno (rituale), che si estendeva dalla chiesa di S. Nicola a quella di S. Agostino.
Intorno alla metà del XV secolo, svariati giudei abitavano nella parrocchia di San Jacopo, sita a destra di quello che, in seguito, avrebbe preso il nome di Corso Stamira[80].
Il ghetto vero e proprio, decretato da papa Paolo IV, nel 1555, venne realizzato dal delegato pontificio ad A., l’anno successivo[81] e nel 1588 venne ampliato aggiungendovi tredici casette del Vicolo delle Stalle[82].
Fino al 1785 il ghetto comprese: la Via degli Speziali (denominata in seguito Via Lata sino alla Cloaca , che proseguiva con la Via Capodimonte sino alla casa Candelari), la Via Traffico (detta anticamente Via Pescheria, che racchiudeva il Vicolo delle Azzimelle, chiamato in seguito Vicolo Traffico), l’antica via del Macello, poi detta de’ Banchieri, la Via del Bagno sino ad uno spiazzetto ed il Vicolo Beninfanti o delle Prostitute, poi detto Vicolo del Gozzo. Nel 1785 la zona destinata agli ebrei venne ampliata dalla casa Candelari sino alla casa De-Bosis e, da una mappa della metà del XVIII secolo, risulta l’esistenza di due portoni che chiudevano il ghetto: uno all’innesto tra quella che veniva indicata come Via lo Speziale e Via Calamo (in seguito, Corso Mazzini) e l’altro allo sbocco di Via del Traffico su Via Colonna[83].
Sinagoghe
Secondo documenti cinquecenteschi, nel vicolo del Gozzo, vicino alla chiesa di S. Rocco e S. Sebastiano, era ubicata dalla fine del XIV secolo una sinagoga di rito italiano, che dovette essere demolita nel 1595, su richiesta della confraternita della suddetta chiesa, cui risultava sgradita la vicinanza col luogo di culto ebraico. La sinagoga venne ricostruita, a spese della confraternita in questione, nel ghetto, in via Astagno 12, dove rimase sino al 1933, quando fu demolita per il riassetto della zona operato da Comune[84].
Nella parrocchia di S. Jacopo era ubicata anche un’altra sinagoga[85] e, dopo la venuta degli ebrei cacciati dal Regno di Napoli, furono aperte per loro tre sinagoghe.[86]
La sinagoga dei Levantini, che risultava essere fuori della zona del ghetto voluto da Paolo IV, fu demolita dopo la metà del XIX secolo[87].
Gli Ebrei d’origine portoghese stabilitisi ad A. avevano un loro luogo di culto nella casa di Nicolò Gratioli, che cadde in disuso dopo che furono messi a morte sul rogo[88].
Cimitero
Il primo documento relativo al cimitero ebraico di A. risale al 1428, quando il Consiglio comunale cittadino concesse alla comunità di poter adibire a luogo di sepoltura ebraico un terreno confinante con il Campo della Mostra,[89] fra il Colle dei Cappuccini ed il Monte Cardeto. Tale terreno fu acquistato dal cittadino anconetano Giovanni di Biagio Giannelli da parte dei rappresentanti e deputati dell’Università degli Ebrei di A., Sabbatuccio Venturello e Mosè di Beniamino.
Nel 1462, gli Anziani della città di A. concessero all’Università degli ebrei, rappresentata da Sulam (Meshullam) Signoretti e da Beniamin Mosè Prudenti, il permesso di ampliare il cimitero sul terreno acquistato da Francesco Giovanni Buscarati, sito fuori Porta S. Pietro, dal lato superiore della suddetta Porta verso il mare, dove vi era un altro terreno di proprietà ebraica, adibito a cimitero, sito vicino alle proprietà di tale Biagio Albanese.
Il cimitero, detto di Monte Cardeto, dopo circa due secoli e mezzo divenne insufficiente, sia per l’aumento naturale della popolazione che per l’immigrazione, soprattutto di levantini, per cui nel 1711 la comunità acquistò dal Convento di S. Francesco un altro appezzamento di terra, sito nella stessa località e denominato “Possessione del giardino”[90].
