Spoleto

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Spoleto

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Spoleto (ספולטו)

Provincia di Perugia. Fu colonia romana, in seguito occupata dai goti e, presa dai longobardi, fu eletta capitale del ducato omonimo. Costituitasi in comune (secoli XI-XII), S. fu sottomessa da Perugia nel 1324, passando, poi, al dominio della Chiesa. 

Un’antica e prestigiosa famiglia ebraica romana, quella dei de’ Pomis, si sarebbe stanziata a S. dopo il 1298, anno in cui l’Inquisizione torturò a morte il rabbino Elia de’ Pomis, dietro un’accusa non chiara, sequestrandone i beni e provocando, di conseguenza,  l’abbandono di Roma da parte dei membri superstiti della famiglia che cercarono rifugio altrove, stabilendosi, in gran parte, nella città umbra[1].;

Risale al 1342 il primo documento rimastoci sulla presenza ebraica nella città, che riferisce della condotta concessa dal Consiglio Generale del Comune di S. a Manuele ed Elia de Urbe[2].

Quasi trent’anni più tardi, Magister Vitale di Salomone venne assunto dal Comune come medico condotto, con  salario mensile e l’incarico gli fu rinnovato, alle stesse condizioni, nel 1393,  nel 1395 e nel 1397[3].

Nel 1393 il Comune concesse i capitoli feneratizi ad Aleuccio di Salomone de Urbe[4], residente a Narni, autorizzandolo ad aprire unno o più banchi a S. Il prestatore, la sua famiglia ed il suo entourage ricevettero il permesso di vivere in città, essendo equiparati agli altri cittadini. Aleuccio  non sarebbe stato obbligato a fenerare di sabato e durante le festività ebraiche e avrebbe avuto diritto alla libertà di culto. Insieme agli uomini del suo gruppo, Aleuccio avrebbe potuto portare armi sia di difesa che di offesa, di giorno come di notte e chiunque avesse cercato di recargli  molestia sarebbe stato multato per 50 fiorini[5].

L’anno successivo (1394), Magister Vitale di Salomone chiese al Comune di affidargli  la condotta che era stata concessa nel 1342 ai banchieri romani, richiesta che fu accolta favorevolmente[6].

A partire dagli anni Sessanta del ‘300, sono attestate anche alcune conversioni: nel 1362 si convertì, divenendo suora ed entrando nel convento delle Clarisse, Cecca, figlia di Musetto ebreo di S., ed il Comune le assegnò una cifra annuale per sopperire alle sue necessità. Nel 1394 fu la volta di un figlio di Magister Vitale, che assunse il nome di Battista[7]: il Comune, nell’intento di promuovere ulteriori conversioni, concesse al neofita un sussidio e poco dopo anche una nipote di Magister Vitale, Morbidella, decise di farsi cristiana e ottenne un sostegno economico, da usare come dote per sposare un cristiano[8].

Nel 1399 venne concessa una condotta di prestito a Guglielmo e Salomone di Abramo da Foligno e al loro     nipote Abramo di Guglielmo: essi, le loro famiglie ed il loro entourage ricevettero l’autorizzazione a stabilirsi a S., alle stesse condizioni stabilite, nel 1393, con Aleuccio di Salomone[9].

Dalla fine del XIV secolo e sino al primo trentennio circa del XV, il Comune, in ristrettezze finanziarie, prese in prestito denaro e lo restituì ad alcuni ebrei spoletini, menzionati nella documentazione: Elia di Angelo, Stella, Eliseo ed Angelo di Elia[10].

Nel 1416 dovendo far fronte alle spese per il funerale di Marino Tomacelli, rettore del ducato di Spoleto e parente del Papa, il Consiglio Generale impose un prestito forzato ad  Elia di Angelo e Angelo di Elia, per un periodo di sei mesi, senza interesse: in compenso, per i sei mesi in questione, i due avrebbero potuto aumentare l’interesse dei mutui dal 30 al  42% annuo[11].

Nel 1441 Ventura di Sabato presentò richiesta al Comune per avere il permesso di prestare denaro in città alle stesse condizioni concesse ai feneratori ebrei nel 1416, facendo presente che il suo banco era stato devastato, durante il recente sacco di S., e che lui stesso era stato fatto prigioniero dalle bande ribelli: i Priori concessero a Ventura una condotta ventennale. Poco dopo, il Consiglio Generale di S. ricevette una richiesta di rinnovo della condotta feneratizia anche da parte di Elia di Angelo e Angelo di Elia, che avevano ottenuto la condotta nel 1416 e il relativo rinnovo nel 1436, ma per breve tempo. Elia e Angelo facevano presente le gravi difficoltà cui erano andati incontro, durante il sacco di S., quando il primo e la famiglia erano stati derubati dei loro beni e ridotti in povertà, ragion per cui erano stati costretti a trasferirsi nella vicina Trevi, ma avrebbero desiderato tornare a S., dove erano nati[12].

Nello stesso anno, Elia di Angelo risultava prestare del denaro dietro la copertura di una vendita fittizia di un appezzamento di terreno e l’anno seguente veniva registrato un episodio analogo[13].

Nel 1443 una richiesta di condotta feneratizia, secondo le clausole convenute con Ventura di  Sabato nel 1441, venne presentata da un gruppo di israeliti, capeggiati da Isacco di Lazzaro, tra i quali figuarava anche Magister Matassia di Salomone, che era medico e chirurgo. Matassia, che desiderava stabilirsi a S. con gli altri, si era aggregato alla richiesta per la concessione del prestito, dato che la sola professione medica non gli consentiva introiti sufficienti. Il Comune decise di accettare la domanda[14].   

