Portobuffolè

Titolo

Portobuffolè

Testo

Provincia di Treviso. Distante 36 km dal capoluogo e sito nei pressi del fiume Livenza, corrisponde al Castellarium Portus Buvoledi, menzionato per la prima volta in un documento del 1242: tale nome deriva, presumibilmente, dal termine bova, che stava ad indicare "canale", "acquedotto" o "fossa" nel basso latino locale. Dopo il 1419 P. fece parte della Repubblica di Venezia[1] e, nella seconda metà del XV secolo, fu una podesteria di una certa importanza, cui facevano capo una quindicina di ville circostanti. Fu in questo periodo che un Nobile, membro del Consiglio Maggiore e designato dalla Signoria, venne inviato da Venezia a governare, con il titolo di podestà, restando in carica per 16 mesi, affiancato da un civico Collegio, composto dai maggiorenti: tuttavia, diversamente da quanto accadeva altrove, al Consiglio di P. potevano accedere anche i popolani, purché avessero compiuto i 25 anni di età[2].

Un nucleo ebraico, d'origine tedesca, era giunto a P. verso il 1430, provenendo da Colonia a seguito dell'espulsione del 1424, e si era insediato nella zona vicino a Porta Friuli, dove si trovava anche la sinagoga[3].

Il titolare del banco dei pegni locale era, tuttavia, d'origine trevigiana, e rispondeva al nome di Mosé figlio di Davide da Tarvisio (Treviso) ed aveva come socio nella gestione il correligionario Servadio[4]. La condotta quinquennale stipulata con Mosé, oltre alle concessioni consuete dell'epoca (quali l'avere una sinagoga, un cimitero, e cosi via), statuiva che al Comune dovessero essere concessi prestiti fino a 100 ducati senza interesse e che i feneratori non potessero rifiutarsi di prestare denaro su pegni inferiori a 10 ducati sino ad un valore complessivo di 800. In caso di rifiuto di tale prestito per più di due giorni lavorativi consecutivi, essi avrebbero dovuto pagare una multa di 10 ducati, di cui la metà sarebbe stata devoluta al podestà. Il tasso di interesse stabilito era del 12,5% annuo, ma, poiché il sistema di fissare l'interesse era per mese o per frazione di mese di calendario, vi era la possibilità di giungere, abusivamente, al 29%[5].

Nel 1480, durante il periodo pasquale, un mendicante forestiero di circa sei o sette anni era stato visto aggirarsi per P. e, in seguito, era sparito. La sua scomparsa aveva provocato fermento tra la popolazione, che la associava all'omicidio rituale (sull'esempio di quanto era successo a Trento, cinque anni prima). Alla presunta vittima degli ebrei era stato attribuito il nome di Sebastiano Novello, ispirato a sua volta dal corpo trafitto di Simone di Trento, a somiglianza del martirio di San Sebastiano[6].

Il podestà di P., Andrea Dolfin, mosso dall'opinione pubblica, fece arrestare i capifamiglia ebrei e mise agli arresti domiciliari gli altri membri del nucleo locale. Dai nominativi di quanti vennero sospettati di essere implicati nell'omicidio rituale, si ricavano informazioni su quest’ultimo, dal momento che gli arrestati furono: il feneratore Servadio, detto l'archisinagogo, Mosè, il titolare del banco, e Giacobbe del fu Simone da Colonia, tedesco. Furono messi agli arresti domiciliari: Sara, moglie di Servadio - con i figli e il loro precettore Fays e con il servo Donato - e Rebecca, moglie di Mosè. Furono dichiarati latitanti altri quattro ebrei, che non erano stati trovati: Lazzaro, fratello di Mosé, Cervo tedesco, cognato di Mosé e di Lazzaro, Giacobbe, detto Barbato, ed Elia francese[7].