Dotti, rabbini, personaggi famosi
Il celebre poeta Manoello Romano (c.1270 – c.1330), durante la vecchiaia, visse per un periodo ad A.
Nel 1370 e 1371 Yehiel di Yehudah da A. copiò un codice con i responsa del rabbino Yeshayah da Trani II, per uso proprio e dei suoi figli[91] e, nel 1399, risultavano ad A. Menahem di Yaaqov e Daniel di Menahem, firmatari di un atto importante in una causa di divorzio, che mise in moto, all’epoca, i più importanti rabbini della diaspora[92].
All’inizio del XV secolo (1402) Abraham di Gasday da Perpignano terminava di scrivere in A. un codice con un commento di David Qimhi sui Profeti; due anni dopo, Gayyim di Mikhael terminava di scrivere un codice contenente il Sefer ha-Melamed[93].
Nella prima metà del secolo XV o, forse, nei primi decenni del successivo, visse per un periodo ad A. il grammatico e poeta Yosef di Yehudah di Yitzhaq Zark [94].
All’inizio della seconda metà del secolo XV fu ad A. il celebre umanista ebreo Messer Leon, che pare abbia inaugurato la sua carriera rabbinica nella città, lasciandola, in seguito, per recarsi a Bologna e altrove[95]. Sempre in questo periodo, fu rabbino ad A. Pinkhas Vazon, cui è indirizzata la risposta del rabbino Yosef Colon da Mantova ad un quesito postogli dalla comunità anconetana. Negli anni Ottanta del secolo, Mordekhai di Levi Chalfan terminava di scrivere in A. un codice con un commento al Pentateuco e qualche anno dopo, Yaaqov di Elia Gay di A. copiava un codice con un commento anonimo sull’opera di Yosef Ezobi Qearat Kesef e l’opera Behinat olam di Yedaya Penini[96].
Il presunto Messia Shlomoh Molcho ( Molkho, Molco; circa 1500-1532), sbarcato ad A. nel 1529, fu denunciato presso l’autorità per la sua apostasia dal cristianesimo, ma venne lasciato in libertà, con l’imposizione di non tenere in pubblico discorsi anti-cristiani. Tuttavia, predicò più volte nella sinagoga di A., con grande affluenza di pubblico ebraico e cristiano, tra cui nobili e membri del clero. Dopo una disputa teologica nella pubblica piazza della città, cui assistette il duca di Urbino, fu preso sotto la protezione di quest’ultimo, trasferendosi a Urbino[97].
Verso la fine della prima metà del XVI secolo fu rabbino ad A. Yitzhaq di Leon di Eliezer di Shelomoh ibn Zur lo Spagnolo, che scrisse l’opera intitolata Megillat Ester (stampata a Venezia nel 1592), in cui difendeva Maimonide dagli attacchi del Nahmanide[98].
Il noto medico e scienziato d’origine portoghese e marrana Amatus Lusitanus (1511-1568), verso la fine degli anni Settanta del secolo, soggiornò ad A., dove curò la sorella di papa Giulio III e divenne il medico di svariati conventi[99].
Verso la metà del secolo, fu rabbino ad A. Mosheh Basola, che fu a capo dell’opposizione al boicottaggio del porto di A., all’epoca dell’episodio della persecuzione dei Marrani.[100]
Il celebre studioso di storia e letteratura ebraiche Azaria (Azaryah) de’ Rossi (c. 1511-c. 1578) visse per un periodo ad A.; tra i rabbini delle comunità italiane che presero, nel 1574, provvedimenti contro la sua opera Meor Enayim, vi furono anche i rabbini di questa città[101].