Nel 1451, in seguito alla predicazione quaresimale di fra Cherubino da S., i Priori adottarono alcune “riformanze” riguardanti gli ebrei: venne loro proibito macellare ritualmente gli animali fuori dalle loro case e vendere o dare la carne ai cristiani e fu stabilito l’obbligo del segno distintivo[15].

Date le difficoltà economiche in cui versava la città, i Priori decisero, nel 1456, che i pegni depositati dai cittadini presso il Comune, in garanzia di determinati contributi finanziari da pagare, potevano essere impegnati a loro volta presso i feneratori ebrei, limitatamente alle somme che il Comune doveva a questi ultimi. Otto giorni dopo il primo bando pubblico, i pegni avrebbero potuto essere posti in vendita[16].

L’anno successivo (1457) il  medico Magister  Leone risultava  imprigionato, per ignoti motivi, nella Rocca di Spoleto, mentre il governatore del ducato di S. era Calcerando Borgia, luogotenente di Pietro Borgia, nipote del Papa e Capitano Generale di Santa Romana Chiesa. In un breve dell’aprile dello stesso anno, Callisto III informò il Borgia di aver demandato il medico ebreo al nobile veneziano Giovanni  Torcello, cavaliere di Costantinopoli, disponendo che i  rappresentanti di quest’ultimo potessero conferire liberamente  con il prigioniero. Nuove disposizioni sarebbero seguite e, nel frattempo, Magister  Leone doveva essere ben custodito. Dopo un mese circa il figlio di Giovanni Torcello, Manuele, si presentò al Borgia, consegnandogli una missiva con le direttive del pontefice: consegnare il medico a chi avesse esibito il documento papale, dando a questi facoltà di trasferire il prigioniero fuori del territorio spoletino per la destinazione che avesse scelto. Anche Giovanni Torcello scrisse al Borgia, informandolo che il trasferimento di Leone faceva parte di uno scambio di prigionieri: in particolare, il Torcello si aspettava che la liberazione di Leone sarebbe servita al riscatto dei suoi figli tenuti prigionieri in Turchia[17].        

Nel 1463 fece testamento il feneratore Angelo di Guglielmo da Camerino, residente a S.: dall’inventario dei suoi beni risulta che, tra l’altro, egli possedeva una ricca raccolta di  pergamene e libri ebraici[18]. Del resto un banco della famiglia da Camerino a S. doveva essere esistito almeno dal 1454 ed era rimasto in attività per tutta la seconda metà del secolo, contando tra i soci, con tutta probabilità Isacco di Lazzaro da S.[19].

Nel 1464 quest’ultimo, Guglielmo di Ventura e Aleuccio di Mosè, residenti a S., pagarono al Comune una somma di denaro per l’ottenuta concessione di continuare a prestare nella città e, nello stesso anno, Angelo e Isacco di David da Sulmona, residenti a S., vi avevano anche un banco feneratizio e mettevano il loro capitale in società con Vitale di Israele da Perugia, residente a Todi[20].

Da un documento del 1467, risulta che Gaio di Gaio di Camerino, residente a S., venne imprigionato per ordine del governatore per gravi motivi (che tuttavia non vengono specificati). Per essere scarcerato, Gaio promise di non lasciare la città senza il permesso del governatore, sotto pena di una fortissima ammenda pecuniaria: garantiva per Gaio Daniele di Giuseppe da Fermo, residente a S.[21].

Nel 1469 Isacco di Lazzaro da S. faceva parte dei rappresentanti della comunità ebraica del ducato  che nominarono due procuratori per rappresentarli presso il vice Tesoriere e il vice Camerlengo della Camera Apostolica di Roma, probabilmente in relazione al ritardo nel pagamento della vigesima imposta da Pio II [22]

Dalla seconda metà del XV secolo, gli ebrei di S. apparivano impegnati nel comprare e vendere terreni in città o nel distretto, oltre a possedere immobili anche fuori della Vaita Petrenga[23].

Nel 1472 Raffaele di Isacco fu multato per aver offeso i Priori[24] e, qualche anno più tardi (1480), un giovane, identificato solo come figlio di Mosè[25], fu processato con l’accusa di aver avuto una relazione con una donna cristiana sposata (non si conosce, però, l’esito del processo). Sempre nello stesso anno, comparvero di fronte al giudice del podestà Isacco di Lazzaro ed un soldato i quali, sulla piazza del mercato, alla presenza di numerosi testimoni, si erano insultati e minacciati reciprocamente di accoltellarsi: la sentenza non ci è rimasta[26]

Tra il 1489 e il 1492, vediamo che Deodato e Manuele di Mosè prendevano denaro a prestito da un cristiano, cui avevano venduto una casa e che avevano poi ipotecato in suo favore[27].

Nel 1490 vennero processati due ebrei, sorpresi a giocare d’azzardo, che furono rilasciati solo dopo aver promesso che non avrebbero prodotto carte da gioco o dadi[28].

Nello stesso anno, nell’ambito della serie di riforme proposte dal francescano Andrea da Faenza per moralizzare la vita della città, venne proibito agli israeliti di macellare ritualmente la carne e di venderla nelle macellerie spoletine. L’anno successivo, Andrea da Faenza, che aveva predicato durante il periodo quaresimale nella cattedrale di S., propose al Consiglio dei Priori di fondere il Monte Frumentario con il Monte di Pietà: il Consiglio accettò, adducendo come giustificazione il desiderio di porre fine all’attività feneratizia ebraica in città[29].  