Per garantire la legalità del processo fu fatto venire da Treviso un notaio ai malefizi[8]: dalla relazione, inviata nell'aprile 1480, dal podestà di P. alla Signoria, insieme ai verbali del processo contro Servadio, Mosè e Giacobbe, risulta che, sotto tortura, essi avevano confessato, poi ritrattato e, infine, ripetuto la confessione, ratificata davanti al tribunale locale che li aveva condannati a morire, uno bruciato vivo, un altro squartato da quattro cavalli e il terzo sagittato[9]. Data l'animosità popolare che il caso stava suscitando, il podestà chiedeva l'intervento della Signoria[10].

Dalla confessione degli imputati risultava che l'omicidio rituale era stato premeditato sin dalla festa dei Tabernacoli[11], ma essi fecero ricorso contro la sentenza all'Avogaria di Venezia. Sembra che la crudeltà e la diversità delle pene comminate ai tre avesse reso evidente al Senato veneziano l'origine popolana dei giudici di P., screditando l'immagine della Repubblica: pertanto, fu inviato da Venezia l'Avogador de Comun, accompagnato da un notaio dell'Avogaria, per svolgere un supplemento d'inchiesta[12].

Dal rapporto dell'Avogador de Comun a Venezia, oltre alla legalità del processo, risultava che gli imputati, sottoposti ulteriormente a tortura, avevano ratificato le confessioni originali. Era stato, inoltre, arrestato anche tale Donato, che, convertitosi nel frattempo al cristianesimo con il nome di Sebastiano, era uno dei principali accusatori degli ebrei. Sara e Rebecca, mogli dei principali imputati, interrogate e torturate, erano riuscite, tuttavia, a mostrare la loro estraneità ai fatti. L'Avogador, trovato qualche indizio a carico di tre ebrei di Treviso – Giacobbe del fu Abramo, detto il Grande, padre di Salomone di P., Davide del fu Viviano, padre di Mosè di P., e Leone, fratello di Mose di P.[13] - suggerì di arrestarli e trasferirli a Venezia. Con il pretesto di istruire un nuovo processo unificato, anche gli ebrei di P. avrebbero potuto essere trasferiti a Venezia, consentendo alla Signoria di non accettare supinamente il verdetto del tribunale popolare di P.[14]: pertanto, gli ebrei di P. e quelli di Treviso vennero condotti in gran segreto a Venezia e tradotti nelle carceri di Palazzo Ducale[15].

In seguito ad un bando che intimava loro di presentarsi entro otto giorni, tre dei quattro latitanti (Lazzaro, Cervo e Giacobbe Barbato) si presentarono spontaneamente e furono incarcerati. I primi due, sebbene torturati, negarono ogni addebito, mentre il terzo rese una confessione dei fatti del tutto differente da quella degli altri imputati di P., con il rischio di inficiare l'accusa. Suicidandosi in cella, Giacobbe, tuttavia, provocò involontariamente il proseguimento senza intoppi del processo, data l'eliminazione, mortis causa, delle scritture relative alla sua istruttoria[16]. Nonostante la difesa degli ebrei da parte di avvocati dello Studio di Padova, i Senatori condannarono i presunti infanticidi[17]. Così, ai rei confessi, Servadio, Giacobbe e Mosè, fu comminato il rogo, mentre a coloro che non avevano confessato, Lazzaro e Cervo, furono comminati due anni di carcere orbo, seguito dal bando perpetuo da tutti i domini della Repubblica (pena il carcere orbo a vita, qualora fossero stati scoperti in territorio veneziano). Anche il neofita Sebastiano, alias Donato, fu condannato ad un anno di carcere orbo, seguito da bando perpetuo.

Il servo di Mosè, Salomone, e il precettore dei figli di Servadio, Fays, accusati di complicità, ma non di diretta partecipazione all'omicidio, vennero condannati ad un periodo di carcere orbo e ad alcuni anni di bando. Elia francese, latitante, fu condannato al bando perpetuo[18].

Nel luglio del 1480 vennero eseguite, a S. Marco, le tre condanne a morte[19], ma non é rimasta documentazione della sorte dei tre ebrei trevigiani arrestati, così come non vi é ulteriore cenno ad una presenza ebraica a P.

Bibliografia

Maimon, A. (a cura di) Germania Judaica, Tübingen 1987.

Manzini, V., La superstizione omicida e i sacrifici umani, Padova 1930.