Tra gli altri rabbini e dotti del XVI secolo, vanno menzionati come autori di opere manoscritte o citati in codici legali: Yosef Amigo, Mikhael Codoto e Yitzhaq di Mosheh da Fano.[102]
Nel XVII secolo fu rabbino ad A. Yosef di Nissim Fermo (Fermi), maestro ed amico del poeta Immanuel Frances, con cui tenne una corrispondenza poetica[103].
Negli anni Sessanta del XVII secolo fu rabbino ad A. Mahalalel di Shabbetay da Civitanova, cabbalista di tendenze sabbatiane e poeta in ebraico, che compose piyyutim e vari altri inni recitati nelle sinagoghe, durante la celebrazione sabbatica e nelle feste ebraiche.[104]
Nello stesso periodo officiava come rabbino Gezeqyah Manoah Provenzal, i cui responsa sono citati, tra l’altro, nell’opera a carattere enciclopedico-rabbinico Pahad Yitzhaq del Lampronti[105].
Gli succedeva come rabbino Menahem di Yishmael Shulhani, seguito da Yehoshua di Refael Fermi, che compilò una serie di responsa rabbinici[106].
Tra gli altri rabbini e dotti del XVII secolo vanno ricordati Gayyim di Yehudah Assael Del Bene; Mattityah di Mosheh ha-Levi Mondolfo, Pinhas Shulhani, David, Mosheh Leon di Yitzhaq di Urbino, Yehiel Ventura, Yitzhaq di Mosheh Yehoshua Ventura e Shemuel di Mosheh Zarfati[107].
Nel XVIII secolo si distinse come esegeta, poeta, teologo e autore di due volumi inediti di responsa Yosef di Shlomoh Fiammetta (m. 1730), cui successe come rabbino Shimshon di Yehoshua Mosheh Morpurgo (m. 1740), che fu medico, filosofo e autore di responsa. Troviamo, inoltre, ad A. Yitzhaq Fiano da Roma, Gayym Abraham Yisrael da Rodi, autore delle opere Bet Abraham e Amarot tehorot; Refael Yeshayahu Azulai, figlio del celebre Gayyim Yosef Azulai e autore di responsa rabbinici e Yaaqov Shimshon Senigaglia, autore di opere inedite[108].
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[1] Fantuzzi, M., Monumenti ravennati dei secoli di mezzo, I, Venezia 1801, n. CLXXXXV/19, p. 378.
[2] Tale indicazione si trova in una nota manoscritta nel codice ebraico Derossiano di Parma, n. 12 (XIII secolo), riprodotta da Neubauer, A., The Early Settlement of the Jews in Southern Italy, pp. 606-625, pp. 615-616. In questa nota è menzionato Natan di Mahir di Menahem da Ancona di Shemuel di Mahir da Oria. Secondo Vogelstein, H. e Rieger, P.,Geschichte der Juden in Rom, I, Berlin 1896, p. 160, n. 3 la data da assegnarsi a Natan è il 1080 circa; pertanto la vita del nonno di Natan (ovvero, Menahem) dovette svolgersi tra la fine del Novecento e l’inizio del Mille.
[3] Il testo si trova al folio 26b-27b di una raccolta di Selihot secondo il rito romano, contenuta in un codice parmense (v. Perreau, P., Catalogo dei codici ebraici della Biblioteca di Parma non descritti dal De Rossi, in Cataloghi dei codici orientali di alcune biblioteche d’Italia, Firenze 1878, Serie II, Codici non Derossiani, n. 20, p. 159) ed è stato messo in luce da Rosenberg, H., Alcuni cenni biografici di rabbini e letterati della comunità israelitica di Ancona , pp. VIII-IX. V. anche Laras, G. , Una composizione poetica del secolo XIII per un terremoto ad Ancona, in RMIXXXIX (1973), pp. 46-57.
[4] Ciavarini, C., Memorie storiche degli Israeliti in Ancona, pp. 3-4.
[5] Mahberot Immanuel 24, citato in Vogelstein , H.– Rieger, P., Geschichte der Juden in Rom, I, p. 425, n. 1.
