Crema

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Crema

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Provincia di Cremona. Posta sulla sponda sinistra del Serio, affluente dell'Adda, dopo essere stata lacerata, nell' ultimo trentennio del secolo XIII, dalle lotte tra guelfi e ghibellini, C. passò sotto il dominio visconteo, ma, dopo la morte di Gian Galeazzo, si dichiarò libera, cadendo prima nelle mani dei fratelli Paolo e Bartolomeo Benzoni (1403) e poi, del loro cugino Giorgio, eletto nel 1413 vicario imperiale in questa città da Sigismondo, re dei Romani. Il Benzoni tenne la signoria di C. per nove anni come signore e, per oltre un decennio, come vassallo del Duca di Milano, Filippo Maria Visconti, che, nel 1414, lo creò conte di C. e di Pandino. Guastatisi i rapporti con il Duca, il Benzoni dovette fuggire a Venezia. Alla morte di Filippo Maria, C. si diede ai veneziani, ai quali fu formalmente ceduta da Francesco Sforza nel 1454. Fu occupata dai Francesi dal 1509 al 1512 e, nel 1514, ritornò sotto il dominio di Venezia rimanendovi fino al 1797.

Il primo documento ritrovato finora in cui viene attestata una presenza ebraica a C. risale all'incirca al 1445, quando il Duca, condonando a tutti gli israeliti la pena per tutte le trasgressioni commesse, menzionava, tra gli altri, anche Leone e Salomone, residenti a C. Due anni dopo, le autorità milanesi acconsentivano alla richiesta degli ebrei di C. di confermare la loro condotta con il Comune (a seguito di precedente accordo con il defunto Duca Filippo Maria Visconti), firmando i patti con Leo del fu Vidale, Salomone del fu Lazzaro, Giuseppe del fu Hebrahe, di origine tedesca, e Bonaventura del fu Mosci. Dandosi a Venezia, nel 1449, C. incluse nel documento attestante la resa anche un articolo, il V, che recitava: Che tutti gli Zudei che stanno in la dicta terra de Crema siano salvi per lor persone et per li pegni quali hanno apresso de loro, et sia de chi se vogia, et tractati come li cittadini de Crema[1].

Le autorità veneziane concessero una condotta decennale, a partire dal 1450, agli stessi feneratori firmatari dei patti del 1447 con il Comune di C., dividendo tra loro i due banchi cittadini. Esse si impegnarono, inoltre, a garantire l'incolumità ebraica, stabilendo la parità di trattamento con gli altri cittadini, anche in caso di epidemia, e concessero agli ebrei di seppellire i loro morti in un campo sito fuori città, come pure di acquistare carne dai becharii allo stesso prezzo praticato ai cremaschi. L'unica discriminazione fatta, rispetto ai cristiani, riguardò la Settimana Santa, durante la quale gli ebrei non dovevano lasciare le loro abitazioni, pena una multa. Inoltre, a loro carico, venne inviato a protezione delle case un soldato, che doveva essere affiancato da due persone della famiglia.

Gli ebrei, dal canto loro, compensarono con 60 lire imperiali il Comune di C. per averli esonerati a quibuscumque angariis, oneribus realibus et personali bus, imposti agli altri cittadini, ivi compresa l'ospitalità agli stipendiarii, inviati da Venezia.

Nel 1450 il Duca di Milano concesse un lasciapassare e il diritto di portare armi a Giuseppe e Bonaventura di C.

Nel 1459, avvicinandosi la scadenza della condotta, furono aperte le trattative tra il Consiglio generale del Comune e gli ebrei, in vista del rinnovo dei patti, cosa cui si pervenne, a condizione che i secondi portassero il segno distintivo e abbassassero il tasso di interesse richiesto. Nel 1460, così, Leone, Salomone e Giuseppe firmarono la nuova condotta, che implicava il pagamento annuale di 60 lire imperiali al Comune e il prestito alla città di 50 ducati per 4 mesi senza interesse (d'altro canto, gli ebrei avevano ottenuto un rialzo del tasso d'interesse praticabile).

Nel 1464 risultava essersi recato a C., abbandonando  Gravedona, per paura di essere arrestato, il medico Angelo da Cesena.