Nel 1493 il procuratore del Comune si recò dal governatore di S. e, in presenza di alcuni ebrei locali (Raffaele e Bonaiuto di Isacco, Deodato di Mosè e Mosè di Aleuccio), gli chiese di emettere provvedimenti per obbligare gli ebrei a vivere separati dai cristiani, in conformità con le disposizioni del diritto canonico. Inoltre, egli chiese al governatore di non rinnovare la condotta feneratizia e di revocare l’autorizzazione a fenerare, dato che il Monte di Pietà era stato istituito[30].

Nel 1496 il Comune prese comunque in prestito dai quattro feneratori appena ricordati una somma per finanziare il viaggio a Roma di un inviato, secondo la richiesta dei cittadini di Monteleone, e la restituì poco dopo[31].

Alcune conversioni sono attestate nel XV secolo: nel 1416, un’altra nipote di Magister Vitale, seguì l’esempio della sorella Morbidella, convertendosi e ottenendo dal Comune un aiuto finanziario come  dote per il suo futuro matrimonio con un cristiano. Nel 1453 al neo-battezzato Simone di Servadio fu pagata dai Priori la veste bianca, indossata durante la cerimonia battesimale. Tra il 1456 e il 1458 anche Benigno del fu Ventura di Sabato, si convertì, assumendo il nome di Giovanni e i Priori lo nominarono loro domicellus et familiaris, con uno stipendio mensile[32]. Nel 1496 una bambina di 5 anni, Chiara Stella, venne tenuta per alcuni giorni nel convento di S. Matteo dell’ordine degli Agostiniani dalle suore, che sostenevano avesse manifestato l’intenzione di farsi cristiana. I genitori della bambina, Abramo e Gentile, si appellarono al vescovo di S. per riaverla, ma questi stabilì che la bambina fosse tolta dal convento per essere affidata ad una donna cristiana di S., in  attesa che le autorità religiose avessero appurato le reali intenzioni di Chiara rispetto alla conversione. Dopo svariate diatribe, Alessandro VI, sollecitato ad intervenire, decise che la bambina ritornasse alla casa paterna, in attesa di giungere all’età in cui avrebbe potuto valutare con maggior cognizione di causa la decisione di farsi cristiana[33]

Nel 1504 Bonaiuto di Isacco di S., insieme ad un gruppo di correligionari di Foligno, nominò come procuratore il mercante folignate Crisante Borsiani per perorare presso la Camera Apostolica la causa degli ebrei del ducato spoletino, che tentavano di convincere la Camera stessa a revocare l’obbligo di pagare la tassa per i giochi dell’Agone e Testaccio, sostenendo di aver sempre contribuito ai palii locali, ma di non essere stati mai costretti a contribuire a dei giochi che si svolgessero lontano dalle loro città. Gli ebrei umbri facevano, inoltre, presente di aver aperto un deposito con il mercante Bernabeo di Michelangelo Onofri di Foligno per la vigesima e le altre tasse che la Camera Apostolica esigeva da loro[34].

Durante il primo trentennio del XVI secolo, il Comune dovette ricorrere ai prestiti ebraici, impegnando spesso tazze d’argento, per lo più di proprietà comunale, ma, talvolta, anche privata[35]

Nel 1507 due giovani di Monteleone svaligiarono il banco di Bonaiuto di Isacco di S., rubando denaro e pegni: il padre dei due, per evitarne l’incarcerazione o la cacciata, restituì i beni rubati e indennizzò Buonaiuto, pagandogli una somma in contanti[36].

L’anno successivo, Raffaele di Isacco versò al tesoriere della Camera Apostolica la somma di 300 fiorini, costituente la legittima parte dei beni paterni cui aveva diritto il figlio Servadio. Tale somma venne consegnata al tesoriere per ordine del governatore di S. come ammenda, dato che Servadio era stato riconosciuto colpevole di uxoricidio. In una supplica al governatore Raffaele affermò che il suo patrimonio non superava i 1.000 fiorini e, pertanto, chiese una riduzione dell’ammenda da pagare per il figlio, facendo presente che Servadio aveva involontariamente ucciso la moglie, che lo malmenava[37].

Nel 1510 tale Salomone si appellò al Consiglio Generale della città per essere incluso nella condotta (rinnovata per gli altri ebrei), sostenendo di essere stato depennato dalla lista richiedenti, perché caduto in povertà. A sostegno della sua richiesta Salomone fece presente di discendere dai primi israeliti residenti a S.[38].

In vista della pace con Norcia e Trevi, il Comune avrebbe dovuto essere in contatto con Roma e, per finanziare i viaggi degli inviati, chiese un prestito ai banchieri, promettendo di rifonderli in granaglie: altri  rimborsi di tal genere si successero nel 1520 e nel 1522[39].

Nel 1519 Servadio di Raffaele, Consolo di Ventura e Isacco di Buonaiuto si appellarono al Consiglio Generale della città, per essere protetti dagli eccessi della popolazione durante la Settimana Santa: in particolare, fecero presente che gli adulti si aggregavano ai ragazzi nella tradizionale sassaiola, approfittandone per sottrarre i pegni. Gli ebrei minacciarono di andarsene qualora le autorità  non li avessero soccorsi ed il Consiglio Generale decise, pertanto, di permettere solo ai minori di quindici anni di prendere parte alla sassaiola, dietro pena di una multa per i trasgressori[40]

Nel 1531 il medico Magister Vitale Alatino (di cui in seguito è attestata l’attività feneratizia) chiese e ottenne l’esenzione dalle tasse comunali. Nel 1539 egli avrebbe poi ottenuto una condotta feneratizia, direttamente dalla Camera Apostolica di Roma[41].