[6] Cassuto, U., E.J. s.v. “Ancona”.
[7] Archivio di Stato di Ancona (d’ora innanzi ASAn), Notarile Ancona (d’ora innanzi N.A.), not. G.P., 1391, c. 18v, c. 47. C.92v., citato in Bonazzoli, V., Il prestito ebraico nelle economie cittadine delle Marche fra ‘200 e ‘400, p. 154, n. 9.
[8] Ivi, not. G.P. , 1391, c.5, c. 59, c. 61v, c. 97, ricordato in Bonazzoli, V., op. cit., p. 154, n. 10.
[9] Ivi, Cause Civili, 1418/1419, c. 29a, 31 b, citato in Ashtor, E., Gli Ebrei di Ancona nel periodo della repubblica, p. 348, n. 108.
[10] Ivi, p. 348.
[11] Ciavarini, C., op. cit., pp. 5-6.
[12] Ashtor, E., op. cit., pp. 349-350.
[13] Finkelstein, L., Jewish Self-governement in the Middle Ages, New York 1924, p. 287.
[14] Per ulteriori particolari, v. Ashtor, E., op. cit., pp,351-352.
[15] Ivi, pp. 356-357; pp. 360-361.
[16] Ivi, pp. 361-362. Dall’esempio di Beniamino di Mosè, cui, cinque anni dopo che gli ebrei erano stati obbligati a vivere in un’area specifica della città, fu concesso di distruggere la casa pericolante in cui abitava nella parrocchia di S. Salvatore (fuori dell’area destinata agli ebrei) e di ricostruirla, è stata avanzata l’ipotesi che gli israeliti in possesso di privilegi, come Beniamino, potessero vivere anche fuori dal quartiere ebraico. Va rilevato che Beniamino di Mosè non risultava, comunque, designato come civis di A. (vedi ivi, pp. 361-363).
[17] Cfr. Kaufmann, D., Correspondance échangée entre les communautés juives de Recanati et d’Ancone en 1448 pendant les persécutions dirigées par Jean de Capistrano, in REJ XXIII (1891), pp. 249-255. Per i particolari della vicenda si veda la voce “Recanati”, nel presente lavoro.
[18] ASAn, Notaio Angelo di Domenico, I, c. 216r e ss., cit. in Ashtor, E., op. cit., p. 368, n. 219.
[20] Tutte le informazioni sono desunte dall’atto di nomina dei soci del 21 marzo 1466, rogato in Toscana a San Giovanni Valdarno, dove i da Camerino avevano un banco (ASFi, Notarile Antecosimiano, n. 15337, cc. 28r/30r, Ser Piero di Giovanni Nori), ricordato in Toniazzi, M., I “da Camerino”: una famiglia ebraica italiana fra Trecento e Cinquecento, tesi di dottorato discussa presso l’Università di Firenze, 2013, p.74 .
[33] Ci sono rimasti i capitoli di una concessione di banco rilasciata, nel 1535, ad alcuni ebrei tedeschi residenti ad A. Gli Ebrei, nei capitoli in questione chiedevano, tra l’altro, di dare animali in soccida, di dare in subappalto il banco ad altri correligionari, di essere esenti da ogni dazio e da ogni nuovo tributo e di non pagare la decima (per il quinquennio in cui i capitoli erano in vigore), di non essere costretti a prestiti forzati, di non essere tenuti a risarcire i pegni in caso di incendio, guerra o altra calamità, di non esser costretti a mettere all’asta i pegni non riscattati, secondo le modalità vigenti in passato. Chiedevano, inoltre, che venissero presi provvedimenti per garantire la possibilità di consumare carne macellata ritualmente e per impedire abusi e molestie durante la Settimana Santa. Qualora gli ebrei fossero stati accusati di qualche crimine o denunziati presso l’autorità ecclesiastica o secolare, l’accusa avrebbe dovuto essere provata da tre testimoni degni di fede.; solo il Luogotenente e i suoi auditori avrebbero potuto giudicarli e avrebbero dovuto essere liberi di vendere frumento, panni ed altro e sarebbero stati esenti dal segno distintivo e che tutti gli altri capitoli, privilegi et gratie, di cui avessero goduto in passato, fossero considerati validi per per cinque anni . Chiedevano, inoltre, di essere esentati dalle prediche coatte, di poter portare armi honeste e di non essere costretti ad albergare i soldati nelle proprie dimore. Per questi e ulteriori dati, si veda Radin, M., A Charter of Privileges of the Jews in Ancona of the Year 1535, pp. 225-248. Il testo dei capitoli è stato pubblicato anche da L. B. (sic) , Privilegi ad ebrei in Ancona nel 1535, Il Vessillo Israelitico (1917), pp. 7-11; pp. 61-63. Secondo il Rosenberg, i capitoli in questione non si riferirebbero ad un banco in A., ma nel territorio marchigiano, in quanto da vari documenti risulta che la famiglia Bonaventura aveva ottenuto il monopolio del banco per A., sino all’anno 1549. V. Rosenberg, H., Alcuni documenti, p. 311, n. 1.