Radzik, S.G., Portobuffolè, Firenze 1984.


[1] Radzik, S.G., Portobuffolè, p. 12.

[2] Tentori Spagnuolo, C., Saggio sulla Storia civile, politica, ecclesiastica degli Stati della Repubblica di Venezia ad uso della nobile e civile gioventù, Venezia (presso Giacomo Storti), 1790; Sandi, V., Principj di storia civile della Repubblica di Venezia (vol. II), Venezia (presso Sebastiano Coleti), 1756, citati in  Radzik, S.G., op. cit., p. 15.

[3] Radzik, S.G., op. cit., p. 14;  p. 16. Sull'espulsione da Colomia, cfr. Maimon, A. (a cura di) Germania Judaica, III/1 (1350-1519), alla voce "Köln", p. 640.

[4] Il Radzik lo presenta come originario di Colonia. Cfr. Radzik, S.G., op. cit., p. 16.

[5] Ivi, p. 29, nota 1.

[6] Ivi, p. 34.

[7] Ivi, p. 40.

[8] Per le modalità dell'istruttoria, secondo la normativa veneziana, ivi compreso l'uso della tortura, cfr. ivi, pp. 41-43. La formula del giuramento, cui era tenuto l'imputato rebreo, pronunciata da Servadio era: “Io Servadio che sono ebreo giuro sul padre onnipotente Sabaot e sul Dio che apparve a Mose nel roveto e sul Dio Adonai padre e sul Dio Eloi che se sono colpevole o spergiuro io possa essere disperso fra gente nemica e morire in terra nemica e m'inghiotta la terra come Datan e Abiram e mi colga la lebbra come il siro Naaman e sia fatta deserta la mia casa e ricadano sul mio capo tutti i miei peccati e quelli dei miei avi e tutte le maledizioni scritte nella legge di Mosè e dei profeti e rimangano su di me e che Dio mi maledica ad esempio di tutti." Ivi, p. 44. Per un'altra formula di giuramento per gli ebrei dell'epoca, cfr. ivi, pp. 45-46.

[9] In una cronaca dell'epoca cosi viene riportata la condanna dei tre zudei: che uno sia rostido, uno infrezado e il terzo squarta da quatro cavali Malipiero, Annali Veneti, 1480, citato in Manzini, V., La superstizione omicida e i sacrifici umani, p. 118.

[10] Ivi, p. 55.

[11] Per la descrizione particolareggiata, in lingua latina, della confessione estorta agli ebrei, per il trattamento giuridico del caso e le condanne comminate a Venezia, cfr. Archivio di Stato Venezia, Reg. 3655 dell'Avogaria de Comun- Anno 1480- Aut. 2727/V.9, cc.34 r-36v., citato in Radzik, S.G., Documenti, p. 106.

[12] Ivi, p. 60. Per lumeggiare le delicate circostanze storiche in cui si inseriva il caso di P., va ricordato che, il 25 aprile, il Senato veneziano aveva approvato la conclusione della Lega contro il turco, trattata a Roma tra Sisto IV e il cardinal Forscarini, in nome di Venezia. In quel periodo, inoltre, era a Venezia Bernardino da Feltre, ripartito il 3 maggio per Treviso. Cfr. ivi, p. 61.

[13] Ivi, p. 65.

[14] Ivi, pp. 62-63.

[15] Ivi, p. 65.

[16] Ivi,  pp. 68-69.

[17] Per i particolari della difesa da parte degli avvocati degli ebrei (due per ogni imputato) e per le argomentazioni dell'accusa, cfr. ivi, pp. 70-71.

[18] Ivi, pp. 72-74.

[19] Ivi, pp. 79-82. Per la descrizione dell'esecuzione , cfr. Manzini, V., op. cit. p. 118. Poiché nel registro dei giustiziati di Venezia non figura tale esecuzione, il Manzini riteneva che essa non fosse certa; il dubbio a questo proposito viene fugato dal documento citato dal Radzik. Cfr. Manzini, V.,  op. cit.,  nota 2 e Radzik, S.G., op. cit., p. 106.

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