I Priori di S., nel 1539, nominarono una commissione di 12 cittadini per scegliere il luogo in cui avrebbero dovuto vivere in residenza coatta gli ebrei e stabilirono, inoltre, l’obbligo del segno. Nello stesso anno venne imposta agli ebrei una tassa speciale pro pannis Palatii  e Nello da Foligno fu arrestato e detenuto nel Palazzo dei Priori sino a che non rivelò i nomi degli spoletini che avevano venduto abusivamente grano a Foligno, servendosi di lui come intermediario: a seguito del pagamento di un’ammenda, Nello fu liberato e, poco dopo, tornò a fare affari col Comune[42].

Sempre nel 1539, il Consiglio Generale confermò l’autorizzazione agli ebrei per l’esercizio dell’attività feneratizia pro commoditate pauperum in hiis temporibus penuriosis. Essi avrebbero dovuto prestare 100 scudi al comitato cittadino responsabile dell’acquisto del grano e avrebbero dovuto pagare annualmente una tassa di 10 scudi, da consegnare all’epoca della festa di S. Maria, in agosto. Magister Vitale Alatino, che aveva ricevuto il privilegio direttamente dalla Camera Apostolica, sarebbe stato esentato dal pagamento della tassa feneratizia, ma avrebbe dovuto prestare entro venti giorni 100 scudi  al Comune per l’acquisto di grano, pena la mancata ratifica del privilegio stesso. Inoltre,  il Comune concesse una condotta feneratizia a  Giusta di Servadio da S. e al marito Graziadio (Nello) da Foligno e il diritto di risiedere a S. con tutto il loro entourage, a patto che ottenessero la necessaria autorizzazione papale. A Giusta e a Nello venne richiesto di prestare annualmente 200 fiorini al comitato cittadino per l’acquisto del grano e di pagare una tassa feneratizia di 20 fiorini all’anno, da consegnare ancora una volta alla festa di S. Maria, che sarebbe servita per finanziare la manutenzione stradale: dalle altre tasse e balzelli sarebbero stati esentati. Si evince che Nello, inoltre, aveva già prestato senza interesse al  Comune 200 fiorini per il 1539[43].

Nel 1540 il Comune di S. chiese a  Magister Vitale Alatino e a Nello da Foligno un prestito di 200 ducati per finanziare la spedizione di Pier Luigi Farnese (figlio di Paolo II) che, a capo dell’armata papalina, si accingeva a reprimere la ribellione perugina[44].

Nel 1543 il Comune decise di imporre un contributo forzato agli ebrei di S. per finanziare l’imminente soggiorno di Paolo III, pena l’espulsione dalla città e dal distretto.

In seguito alla scomunica di S. (1543) per scarsa osservanza delle pratiche religiose, il Comune decise di ripristinare l’obbligo del segno. Nello stesso anno, il feneratore Raffaele di Abramo, di cui era già stata decretata l’espulsione per motivi rimastici ignoti, fuggì, probabilmente portandosi dietro i pegni, e le autorità cittadine decisero di chiedere a Roma consiglio sul da farsi[45].

Nel 1545 gli spoletini decisero di stanziare una somma, presa a prestito dagli ebri locali, per i consueti regali  ai cardinali Farnese e Cesi[46] e, nello stesso anno, il medico Magister Aquila chiese al Comune una condotta feneratizia, come quella concessa precedentemente a Nello, nel frattempo convertitosi[47], e promise di pagare una tassa annuale di 5 scudi per l’acquisto di tappezzerie per il Palazzo dei Priori. Il Consiglio Generale accettò la richiesta, previa autorizzazione della Camera Apostolica, purché Aquila pagasse al Comune una tassa annuale di 10 scudi[48].

Tre anni più tardi, il Comune chiese agli israeliti locali un prestito per coprire le spese della costruzione di una fontana vicino alla Porta di S. Pietro[49] e, ancora nel 1548, per acquistare grano per il fabbisogno cittadino, chiese a Magister  VitaleAlatinoun prestito considerevole, dietro la garanzia di tre cittadini: se Vitale avesse rifiutato, sarebbe stato obbligato a lasciare S. entro 15 giorni e le sue proprietà sarebbero state confiscate. Per lo stesso scopo venne anche chiesto un prestito a Magister Aquila e si impose una tassa agli altri correligionari. Magister Vitale fece presenti i passati prestiti e l’insolvenza del Comune, che si risolse a controllare insieme a lui lo stato dei fatti[50].

Per l’acquisto di grano, il Comune, nel 1551, chiese poi al feneratore Magister Leone di Vitale da L’Aquila un prestito ingente, annullando, nel suo caso, il divieto di prestito stabilito in precedenza per gli ebrei spoletini. Tuttavia, non volendo fare per Leone un’eccezione, il Consiglio Generale decise di chiedere agli altri ebrei se volessero rimanere nella città a fenerare. Il prestito fatto da Magister Leone venne garantito da quattro cittadini e, poco dopo, un ulteriore prestito per l’acquisto di grano fu elargito da Magister Leone, che lo scontò dalla tassa che doveva pagare annualmente al Comune[51].

Nel 1551 l’Università di Perugia conferì il titolo di dottore in  medicina a David di Isacco de Pomis di S., con il permesso del cardinale Giulio della Rovere di Urbino, legato pontificio, e del sostituto legato[52].

Ancora nel 1551 Magister VitaleAlatino fece richiesta al Consiglio Generale per il rinnovo della condotta feneratizia, ottenendo parere favorevole, a patto che non aumentasse il tasso e promettesse di prestare al Comune 100 scudi d’oro, senza interesse[53].  