[34] Rosenberg, H., Alcuni documenti, p. 310.
[35] Rosenberg, H., Saggio degli scritti in lingua ebraica degli eccellentissimi rabbini David Abraham Vivanti ed Isacco Raffaele Tedeschi, p. XLI.
[36] Ivi, pp. 306-309.
[37] Ciavarini, op. cit., pp. 14-15.
[38] Vedi Ha-Cohen, Y., Emeq ha-bakhah, Kraka 1895, p. 135; Ibn Yahya, G., Shalshelet ha-Qabbalah, Lemberg 1864, p. 185; Di Civitanova, B., Mi-Paulus IV ad Pius V (Ed. Sonne, I., Jerusalem 1954), pp. 39-40.
[39] Per i nominativi dei Marrani giustiziati, vedi Sonne, I., Une source nouvelle pour l’histoire des martyrs d’Ancône, in REJ, LXXXIX (1930), pp. 360-380; cfr. Kaufmann, D., Les martyrs d’ Ancône, in REJXI (1885), pp. 149-153; Id., Les 24 martyrs d’Ancône, REJ XXXI (1895), pp. 222-230; Simonsohn, S., Marranos in Ancona under Papal Protection, pp.234 e segg.
[40] Per questi e per ulteriori particolari circa la situazione commerciale, dopo l’arresto dei Marrani, v. Rosenberg, H., Alcuni documenti.., pp. 313-314.
[41] V. Grunebaum, P., Un épisode de l’histoire des Juifs d’Ancône ,in REJ XXVIII (1894), pp. 142-146.
[42] All’invio del delegato del sultano ad A. fece seguito l’invio di un messo degli Anziani di A. al papa, mentre il sultano, non avendo ricevuto risposta ordinava, nel marzo del 1556, di sequestrare i beni degli Anconetani nel Levante e dava inizio ad una iniziativa di vasta portata diplomatica, che coinvolgeva l’ambasciatore di Francia, il console di A. e il bajlo di Firenze, affinché facessero pressioni sui propri superiori per intervenire. Inoltre, il sultano stesso scrisse al papa nel 1556 e, poco più tardi, al governatore di A., minacciando di rifarsi dei danni dei suoi sudditi sul patrimonio degli Anconetani suoi sudditi.
Tutte le lettere menzionate giunsero a destinazione quando l’esecuzione del primo gruppo di Marrani era già avvenuta. Tra l’esecuzione del primo e del secondo gruppo di Marrani vi fu un’interruzione dovuta presumibilmente al fatto che il secondo gruppo non avrebbe confessato di essere stato battezzato in Portogallo; tuttavia, Paolo IV, con il Breve del 1556, decretò l’esecuzione dei Portoghesi, anche in assenza di confessione. L’ulteriore prolungamento dell’interruzione delle esecuzioni fu dovuto, secondo il Rosenberg, all’arrivo della lettera del sultano a Roma. Dopo che la risposta del papa al sultano fu pronta, ripresero le esecuzioni. Rosenberg , H., Alcuni documenti, pp. 313-323; Toaff, A., Nuova luce sui Marrani di Ancona (1556), pp. 265 – 280.