Dopo nuove e laboriose trattative per il rinnovo della condotta, iniziate nel 1468, venne raggiunto un accordo tra i feneratori e la città, basato sull'accettazione del tasso d'interesse stabilito dalle autorità e sul pagamento del censo annuo di 80 lire. Gli ebrei non ottennero, però, l'auspicato permesso per la costruzione di una sinagoga, mentre fu loro concesso di organizzare degli oratori in case private.

Nel 1476 il Duca di Milano intervenne con il podestà di C. per aiutare Benedictus (Baruch) di Como a recuperare i propri crediti con Isacco e Abramo di C.: quest’ultimo fuggì a Lodi, dove fu arrestato e poi rilasciato su cauzione dei banchieri lodigiani.

Nel 1479 il Comune, dopo aver preso provvedimenti tesi ad evitare la connivenza tra la Camera dei pegni e gli ebrei ed aver deliberato di portare a C. banchieri disposti a fenerare ad un tasso minore di quello praticato dai firmatari della condotta precedente  (Isacco e Salomone), fu costretto a ritornare sulla propria decisione, stipulando con costoro nuovi patti, più restrittivi.

L'instaurarsi, ora, di un clima poco favorevole al prestito ebraico viene confermato anche da una ducale del 1479, in cui veniva concesso agli ebrei di risiedere a C., ma non di fenerare, fermo restando, tuttavia, l'obbligo di attenersi alle norme stabilite precedentemente in materia, se, ad onta del divieto, si fossero trovati a esercitare il prestito.

Da un documento del 1483 risultava risiedere allora a C. Magister Giuseppe, che intervenne per arbitrare una disputa tra Magio e fratelli e Salomone di Spira[2].

Nel 1487 i fratelli Leone e Madio, venuti a C. per una controversia con il medico Magister Leone, protestarono contro l’arresto ad opera delle autorità locali, che furono esortate a rilasciarli, in virtù delle relazioni amichevoli tra il Ducato di Milano e la Repubblica veneta.

Nel 1489, allo scadere della condotta, furono stipulati nuovi patti, che ribadivano i punti salienti di quelli del 1479: in particolare, l'esercizio del prestito non era più ammesso ufficialmente, ma, se praticato in via ufficiosa, doveva subire la limitazione del tasso d'interesse che era stata stabilita. Inoltre, venne imposto l'obbligo del segno, pena la multa di 20 soldi imperiali, a tutti gli ebrei, tranne Isacco e Leone, in quanto conosciuti. Infine, la vendita della carne macellata dagli israeliti era consentita, solo se contrassegnata in modo speciale.

Quanto ai firmatari dei nuovi capitoli, essi furono: Leone di Magister Bonaventura e Isacco, con i relativi soci, che potevano sostituire a proprio libito, previa comunicazione al cancelliere comunale, come, in effetti, avvenne poco più tardi.

Nel 1490 il Comune impose agli ebrei, concessionari dei banchi esclusi, il pagamento di 300 ducati d'oro, come partecipazione alle spese per i nuovi lavori di fortificazione della città. Nonostante le restrizioni cui erano sottoposti, dai documenti risulta che a C. abitava, all'epoca, magna copia ebreorum merchabilium et negotinatorum, dediti ad arricchirsi, cum gravissima iactura et damno populi[3].

Le autorità cittadine, mentre non potevano fare a meno, in quegli anni, della presenza ebraica nel campo del prestito, cercavano in tutti i modi di ostacolarla nel commercio e, pertanto, allo scopo di contenere il numero degli ebrei attivi a C., proibirono il trasferimento nella città di quanti non avessero una speciale licenza.

Nonostante la creazione del Monte di Pietà, nel 1492, gli israeliti continuarono clandestinamente l'attività feneratizia, ad un tasso più alto di quello praticato in precedenza, dato che la normativa particolare del Monte era tale da renderli comunque necessari all'economia locale.