Nel giro di due anni si susseguirono altri  prestiti, chiesti dal Comune in occasioni diverse[54].

Nel 1553 il Consiglio Generale obbligava i banchieri di S. a tenere i libri contabili in italiano o in latino e non in ebraico, pena una multa[55] e, nello stesso anno, per riorganizzare i condotti dell’acqua della città, vennero obbligati ad un prestito al 10%  i più ricchi della città, cioè Magister Leone da L’Aquila ed un altro, che non veniva nominato esplicitamente. L’anno successivo, agli ebrei venne chiesto di finanziare l’acquisto delle insegne e dei tamburi per il battaglione dell’armata papale, che stava per arrivare in città. Poco dopo, fu loro domandato anche un prestito al 12% per comprare grano[56].

Nel 1556 Magister Leone da L’Aquila ed il figlio Consolo ricevettero il permesso di continuare a fenerare a S., previa esibizione della tolerantia papale. Due anni più tardi, Consolo di Leone, a nome dei correligionari, sollecitò l’intervento del Consiglio Generale per far cessare le vessazioni di ogni tipo cui erano sottoposti da parte dei rappresentanti della Camera Apostolica. Nello stesso anno (1558), Magister Leone decise di smettere l’attività feneratizia e di lasciare la città, promettendo di restituire i pegni in suo possesso, prima della partenza[57].

Nel 1562 gli ebrei furono tassati per 4 scudi per l’acquisto dei tamburi per le truppe del governatore di S., Federico  Porro (nipote di Pio IV)[58].

Nel 1564 Dattilo di Signorello da S., residente a Perugia, che agiva anche per conto di Leone di Magister Vitale di S., approvò l’accordo tra la Camera Apostolica di Roma e le Comunità ebraiche umbre per la vigesima. L’anno successivo queste ultime dovettero versare la loro quota a quella di Roma per i giochi di Agone e Testaccio: nell’elenco degli ebrei umbri, redatto per l’occasione, figurava Pazienza, vedova di Mosè di Manuele da Recanati, residente a S.[59].  

Nel 1566 Smeralda Alatino ed il marito, Benedetto di  Mosè, consegnarono 14 libri ebraici al vicario generale del vescovo di S. perché fossero corretti dal censore ecclesiastico, pagando le spese per tale operazione[60].

Quasi una decina di conversioni sono  attestate nel XVI secolo, accompagnate quasi sempre da aiuti finanziari. Nel 1520 il neofita Giulio di Angelo, residente a S., ammise di aver prestato denaro ad un cristiano. Cinque anni dopo, ottenne comunque un aiuto dal Comune per la dote della figlia. Nel 1541 Guglielmo, di recente convertitosi, ricevette un contributo dal Comune e, presumibilmente nell’ottobre del 1542, fu battezzato a Roma il feneratore di cui è stata ricordata l’attività a S., Graziadio alias Nello (Hananel) da Foligno, che assunse il nome di Alessandro Franceschi, con il quale si rese tristemente noto ai suoi ex-correligionari, che perseguitò accanitamente.

Nel 1552 il Consiglio Generale stabilì di elargire sovvenzioni ai neofiti, senza ulteriori specificazioni: nello stesso anno, vennero presi provvedimenti per aiutare finanziariamente due convertite, Marta e Maddalena. Nel 1554 fu impiegato come campanaro comunale un convertito sordo-muto, Angelo, che aveva presentato richiesta per ricevere un sostegno economico. Nel 1558 si decise di dare 10 fiorini ad un ebreo che intendeva convertirsi ed anche tale Isacco, che, otto anni dopo, intendeva convertirsi, ricevette aiuti dal Consiglio Generale. Da un documento del 1571 risultava essersi convertita, precedentemente, Agata, figlia dello spoletino Daniele[61].

A seguito dell’espulsione degli ebrei da S., come dal resto degli Stati della Chiesa, voluta da Pio V, nel 1569, l’ultimo documento relativo alla presenza ebraica risale al 1585, quando Ventura di Semmo e Salvatore di Daniele, a nome di un gruppo di correligionari, chiesero alle autorità spoletine il permesso di tornare a stanziarsi nella città, dopo che papa Sisto V aveva concesso agli israeliti di tornare a vivere nei centri dello Stato Pontificio. Il Consiglio Generale approvò all’unanimità il ritorno e, due anni più tardi, il cardinale Enrico Caetani, Camerlengo papale, concesse ad altri cinque di risiedere a S.[62].  

Attività economiche

Gli ebrei di S. furono attivi principalmente nel prestito. Nel 1393, l’interesse autorizzato era del 30%  per le somme superiore ad 1 fiorino, mentre per quelle inferiori il feneratore era  autorizzato a concordare il tasso con i clienti. I pegni non riscattati avrebbero potuto essere venduti dopo 13 mesi ed ogni banco operante in città avrebbe dovuto pagare una tassa feneratizia annuale di 5 lire. Nel 1399, l’interesse autorizzato era del 48% per i cittadini e gli abitanti del territorio di S., mentre per i forestieri, che avessero chiesto un prestito inferiore ad 1 fiorino, l’interesse era lasciato al patteggiamento tra il feneratore e il cliente. Da un documento del 1416 risulta che, in seguito, l’interesse era stato abbassato al 30% annuo: tuttavia, sembra che i feneratori ne praticassero, comunque, uno più alto. Da un atto dello stesso anno sappiamo che il tasso feneratizio autorizzato era del 36%, poi portato al 42%, in seguito al rifiuto dei banchieri di prestare in condizioni ritenute assolutamente non remunerative[63].