[43] Il rabbino di A. , Mosheh Basola, preoccupato per la sorte precaria degli Ebrei italiani di A., ne condusse l’opposizione al boicottaggio, appoggiato dal rabbino Yehoshua Soncino, a capo della comunità ebraico-italiana a Costantinopoli, mentre il rabbino Yosef ben Leb difendeva la causa dei Marrani ed altri , come il rabbino Mosheh da Trani tenevano una posizione di mediazione tra le parti in conflitto di interessi.
[44] Vedi Toaff, A., op. cit., p. 267 e segg.; cfr. Kaufmann, D., Les Marranes de Pesaro et les représailles des Juifs levantins contre la ville d’Ancône in, REJ XVI (1888), pp. 61-72; Id., Deux lettres nouvelles des Marranes des Pesaro aux Levantins, in REJ XXXI (1895), pp. 231-239. Per ulteriori particolari relativi alla situazione creatasi a Pesaro, si veda il presente lavoro alla voce Pesaro.
[45] Ciavarini, C., op. cit., pp. 18-19.
[46] Gli Statuti Anconetani dell’epoca mostrano nei confronti degli ebrei un atteggiamento conforme alla volontà papale : nessun cristiano avrebbe potuto essere perseguito giuridicamente per debiti dietro richiesta del prestatore ebreo, che avrebbe potuto solo rivalersi sui beni dei debitori, a norma di statuto cittadino; agli ebrei era proibito prendere l’iniziativa di parlare con il podestà e con i suoi funzionari; durante la Settimana Santa, gli ebrei avrebbero dovuto rimanere chiusi in casa (ai cristiani, d’altro canto, veniva proibito di molestarli); agli ebrei era proibito lavorare durante le festività cristiane; agli ebrei era proibito vendere derrate alimentari ai cristiani e macellare ritualmente la carne nella beccheria di Ciavarini, C., op. cit.,pp. 20-22.
[47] Ivi, pp. 22-23. La comunità di A., costretta a pagare anche per le sedici comunità scomparse per il decreto papale, rifiutò per sedici anni di pagare la sua quota alla comunità romana. Ne sorse un contenzioso, protrattosi fino al 1581, quando le due comunità raggiunsero un accordo in materia. Ivi, p. 23.
[48] Dejob, C., Documents tirés des papiers du cardinal Sirleto et de quelqus autres manuscrits de la Vaticane, p. 78.
[49] Ciavarini, C., op, cit., pp. 24-25.
[50] Ivi, pp.25-26.
[51]Sacerdote, G., Deux Index expurgatoires des livres h ébreux, p. 278.
[52] Ciavarini, C., op. cit., p. 28.
[53] Loeb, I., Un Mémoire de Laurent Ganganelli sur la calomnie du meurtre rituel, p. 183.
[54] Cassuto, U., E.J., sotto la voce“Ancona”.
[55] Perugini, S., op. cit., p. 107.
[56] Ciavarini,C., op. cit., p. 29; p. 31.
[57] Ivi, p. 29.
[58] Laras, G., Notizie storiche e prammatica degli Ebrei di Ancona nel sec. XVIII, p. 89.
[59] Il segno giallo andava portato sia fuori che dentro il ghetto: gli uomini avrebbero dovuto cucirlo sopra il cappello, le donne avrebbero dovuto portarlo in capo scopertamente, senza mettersi sopra il fazzoletto o altra cosa (Ciavarini, C., op. cit., p. 31).