Sebbene l'espulsione degli ebrei (esclusi i concessionari dei banchi) fosse stata richiesta ufficialmente al doge, non sembra che essi abbandonassero la città, dato che un documento del 1496 riferisce che in dies in terra Creme eiusque agro et numerus augeata et multiplicentur usure[4]. Nel 1498, tuttavia, venne presa la decisione di non riconfermare il diritto di risiedere nella città, approvata dal governo veneziano nel 1499.

Nel contesto dei rapporti tra cremaschi ed ebrei è rilevare che, in una predica del 1493, Bernardino da Feltre aveva lamentato la grande familiarità che, in determinate occasioni, sembrava caratterizzarli, concludendo e ognuno oggi liberamente nelle sue infermità si serve di medici ebrei [...][5].

L'appello rivolto, nel 1496, al Duca di Milano dalla popolazione di Pizzighettone, affinché il feneratore locale, Calamano, trasferitosi a Montodine, potesse tornare per qualche tempo per consentire il riscatto dei pegni, menziona il bando intimato dal rettore di C. a tutti gli ebrei, compreso Calamano (eccezion fatta per due banchieri, che erano capifamiglia) e il proclama secondo cui gli espulsi non avrebbero potuto risiedere né nel Ducato di Milano né nel territorio sotto il dominio veneto[6].

Tra il 1498 e il 1499 Magister Salomone Gallico ricevette il permesso di portare a C. alcuni copisti per copiare i testi che intendeva tradurre dall'ebraico in latino per il Duca Ludovico Maria Sforza. Acquistava testi per Magister Salomone un mercante ebreo residente a C., Salomone di Mosè di Castelleone, munito allo scopo di lasciapassare ducale per viaggiare nel il Ducato e negli altri Stati italiani.

Dopo un intervallo di trentacinque anni, troviamo una traccia della presenza ebraica a C. nel 1534, quando tale Salomone di Ripalta - indicato come residente - chiese il permesso ducale per recarsi a Milano ad assistere all'ingresso della Duchessa, pregando concedermi poter veder quelo ilucentissimo et felicissimo zorno che sara la intrata dela ill.ma sig.ra ducesa, la qual zornata hio disiderata de veder tuto il tempo de mia vita...[7].

Un altro accenno alla presenza ebraica risale, poi, a un documento del 1542 e, oltre dieci anni dopo, si trova un'ulteriore traccia, quando, tra gli incriminati nel 1553 per aver infranto il divieto di soggiornare più di tre giorni a Milano e di fenerarvi, figurava anche tale Moise Levi povero fiolo de familia , gravato de moglier et de molti picenini filioli[8] che risiedeva sino ad un anno e mezzo prima a C., da dove si era poi trasferito ad Abbiategrasso. Con questo, si chiudono i documenti sulla presenza ebraica a C.[9].

Attività economiche

Gli ebrei di C. erano dediti all'attività feneratizia della quale, dopo il passaggio sotto il dominio di Venezia, detennero il monopolio con l'appoggio del governo, che penalizzava con una multa la concorrenza abusiva. L'interesse che essi erano autorizzati a percepire non poteva superare i 6 denari imperiali mensili per  lira imperiale per i Cremaschi e gli 8 denari imperiali per i forenses (toccando, cioè, il 30% e il 40%). Dato che il tasso era fissato per mesi, venivano prese particolari disposizioni per stabilire l'interesse relativo ai giorni.

Per i feneratori che avessero aumentato abusivamente l'interesse era prevista una multa onerosa, che sarebbe stata spartita tra la Camera del Comune e l'accusatore. Quanto ai pegni, esisteva una minuta normativa in caso che fossero d'origine furtiva o che sparissero con o senza connivenza del feneratore: in ogni caso, era proibito accettare in pegno arredi sacri.

L'attività dei banchi poteva essere esercitata in qualunque giorno, salvo le feste comandate secondo gli statuti della città, pena una multa. Infine, tutte le annotazioni delle operazioni legate al credito dovevano essere sottoposte al controllo dei racionatores communis Creme e, a questo scopo, i libri contabili andavano tenuti in littera latina[10].

Il rapporto economico tra gli ebrei ed il Comune, nel corso del tempo, si era venuto caratterizzando come improntato ad una forma diretta, in quanto gli stessi consoli potevano impegnare presso i prestatori i beni pignorati ai debitori della Camera del Comune, purché, come era stato deciso dal Consiglio generale nel 1451, il denaro servisse per spese di pubblica utilità e non per il loro proprio pagamento.