Dal primo ventennio del XV secolo, sono, tuttavia, registrate anche altre attività estemporanee, come il dare a noleggio carrozza e cavalli ai Priori che dovevano recarsi per ufficio fuori città[64] o vendere alle autorità tessuti, frange e cordelle per gli stendardi comunali (o per una bandiera con lo stemma pontificio) e simili[65].    

Risulta anche qualche rara vendita di bestiame, di olio o di un abito[66]

Nel 1471 Angelo di David da Foligno, residente a S., ottenne dal Comune il monopolio per l’anno 1472 del commercio degli stracci e degli abiti usati, dietro pagamento di 17 fiorini  e 10 bolognini. Nel 1476 Giuseppe di Abramo di Perugia, residente a S., ebbe a sua volta il monopolio del commercio degli stracci e dell’usato per il 1477, offrendo anch’egli una somma. Da un ulteriore documento risulta che Giuseppe era gabellarius gabelle cenciorum e che la cifra pagata per il monopolio era di 10 fiorini.  Nel 1551 Dattilo di Sabato e Benedetto di Mosè costituirono una società per la vendita della stracciaria, cui si unirono anche altri ebrei[67].

Eccezionale, infine, la vendita al Comune di 2.000 mattoni, per pavimentare una piazza, compiuta, nel  1491, da Raffaele di Isacco[68].

Sinagoga

Dal testamento redatto, nel 1461, da Mosè di Abramo, residente a S., si apprende che qui esisteva una sinagoga, di cui non è specificata l’ubicazione[69].

Da un documento del 1516 risulta che la sinagoga fosse nella casa degli eredi di Bonaiuto di Isacco, in Vaita Petrenga. Due anni dopo, Isacco di Buonaiuto chiese di riparare un muro dell’edificio, che era pericolante, e  ottenne dal vicario vescovile l’autorizzazione ai lavori, a patto che il muro non venisse decorato e che rimanesse simile a com’era precedentemente[70].

Quartiere ebraico.

Da un documento del 1503, risulta che vi era i S. una strada chiamata la strata delli judei, ubicata vicino alla Piazza del Mercato, nella Vaita Petrenga, dove vivevano molti ebrei e dove vi erano le macellerie ebraiche che, con il loro cattivo odore, disgustavano gli spoletini. Nel 1552 i Priori decisero di nominare due rappresentanti per raccogliere fondi per varie migliorie cittadine che il Comune si riprometteva di intraprendere, tra cui la riparazione della strada delli judei. Nello stesso anno giorno, tuttavia, i Priori nominarono una commissione di quattro cittadini per formulare dei capitula che avrebbero dovuto regolare la residenza coatta degli ebrei a S., che era stata ventilata già dal 1493, dopo che il Monte di Pietà era stato fondato. Anche nel 1539 e nel 1543 si era riproposto il problema del luogo di residenza da assegnare agli israeliti, che non si voleva abitassero nelle vie del centro: tuttavia, il progetto di isolarli in periferia, istituendo un ghetto, non fu mai realizzato per le difficoltà tecniche[71]

Cimitero

Dal testamento redatto, nel 1461, da Mosè di Abramo, residente a S., si apprende che il cimitero ebraico era ubicato in un luogo chiamato Valiano[72].

Nel testamento di Mosè di Aleuccio di Terni, del 1500, il cimitero viene menzionato come ubicato fuori di Porta S. Pietro[73].

Rabbini, dotti, personaggi famosi

Le figure di spicco della comunità spoletina furono David de’ Pomis e alcuni membri della famiglia Alatino (Alatini).

David de’ Pomis (1525-1593), medico che coltivava anche interessi  linguistici e filosofici, nacque a S. e vi visse per qualche anno. Fu educato, a Todi, dagli zii  Vitale (Yehyel Rehabya) e Mosè Alatino. Dopo aver studiato filosofia e medicina a Perugia, addottorandosi nel 1551, fu varie in città, tra cui Venezia, dove pubblicò la maggior parte delle sue opere, tra cui è famoso soprattutto il dizionario trilingue (ebraico, latino, italiano)  Tzemah David, nel quale sono anche dibattuti temi scientifici e storici. Nella prefazione al dizionario, il de’ Pomis narra la propria genealogia (da cui si apprende dello stanziamento a S. di parte della famiglia alla fine del XIII secolo) e la sua autobiografia. Un’altra opera da menzionare è il De medico hebraeo enarratio apologetica (Venezia, 1588), in cui contrastava le accuse contro gli ebrei e, in particolare,  contro i medici ebrei[74]

Dall’inizio degli anni Trenta del XVI secolo, visse a S. Vitale (Yehyel Rehabya) Alatino, che esercitò con ottimi profitti l’attività creditizia e fu  rinomato medico, alle cui cure si affidarono Giulio III e il professore di medicina perugino Bartolomeo Eustachio. Dopo il decreto di espulsione dal territorio papale, si recò a Ferrara[75]. Il fratello di Vitale, Mosè Amram Alatino (1529-1605), fu anch’egli medico a S. e, dopo la cacciata, si recò a Ferrara e, poi, a Venezia. Tradusse in latino dalla versione ebraica di Serahya Hen la parafrasi di Themistius del De coelo di Aristotele (Venezia, 1574). In seguito, tradusse in latino un commento di Galeno al De aere, aquis et locis  di Ippocrate, tratto dalla versione ebraica di Shlomoh ben Natan ha-Meati (pubblicato anonimo a Parigi, nel 1679). Secondo la testimonianza di David de’ Pomis, tradusse in latino la prima parte del “Canone” di Avicenna, andata perduta[76]. Il primo membro della famiglia Alatino che ci è noto per la sua attività culturale, fu il padre, Petahya Jarè ben Barukh, che visse, nel XVI secolo, a S., Roma e Recanati. Di lui ci sono rimasti dei responsa halakhici[77]

Bibliografia

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Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963.