[60] Inoltre, all’inizio del XVIII secolo, gli ebrei d’origine italiana risultavano in lite con quelli levantini, che, in numero crescente, venivano a smaltire le loro merci ad A., pregiudicando la situazione economica dei primi: pertanto, il Buon Governo faceva applicare nei confronti delle merci importate dai Levantini la tassa del 25%, fissata a suo tempo da Alessandro VII (Laras,G., Notizie storiche e prammatica, p. 88.
[61] Ivi, pp. 32-33. Nonostante, le spese che gravavano la comunità ebraica, i suoi membri più abbienti sembravano esservi adeguati al fasto di moda all’epoca. Pertanto, dal 1793 al 1796 rimase in vigore una Prammatica emessa dai Deputati della comunità per contrastare il lusso eccessivo, nell’intento di frenare le spese superflue e rimpinguare le finanze comunitarie. I 28 capitoli della Prammatica riguardavano il divieto di vesti sfarzose, ornamenti preziosi e gioielli di valore per uomini e donne (per i membri della comunità levantina le disposizioni erano meno severe), nonché il divieto di offrire ricevimenti suntuosi in occasione di matrimoni, circoncisioni ecc.
I trasgressori sarebbeo stati puniti dalla “scomunica” rabbinica e dalle pene del caso, previste dal vescovo (Laras, G., Notizie storiche e prammatica, pp. 92-97.
[62] Ashtor, E., op. cit., pp. 343-347.
[63] Ivi, p. 348.
[64] Vedi Ashtor, E., op. cit., pp, 352-353.
[65] Ivi, p. 334; pp. 355-356.
[66] Ivi, pp. 356-357.
[67] Bonazzoli, V., op. cit., p. 155, n. 54.
[68] Ivi,pp. 141-142.
[69] Radin, M., op. cit., p. 241; cfr. Rosenberg, H., Alcuni documenti, p. 311, n. 1.
[70] Ciavarini, C., op. cit. , pp. 14-15.
[71] Ivi, p. 25.
[72] Ivi, p. 28.
[73] Perugini, S., op. cit., p. 104.
[74] Ciavarini, C., op. cit., p. 19.
[75] Ivi, pp. 338-339.
[76] Rosenberg, H., Alcuni documenti, p. 310.
[77] Ciavarini,C., op. cit., p. 19.
[78] Ivi, p. 22.
[79] Beloch, K.J., Bevölkerungsgeschichte Italiens, II, Berlin 1939, p. 77.
[80] Ashtor, E., op. cit., pp. 340-341.
[81] Perugini, S., L’Inquisition romaine et les Israélites, p. 95.
[82] Ciavarini, C., op. cit., p. 25. In una bolla del 1604, Clemente VIII, divenuto più benevolo verso gli ebrei sul finire della vita, emise provvedimenti per venire incontro alle lamentele ebraiche riguardo alle angherie dei proprietari di case nel ghetto, stabilendo che non potessero venire cacciati dai proprietari di case cristiani e che non venissero aumentati gli affitti delle abitazioni del ghetto; inoltre, concesse agli ebrei di apportare migliorie alle case, purché non venissero alterati i “prospetti ” delle case stesse e non vi venissero fatti danni. Così facendo, Clemente VIII veniva a riconoscere il principio giuridico ebraico noto come ius cazacà, introducendolo di fatto se non ancora di nome nella sua legislazione. Per questo dato e per una più approfondita analisi dell’argomento, vsi veda Laras, G., Intorno al ‘ius cazacà’ nella storia del ghetto di Ancona, in Quaderni storici delle Marche, 7 (1968), pp. 27-55.
[83] Ciavarini, C., op. cit., pp. 5-6; Sori, E., Una ‘comunità crepuscolare’: Ancona tra Otto e Novecento, p. 196.
[84] Ciavarini, C., op. cit., p. 341: la data della demolizione della sinagoga indicata dal Ciavarini (1505) risulta errata; per questo particolare e per la ricostruzione della sinagoga in via Astagno, si veda Rosenberg, H., Alcuni documenti riguardanti i marrani portoghesi in Ancona, p. 310, n. 2. Cfr. Ciavarini, C., op. cit., p. 4. Per la descrizione della sinagoga di via Astagno, si veda Elia, R., Ricordi del tempio di Ancona, in Scritti sull’ebraismo in memoria di Guido Bedarida, Firenze, 1966, pp. 71-75.