Gli ebrei erano anche attivi nel commercio dei pegni non riscossi e, a questo proposito, si registrò, nel 1454, il primo attrito con il Consiglio generale del Comune che, a partire da questo anno, stabilì che i pegni non riscossi avrebbero dovuto essere venduti all'asta da un pubblico ufficiale, incaricato dalla Repubblica di Venezia, rifondendo agli ebrei il capitale, l'utile e le spese d'incanto, mentre l'eventuale sovrappiù sarebbe andato al proprietario del bene. Nel 1455, tuttavia, le autorità veneziane ed i feneratori cremaschi giunsero all'accordo, secondo il quale l'intromissione del governo nella vendita dei pegni veniva limitata, reintegrando i prestatori nel loro diritto al possesso degli stessi, tramite la concessione dell'opzione di metterli o meno all'incanto.

Con la stipula della nuova condotta, nel 1459, gli ebrei, dopo aver vinto molte resistenze da parte del Consiglio del Comune, ottennero di poter prestare all'interesse del 25% annuo e lo stesso tasso rimase dopo le trattative per il rinnovo della condotta del 1468 e del 1479.

I rapporti tra ebrei e Camera dei pegni del Comune si erano protratti per decine d'anni, giungendo (nel 1451) alla regolamentazione dell'abitudine dei consoli cremaschi di impegnare presso i feneratori i beni loro giunti per finanziare la spesa pubblica. Verso il 1479, dopo che si erano rilevati numerosi guadagni illeciti da parte dei funzionari incaricati dei pignoramenti, con verosimile passaggio dei pegni in possesso ebraico, vennero, però, presi ulteriori provvedimenti di controllo sulla Camera dei pegni.

Con il rinnovo della condotta del 1489 il tasso massimo consentito fu abbassato al 20%, ma, anche dopo l'istituzione del Monte di Pietà, l'attività feneratizia ebraica continuò clandestinamente addirittura al tasso del 30% o del 40% annuo[11].

Bibliografia

Albini Mantovani, G., La comunità ebraica in Crema nel sec. XV e le origini del Monte di Pietà, in Nuova Rivista Storica LIX (1975), pp. 378-406.

Colorni, V., I da Spira avi dei tipografi Soncino e la loro attività nel Veneto e in Lombardia durante il secolo XV, in Tamani, G. ( a cura di) I tipografi ebrei a Soncino 1483-1490, Soncino 1989, pp. 58-108.

Segre, R., Gli Ebrei lombardi nell'età spagnola, Torino 1973.

Simonsohn, S., The Jews in the Duchy of Milan, 4 voll., Jerusalem 1982-1986.


[1] Simonsohn, S., The Jews in the Duchy of Milan, I, doc. 68.

[2] Su Magister Giuseppe, cfr. Colorni, V., I da Spira avi dei tipografi Soncino, p. 80, nota 77.

[3] Albini Mantovani, G., La comunità ebraica in Crema,  p. 400.

[4] Ivi, p. 401.

[5] Sforza Benvenuti, F., Storia di Crema, vol. I, p. 296, doc. C., citato in Albini Mantovani, G., op. cit., p. 404.

[6] Simonsohn, S., op. cit. II, doc. 2250.

[7] Simonsohn, S., op. cit., II, doc. 2447.

[8] Segre, R., Gli ebrei lombardi nell'età spagnola, p. 27.

[9] Albini Mantovani, G., op. cit., pp. 385-386; pp. 392-394; p. 397; p. 398; p. 399; p. 400; p. 401; p. 406; Simonsohn, S., op. cit., I, doc. 42, 48, 68, 76, 1618, 1623; II, doc. 2078, 2097, 2157, 2242, 2250, 2275, 2278, 2289, 2447, 2496, 2501.

[10] Albini Mantovani, G., op. cit.,  pp. 387-388.

[11] Ivi, p. 386, pp. 387-388, pp. 390-394, p. 395, p. 397, p. 399, p. 401.

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