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Toniazzi, M., I “da Camerino”: una famiglia ebraica italiana fra Trecento e Cinquecento, tesi di dottorato presso l’Università di Firenze 2013, Tutor Prof. G. Pinto.

Vogelstein, H. - Rieger, P.,  Geschichte der Juden in Rom, Berlin 1895-96.


[1] Vogelstein, H. - Rieger, P.,  Geschichte der Juden in Rom, I, pp. 256-257; la notizia, che è tratta dalla prefazione del Tzemah David  di David de’ Pomis, è stata riportata anche dal Roth e  dal  Milano. Roth, C., The History of the Jews of Italy, p. 139; Milano, A., Storia degli ebrei in Italia, p. 82.

[2] Toaff, A., The Jews in Umbria, doc. 152.

[3] Ivi, doc. 524, 553, 577, 599. Magister Vitale compare anche nell’elenco dei cittadini, che, nel 1400, avevano illegalmente fatto deviare l’acqua dall’acquedotto cittadino.  Ivi, doc. 627.

[4] In seguito Aleuccio avrebbe lasciato Spoleto per trasferirsi ad Assisi. Cfr. ivi, doc. 756.

[5] Ivi,  doc. 539.

[6] Ivi, doc. 556.

[7] Battista si ritrova, menzionato con il titolo di Magister, come  prendente parte al Consiglio Generale di S., nel 1416, in occasione della discussione circa un provvedimento (che non venne approvato) mirante a ledere economicamente i feneratori a vantaggio del Comune. Ivi, doc. 721. Pochi mesi dopo, Battista entrava a far parte del Consiglio Generale di S., in qualità di capo (insieme a un altro) della corporazione dei farmacisti della città. Ivi, doc. 726.

[8] Ivi, doc. 211, 560, 561, 562, 569.

[9] Ivi, doc. 616.

[10] Ivi, doc. 611, 666, 798.

[11] Ivi, doc. 722; in seguito, il Comune risarcì il debito contratto in tale occasione con Elia e Angelo di S. Ivi, doc. 735.

[12] Ivi, doc. 985, 995.

[13] Ivi, doc. 996, 1014.

[14] Ivi, doc 1032.

[15] Ivi, doc. 1151.

[16] Ivi, doc. 1227.

[17] Ivi,doc. 1243. Per ulteriori dettagli sulla vicenda, di cui è stata fatta l’ipotesi che fosse protagonista il celebre Yehudah Messer Leon, sotto le spoglie di Magister Leone, cfr. Toaff, A., Il caso di Maestro Leone, medico ebreo (Spoleto 1457), in Spoletium XXXI-XXXII  (1990), pp. 187-189.

[18] Ivi, doc. 1373; per l’elenco delle opere ebraiche possedute da Angelo, cfr. ivi, p. 745-747. V., inoltre, Toaff, A., L’eredità di Angelo da  Camerino (Spoleto 1463), in Annuario di Studi Ebraici, XI, Roma 1988, pp. 57-84 e, in particolare, pp. 57-68.

[19] Toniazzi, M., I “da Camerino”, pp. 76-77. Per la presenza, più in generale, di attività di ebrei camerti a S. e, viceversa, di ebrei spoletani a Camerino, si veda ivi, passim.

[20] Toaff, A., The Jews in Umbria doc. 1397, 1398.

[21] Ivi, doc. 1455.

[22] Ivi, doc. 1509.

[23] Ivi, doc. 1309, 1419, 1664, 1827, 1982.

[24] Ivi, doc. 1602.

[25] Il giovane va identificato con Venturello di Mosè da Bevagna, mercante di S. Toaff, A., Il vino e la carne, p. 17.

[26] Toaff, A., The Jews in Umbria, doc. 1783, 1796.

[27] Ivi, doc. 1952.

[28] Ivi, doc. 1960.

[29] Ivi,  doc. 1962, 1978.

[30] Ivi, doc. 2009, 2010.

[31] Ivi, doc. 2037. Nel 1497  il Comune presi in prestito un’altra somma di denaro dai quattro feneratori della città (Raffaele, Bonaiuto, Ventura e Mosè), restituendola. Ivi, doc 2057.

[32] Ivi, doc. 734, 1179, 1216.

[33] Ivi, doc. 2046; vedi anche  Toaff, A., Il vino e la carne, pp. 194-195.

[34]  Ivi, doc. 2150. Nonostante i tentativi di sottrarsi al pagamento della tassa per i giochi romani, gli ebrei di S. dovettero adattarsi a questo ulteriore esborso;  nel  1523 Servadio di Raffaele, Isacco e Abramo di Buonaiuto e Consolo di Ventura, residenti a S., non  erano d’accordo sulla loro quota di tasse per  l’Agone e Testaccio e si affidarono all’arbitrato di Magister Ventura di Cingoli e di Leone da Camerino, in passato tesoriere delle comunità ebraiche delle Marche. Ivi , doc. 2344

[35] Ivi, doc. 2175, 2207, 2210, 2214, 2216, 2212, 2221, 2222, 2239, 2241, 2258, 2260, 2263, 2329, 2342, 2351, 2361, 2365, 2368.

Nel 1512 venne chiesto agli ebrei di prestare una somma senza percepire l’interesse, per sopperire alle spese di un inviato a Perugia, per consultarsi con il legato pontificio. Ivi, doc. 2252.

[36] Ivi, doc, 2195.