[85] Ashtor, E., op. cit., p. 341.
[86] Ciavarini, C., op. cit., p. 12.
[87] Rosenberg, H., Alcuni documenti, p. 310, n. 2.
[88] Ivi, p. 310, n. 2; Ciavarini, C., op. cit., pp. 17-18.
[89] Nel Campo della Mostra furono uccisi , nel 1556, gli ebrei d’origine portoghese che non avevano abiurato.
[90] Laras, G., Il cimitero di Monte Cardeto ad Ancona, pp. 154-155 ; Ciavarini, C., op. cit.., pp. 8-9.
[91] Rosenberg, H., Alcuni cenni biografici di rabbini e letterati della comunità israelitica di Ancona, p. XX.
[92] Per ulteriori particolari sulle due figure in questione e sulla causa di divorzio summenzionata, vedi ivi, p. XXI.
[93] Ivi, p. XXII. Alla fine del secolo XIV o al principio del XV visse quel Menakhem da A., che viene menzionato nel Miqdash Meat di Mosheh da Rieti. (Ivi, p. XXIII).
[94] Ivi, p. XXIII.
[95] Ivi, pp. XXV- XXXII.
[96] Ivi, pp.XXXVII-XXXVIII.
[97] Ivi, pp. XLII-XLIII.
[98] Ivi, p. XLVII.
[99] J.E., alla voce. “Amatus Lusitanus”.
[100] Vedi Toaff, A., op. cit., p. 275 e segg. ; Mortara, M., Indice Alfabetico dei Rabbini e Scrittori Israeliti di Cose Giudaiche in Italia, p. 6.
[101] Per ulteriori particolari sull’atteggiamento dei rabbini rispetto all’opera summenzionata del de’ Rossi, si veda Kaufmann, D., Contributions à l’histoire des luttes d’Azaria de Rossi, p. 79.
[102] Mortara, M., Indice, p. 3; p. 14; p. 21. Altri rabbini e dotti di un certo rilievo sono: Mosheh Pesante, Mikhael Semat, Shlomo ibn Attar, Yaaqov ibn Habib, Gayyim Treves, Yaaqov Bechnin (Bekhnin); Aharon ha-Kohen, Yosef Abiob; Yehudah Ardutiel. Vedi Cassuto, U., E.J., alla voce “Ancona”.
[103] Mortara, M., op. cit., p. 21; E.J., s.v. “Fermo, Josef ben Nissim”.
[104] Mortara, M., op. cit., p. 13; J.E., s.v. “Mahalalel ben Shabbetai Hallelyah”.
[105] Mortara, M., op. cit., p. 52.
[106] Ivi, p. 60 ; p. 21; Castiglione, V., The Jewish Encyclopedia (New York and London), alla voce“Ancona”.
[107] Mortara, M., op. cit., p. 7; p. 41; p. 60; p. 67; p. 68; p. 70.-
[108] Castiglione, V., The Jewish Encyclopedia (New York and London), s. v. “Ancona”; Mortara, M., op. cit., p. 22; p. 42; p. 21; p. 5; p. 62. Altri rabbini e dotti del XVIII secolo sono: Yaaqov ha-Kohen, Yehiel di Yaaqov ha-Kohen, Mosheh Gayyim Shabbetay Morpurgo, Shabbetay di Mordekhai Panzieri, Yitzhaq di Abraham Alconstantini, Daniel di Mosheh Nahmani, Efraym di Yonah Nabon, Ytzhaq Gay Musatti, Eliyahu di Mosheh da Vigevano, Yosef di Yaaqov Montefiore, Yehiel ha-Kohen, Efraim ha-Kohen e Mosheh da Foligno. Cassuto, U., E.J., s.v. “Ancona”.