[37] Ivi, doc. 2204. Nel 1510 Servadio si risposò con la figlia di un ebreo di Recanati e Raffaele, presumibilmente in seguito agli incresciosi precedenti coniugali di Servadio, promise di aumentare notevolmente la dote. Nello stesso anno, la figlia di Raffaele, Ricca, tornò alla casa paterna, abbandonando quella del marito, Magister Abramo da Montolmo; Raffaele, tuttavia, fece tornare la figlia al legittimo consorte,  con la clausola che, se dopo un anno avesse continuato a rifiutare la convivenza, avrebbe ricevuto dal marito il divorzio e la restituzione della dote. Ivi, doc. 2219,  2225. 

[38] Ivi, doc. 2231.

[39] Ivi, doc. 2315, 2330, doc. 2340.

[40] Ivi, doc. 2321.

[41] Ivi, doc. 2385, 2397, 2404, 2418, 2419.

[42] Ivi, doc. 2410, 2411, 2413, 2414, 2416. Su Nello (Hananel) da Foligno, vedi  più  avanti, sotto l’elenco dei convertiti del secolo XVI. 

[43] Ivi, doc. 2420, 2421.

[44] Ivi, doc. 2424.

[45] Ivi, doc. 2440, 2441, 2442.

[46] Ivi, doc. 2447.

[47] Nello, nel 1548, si rivolse al Consiglio Generale di S. per ottenere aiuto economico nella sua nuova condizione di neofita, ma il Consiglio glielo rifiutò  per il presente e per il futuro, senza dare spiegazioni. Cfr. ivi, doc. 2478. 

[48] Ivi, doc. 2449. Magister  Aquila, tuttavia,sidichiarava disposto a pagare solo 5 scudi. Da un documento del 1549, risulta che egli pagava 10 fiorini; la stessa cifra pagava anche nel 1550.  Ivi, doc. 2452,. 2493,  2504.

[49] Ivi, doc. 2476.

[50] Ivi, doc. 2483, 2484, 2585.

[51] Ivi, doc. 2521, 2524.

[52] Ivi, doc. 2525.

[53] Ivi, doc. 2526.

[54]  Sempre nel 1551, il Comune prese un prestito dagli ebrei spoletini per un regalo da fare al governatore di S., cardinale Baldovino del Monte (fratello di Giulio III), al cardinale legato, Alessandro Farnese, e al capitano generale, Ascanio della Corgna (nipote di Giulio III). Per estinguere questo debito, il Comune avrebbe, in seguito, messo in vendita un edificio di sua proprietà. L’anno successivo, il Comune ricorse agli ebrei spoletini per un prestito di 46 scudi super munere mittendo ad Urbem. Gli ebrei in questione risultavano essere: Sara, Magister Vitale, Magister Leone, Dattiluccio, Lazzaro e Mosè. Sara figura ulteriormente in un documento del 1561, in cui il Consiglio Generale decideva di restituirle un vecchio credito di 10 fiorini. Pro bullecta terrarum Arnulfarum venivano prestati 28 scudi da due cittadini cristiani e da Magister Leone da Aquila. Ivi, doc. 2527, 2530, 2536, 2537, 2624.

[55] Ivi, doc. 2552, 2556.

[56] Ivi, doc. 2558, 2571, 2577.

[57] Ivi, doc. 2593, 2603, 2608.

[58] Ivi, doc. 2625.

[59] Ivi, doc. 2641, 2650.

[60] Ivi, doc. 2660.

[61] Ivi, doc. 2333, 2355, 2430, 2449, 2542, 2551, 2564, 2575, 2576, 2604, 2652, 2718. Su Hananel  da Foligno, cfr. Simonsohn, S., Some Well-known Jewish Converts during the Renaissance, pp.  31-38.

[62] Ivi, doc. 2742; Loevinson, E., Banques de prêts, p. 26.

[63] Toaff, A., The Jews in Umbria, doc. 539, 616, 721, 724, 725.

[64] Ivi, doc. 769, 828.

[65] Ivi, doc. 961, 1074, 2240, 2334.

[66] Ivi, doc. 1579, 2160.

[67] Ivi, doc. 1586, 1717, 1733, 2519.

[68] Ivi, doc. 1984.

[69] Ivi, doc. 1327.

[70] Ivi, doc. 2301, 2312. La sinagoga era ubicata in prossimità della chiesa  chiamata  S. Gregorio della Sinagoga. Cfr. Toaff, A., Il vino e la carne, p. 229. 

[71]  Toaff, A., The Jews in Umbria, doc. 2009, 2139, 2413, 2441, 2544, 2545; cfr. Idem, Il vino e la carne, p. 229-232. La Vaita Petrenga compare in svariati documenti, dagli anni Venti del XV secolo in poi, attestanti la residenza o il possesso di immobili in loco. Cfr. Toaff, A., The Jews in Umbria,  doc. 784, 820, 1125, 1542, 1601, 1804, 1952.

[72] Ivi, doc. 1327. Sul cimitero ebraico, vedi anche ivi, doc. 1769.

[73] Ivi, doc. 2107; cfr.  anche doc. 2352.

[74] Per questi e per ulteriori particolari, vedi Roth, C., The Jews in the Renaissance, pp. 223-225; Idem, Venice, pp. 186-188.

[75] Per queste e per ulteriori informazioni, cfr. Cassuto, U., E. J., alla voce “Alatino, Jechiel Rechabja (Vitale)”.

[76] Per questi e ulteriori particolari, cfr. Cassuto, U., E. J., alla voce ”Alatino, Mose Amram”.

[77] Cassuto, U., E. J., alla voce “Alatino (Alatini)”.

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